Uno spettacolo scivolosissimo quello che si tiene in una piazza mentre cade un’incessante pioggia e che tenta di approcciarsi a una questione ben più scivolosa dell’acqua: la cosiddetta ideologia woke (o wokeism o wokeness, in base all’accezione che gli si dà parlandone) in Italia meglio conosciuta nella più ampia veste di cancel culture. Una domanda si inerpica nello scrivere a riguardo – specie all’alba della neoeletta presidenza statunitense, che vi ha da sempre molto investito conferendogli il senso dispregiativo –: come parlarne criticamente senza risultare di destra? La risposta che questo spettacolo potrebbe darci è: parlandone, accomodandosi nello scomodo.
Il 12 settembre 2024, in prima italiana, Xing (organizzazione culturale bolognese che progetta e cura eventi, produzioni e pubblicazioni su “temi della cultura contemporanea, con una particolare attenzione alle tendenze generazionali legate ai nuovi linguaggi”) presenta El Adaptador, performance del coreografo Marco Berrettini con la danzatrice svizzera Nastassja Tanner.
Nato in Germania, il danzatore e coreografo italiano Marco Berrettini, lavora dal 2002 con *Melk Prod (compagnia da lui fondata con cui produce anche questo spettacolo) a Ginevra. In adolescenza scopre la disco dance, poi si forma a Londra passando per Pina Bausch all’Università delle arti di Folkwang, dove nasce l’interesse per il teatro-danza e la coreografia. Di lui si legge: “Artista temerario e non sottomesso a norme e convenzioni, promulgatore di una ‘danza per tutti’ e contro lo ‘spettacolarmente corretto’, segue la massima di Nietzsche: bisogna danzare la vita”.
Quella che segue è da considerarsi non una recensione di El Adaptador ma una possibile guida alla fruizione di uno spettacolo tanto godibile nella sua semplicità di forma, quanto complesso nella stratificazione delle tematiche che tentano di emergere. Da qui l’idea (qui a Bologna si direbbe) “paciugata” di accorpare a suggestioni della sottoscritta, parti di un dialogo telefonico col coreografo attorno allo spettacolo.
L’adattatore
Adattatóre s. m. [der. di adattare]. – 1. (f. –trice) non com. Chi compie determinati adattamenti. 2. Nella tecnica, denominazione di dispositivi che servono ad adattare parti di congegni a usi determinati, o ad adattare un apparecchio a un uso diverso da quello per cui è stato concepito.
Se c’è una cosa che Berrettini non sa fare è adattarsi. El Adaptador trae spunto da considerazioni che il coreografo ha sviluppato negli ultimi anni: nella società attuale, come anche nella più piccola realtà della danza, è sempre più difficile dire la propria finendo per essere sommariamente etichettati senza neppure il bisogno di discutere. Uscire fuori dal coro, dalle filtered bubbles che ci siamo accuratamente create e creati tra le nostre gradite conoscenze, e che gli stessi algoritmi social contribuiscono a costruirci attorno in base alle nostre idee e preferenze, è difficilissimo, è un suicidio mediatico e sociale. Berrettini riflette il suo sentirsi disadattato in questa epoca manifestando, sì, l’incapacità di adattarsi, ma cercando, con questo spettacolo, di portare in scena i suoi interrogativi e le sue provocazioni di fronte a un pubblico e di fronte a se stesso. Lo fa in compagnia di Tanner, giovane danzatrice che rappresenterebbe, in questa sfida alla percezione pubblica e stereotipizzante, la nemesi, la figlia di questo tempo. Insieme interrogano giudizio, giudicanti e giudicati.
Da lontano, sotto il porticato del Dall’Ara, si avvicinano delle figure in tenuta sgargiante: mantelli fucsia dagli interni gialli e completi da matador viola. Attraversano la strada che separa l’entrata dello stadio dalla piazza, trascinandosi dietro due valigie. Il pubblico, intanto, si è disposto in cerchio delimitando i confini della scena. A distanziarlo dalle figure protagoniste, ci sono dei faretti posti a terra in cerchio con attorno delle linee che paiono satelliti o la propagazione del getto di un sasso in acqua. Al passaggio delle valigie, però, questa sorta di spirale disegnata a terra prende le sembianze di un nastro trasportatore.
Gli interpreti in scena impersonano due toreri che, perso il loro lavoro, si dirigono in aeroporto. I due si avvicinano ai riflettori e colgono l’ultima occasione di apparirvi davanti con i loro completi da lavoro,prima della dipartita.
Lo spettacolo a Bologna è un Hole in Piazza della Pace, davanti allo stadio. Il particolare formato viene sperimentato da Xing dal 2022, «attivando e occupando luoghi non istituzionali come ridefinizione temporanea di uno spazio pubblico». Berrettini conferma «è stata Silvia Fanti a propormi di portare all’esterno lo spettacolo; tant’è che adesso non so se riusciremo a ri-adattarci allo spazio chiuso del teatro». Nei teatri, dice, non era possibile giocare con la distanza, mentre in quella piazza «abbiamo percorso 150 metri prima di arrivare al palco e Nastassja mi ha detto “mi sembra proprio di star andando in stazione a prendere un treno!”. Eravamo tentati dal non fermarci e proseguire camminando oltre il palco. Ci sentivamo davvero come se quella sera non avessimo uno spettacolo da fare e ci stessimo dirigendo verso delle persone senza sapere cosa ci facessero, loro e quelle luci, lì».
Ma non era casuale la proposta di portare lo spettacolo in un luogo esterno in cui «c’è l’arena dentro e c’è l’arena fuori». Il coreografo ammette, inoltre, che gli sembrava di trovarsi in una sincronicità junghiana: «mentre un torero pensa alla corrida e ha perso il lavoro, si ritrova davanti a uno stadio».
Dentro e fuori l’arena
L’arena architettonica, quella che fa da cornice alla performance, è lo Stadio Dall’Ara, già Littoriale, ai tempi definito “primo anfiteatro della rivoluzione fascista”. Venne inaugurato nel 1926 dal Duce in persona, che vi entrò in sella al suo cavallo. Sulle sue mura esterne vengono proiettate, tramite i faretti di scena, le ombre dei due performer, che si sfidano in danze buffe, sulle note di solenni musiche spagnoleggianti come il Paso Doble – danza originariamente usata per le quadriglie di inizio corrida e adottata come passo regolamentare della fanteria militare spagnola. Per un momento, sul personale flusso di coscienza tra Spagna, fascismi, danza e arene, la memoria storica di quella costruzione sembra riaffiorare.
Quanto all’arena esterna – diremmo sociale – della piazza, l’atmosfera, quella sera, è surreale: c’è una signora con un impermeabile giallo e una borsina fucsia che si aggira tra il pubblico scattando foto ai volti. Non capisco se è parte del gioco, non colgo i confini tra realtà e artificio. Si avvicina e si complimenta per l’aspetto; le chiedo sottovoce “questo fa parte dello spettacolo?” e lei “no”. Viene in mente una citazione, presente nella sinossi dello spettacolo, del filosofo Jiddu Krishnamurti, secondo cui l’osservatore è l’osservato. A posteriori, Berrettini me la spiega così: «non possiamo giudicare quel che osserviamo se non siamo inclusi anche noi nell’equazione».
Il nodo principale dietro questa performance può ricondursi proprio alla teoria di Krishnamurti, la quale indaga la formazione dei (pre)giudizi. Lo spettacolo presentato da Xing, però, sembra eccedere il pregiudizio e sfociare nei bias cognitivi, proiettandoli sulla formazione di cosiddette neo-ideologie. Il coreografo adotta questa teoria per riflettere, a suo modo, sulle posizioni della cancel culture, in quanto «giusta o sbagliata che sia, dovrebbe farci riflettere rispetto a cosa le sta dietro; è interessante osservare le persone che hanno una certa “ideologia” rispetto al fatto che certe statue o certi film Disney non vadano bene e che vadano cancellati. Qual è la parte della loro persona che è entrata in questo giudizio? Come si è arrivati a questo punto di vista?».
Non si può, però, passare per la “wokeness” senza tracciare sommariamente le tappe di un’espressione che ha avuto una vera e propria transizione semantica. Usato già negli anni ‘60 dalle comunità afroamericane statunitensi e poi ripreso dai movimenti del Black Lives Matter e del Me Too, woke stava, inizialmente, ad indicare persone (in particolare giovani) “sveglie”, consapevoli, attente alle diseguaglianze sociali e rispettose della diversità, dei comportamenti e dei linguaggi inclusivi per riferirsi alle minoranze.
In una famosa e molto discussa lettera aperta pubblicata su Harper’s Magazine nel 2020, numerose personalità di spicco del panorama culturale e informativo statunitense (tra cui Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Francis Fukuyama), criticavano la cosiddetta “cancel culture”. Si riporta di seguito un estratto dell’apertura della lettera tradotta da Il Post:
Le nostre istituzioni culturali sono sotto processo. Le grandi proteste contro il razzismo e per la giustizia sociale stanno portando avanti sacrosante richieste di riforma della polizia, insieme a più ampie rivendicazioni per maggiori equità e inclusività nella nostra società, compresa l’università, il giornalismo, la filantropia e le arti. Ma questa necessaria presa di coscienza ha anche intensificato una nuova serie di atteggiamenti moralisti e impegni politici che tendono a indebolire il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze, a favore del conformismo ideologico. Mentre ci rallegriamo per il primo sviluppo, ci pronunciamo contro il secondo.
Insieme al trumpiano “woke is for losers” pronunciato nel 2021, il termine woke inizia ad essere bersaglio e strumento dei suoi oppositori, ottenendo così un’accezione per lo più dispregiativa, sempre più simile a quello che in Italia chiamiamo “politicamente corretto”. Per i conservatori statunitensi, la wokeness è un impegno solo “di facciata”, di chi ha atteggiamenti censori e intolleranti rispetto a chi la pensi in modo diverso: insomma, la pericolosa tendenza estremista dei progressisti – da qui la definizione di ideologia woke. L’espressione è stata quindi fagocitata dai suoi oppositori e abbandonata (non rivendicata) da chi l’aveva inizialmente adottata.
Tornando allo spettacolo di Berrettini, la scelta della particolare figura del torero e del suo contesto rituale, la corrida, esemplificano la tensione contraddittoria che il coreografo vede nella cultura woke. C’è chi considera la corrida come un’arte e il torero come un artista e chi invece, specie oggi, si focalizza sul suo lato inaccettabile, quello, appunto, del “matador”. Pur non volendo giustificare l’uccisione finale del toro, Berrettini sceglie di prestare attenzione ai contrappesi sociali dell’indignazione. Si chiede: «perché ci si indigna più per le corrida che per gli allevamenti intensivi?». Probabilmente perché l’arte può solo mostrarsi e non occultarsi, o almeno non quanto riesca a farlo il sistema capitalistico – ancor più nella sua fase neoliberale –; perché la corrida avviene nel centro di una città, mentre la produzione intensiva di carne avviene nelle campagne, fuori dai riflettori urbani e in un certo senso anche sociali. Il coreografo si chiede: «Come opera il nostro spirito di censura?».
Forse sfruttando la momentanea arena sociale che può crearsi attorno a uno spettacolo come questo, si possono lanciare tali interrogativi anche al pubblico.
Un gioco serio
In scena, i due toreros disoccupati, già evidentemente in confronto-conflitto, muovono i propri bagagli come fossero tori. Poi li abbandonano e iniziano a sfidarsi in danze raffazzonate e battibecchi quasi infantili. Si emulano e si sfidano durante tutta la performance: che siano d’accordo oppure no (e la risposta è no), non perdono mai di vista le azioni e reazioni dell’altro. Sono sempre in scambio, in quello che sembra essere un ininterrotto gioco.
Così, in scena: lei cambia quel che lui scrive con lo scotch sul muretto (HELP di lui diventa HELL per lei); lei sale sul muretto e, seduta di tre quarti, inscena uno spagnoleggiante solo di chitarra, mentre lui la raggiunge e le strappa via la chitarra (consegnandogliene una più piccola, giocattolo) svelando quindi al pubblico l’inganno del playback.
Le questioni che polarizzano i dibattiti sociali tentano di creare, in questo spettacolo, l’arena in cui l’autoproclamatosi “bianco cis etero” incapace di adattarsi, compone la sua fine. Mentre con Tanner si esibisce forse per l’ultima volta davanti a un pubblico accolti da suoni e applausi che li fanno sentire ancora nella corrida, ben presto si rendono conto che i bagagli non sono all’altezza dei loro vecchi avversari e che, di fatto, non sanno più che fare se non litigare su femminismo, antispecismo, appropriazione culturale, veganismo e così via.
Insomma, continua Berrettini «ci infastidiamo a vicenda in uno scambio che è più equilibrato rispetto all’avere un torero che sarebbe lui il vecchio toro da abbattere e lei la speranza nel futuro. Su questo io e Tanner eravamo d’accordo: è un storia umana, non di bene contro male, giovane contro vecchio o moderna contro reazionario». Un gioco serio, il loro, nell’arena pubblica, sfidandosi su tematiche sulle quali due generazioni, generi e prospettive diverse entrano facilmente in conflitto.
Divergenze e affinità
El Adaptador non è un manifesto politico, precisa il coreografo: al centro ci sono dei corpi in movimento, che sono corpi confusi, che non sanno più dove andare, cosa fare, corpi non più adatti. Ci si potrebbe, a questo punto, domandare cos’è politico e cos’è politica, ma questo, più che il luogo delle risposte può essere solo palcoscenico di abbozzate domande.
Il fulcro dello spettacolo sta nel fatto che, pur essendo persone totalmente diverse, a tratti antitetiche, le due figure protagoniste della scena sono in ogni caso due toreri rimasti senza occupazione e che se la prendono l’un l’altra cercando un modo per sfogare la frustrazione dell’aver preso il lavoro e senza capire perché, di punto in bianco, la corrida è stata proibita. «Era per noi interessante creare uno spettacolo in cui sia quell’uomo che quella donna si ponessero delle domande in un mondo che a volte non capiscono e in cui devono avere a che fare con le proprie contraddizioni», senza sottrarsi, però al confronto, al dibattito.
La questione generazionale e di genere tra i due, così, diventa non la chiave interpretativa dell’interazione conflittuale tra i due, ma si somma alla comune situazione di perdita e di spaesamento in cui si trovano due matadores disoccupati in un aeroporto, alle prese con le complesse e ambigue dinamiche del nostro tempo.
A fine spettacolo, inzuppati tutte e tutti d’acqua e di wokeness, Tanner propone: «E se partissimo per New York? Ho sentito dire che ci sono delle corrida vegane».