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Echi dalla frana. Conversazione con L. Delogu e Strasse

di Alex Giuzio, Lorenzo Donati

Al termine del festival Santarcangelo 13 abbiamo incontrato gli artefici del progetto King, che ha attraversato l’Italia dal Tirreno all’Adriatico. Torniamo a riflettere su quel percorso a distanza di mesi, anche in cerca di un possibile senso per il teatro che esce dai teatri. Nel frattempo, il percorso di Leonardo Delogu negli ultimi due anni si è condensato in unico progetto sull’abitare, Dom (www.casadom.org), che sarà ospitato dal festival di Santarcangelo nel 2014 (La disciplina del campo, primo incontro il 20 febbraio).

Per presentare il progetto King di Strasse e Leonardo Delogu, si è parlato di una forma di “colonizzazione gentile”, del recupero di un contatto diretto tra il paesaggio, i corpi dei performer e quelli di chi ne ha osservato l’agire. Temi e pratiche che il gruppo aveva già indagato durante i laboratori Camminare nella frana, veri e propri “attraversamenti performativi” del paesaggio. Articolato in più fasi, King è giunto a Santarcangelo · 13 dopo una prima residenza presso Armunia alle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay (da febbraio a giugno dello stesso anno), e il cammino che dalla Toscana ha condotto alla Romagna. La pratica del camminare, la presenza di un risultato performativo definito e la scelta da parte del Festival di coprodurre, insieme a quello di Castiglioncello, un progetto di ricerca così composito e difficilmente collocabile nel panorama artistico contemporaneo, sono stati per noi motivo di un’approfondita discussione con la compagnia.

Qual è stato il motore che ha dato inizio al percorso e ha portato al costituirsi di una comunità artistica quale la vostra?

Leonardo Delogu: Dopo una lunga esperienza con il Teatro Valdoca, avendo vissuto un rapporto che potrei definire “classico” tra regista e performer, l’intero percorso mi ha permesso di riaprire un’indagine sulla costruzione della presenza scenica, sul corpo e il suo esporsi; di sperimentare il confronto con luoghi specifici – per il progetto King si trattava di spazi residuali, abbandonati – chiedendosi come questi influenzino la materia performativa e come si instauri la relazione sensibile con la scena. Al pensiero del confronto con il pubblico inoltre ha corrisposto una ricerca sullo sguardo. Ma uno dei bisogni principali era che il risultato fosse determinato da una dimensione collettiva e non dalla linea estetica di un singolo. Credo che oggi sia politicamente importante tornare a concepire lo spazio della relazione come luogo creativo, riattivare una modalità dello stare insieme propria del teatro in quanto fatto comunitario. Il formarsi di una comunità temporanea e la sua continua dislocazione hanno anche portato a ragionare sul nomadismo, sulla possibilità data dal viaggio di nutrire il corpo e l’immaginario del performer.
King ha incluso sia le due performance realizzate sulle spiagge bianche di Rosignano Solvay e a Santarcangelo, sia il cammino del gruppo da un luogo all’altro.

Come si è svolto il processo di creazione in una modalità così diversa da quelle consuete? In che modo è stato il frutto di un apporto insieme individuale e collettivo?

Leonardo Delogu: Un progetto simile prevede un conflitto interno che è proprio dello stare in gruppo, ma anche del fatto che si ricoprano ruoli differenti. Avendo chiamato a raccolta un gruppo di persone, io sapevo che avrei dovuto mantenere il ruolo della guida, ma ognuno di noi si è domandato come collocarsi nella  relazione. King è stato anche un discorso sul potere, su come lo si esercita all’interno di una comunità. Per questo abbiamo ricercato strumenti che garantissero l’orizzontalità del lavoro e l’autonomia: ciascuno aveva un proprio tempo per la ricerca, per poi riportare la propria esperienza in uno spazio comune, in quel principio dialogico che regola indicazioni esterne e percorsi di approfondimento personale. Nella pratica, abbiamo abitato interni ed esterni, c’è stata la raccolta di materiale trovato lungo il cammino, ma anche una riflessione sull’“invisibile”, per capire come tradurre in gesti un’atmosfera e trasfigurarla senza giungere alla rappresentazione. Non era il racconto a interessarci. In un certo stadio del percorso, è stato necessario anche un lungo lavoro di improvvisazione perché un gruppo così numeroso costruisse la propria dinamica d’ascolto.

Valerio Sirna: Nel momento della creazione King è stato un invito alla responsabilità e all’autorialità. C’era un’autonomia guidata dall’esterno e in connessione con quella di tutti gli altri, ma sul piano del lavoro scenico per me c’è stata anche una forte dose di divertimento, riguardo al modo in cui i materiali potevano essere scoperti, riassemblati tra loro, giocati fuori o all’interno del gruppo. 

A differenza di altre esperienze che in passato hanno sperimentato pratiche di ricerca simili, ci sembra che alla base del vostro viaggio non ci fosse una domanda specifica rispetto alla relazione con gli abitanti, o con le persone che avete incontrato lungo il percorso. È corretto? Perché? 

Leonardo Delogu: In primo luogo il camminare è stato un fatto interno, che riguardava il misurarsi con un atto fisico agito in un tempo e in uno spazio prestabiliti. Avevamo una meta e abbiamo iniziato intuendo che poteva essere un grande addestramento per il corpo e per la mente, in modo da arrivare a Santarcangelo con un’energia diversa rispetto a quella di partenza, da reinserire in un’architettura a grandi linee già definita. L’idea non era tanto quella di produrre una documentazione, ma di lasciare che sguardi specifici si affiancassero al lavoro dando vita a oggetti finiti. Da qui i video, le registrazioni e le lettere, piccole opere nell’opera che dovrebbero avere un valore autonomo. L’incontro con le persone è stato parte del viaggio, abbiamo lasciato che succedesse ma non c’era la volontà di farne uno studio sistematico. Certo sapevamo che il camminare e il vivere all’aperto avrebbero aumentato la nostra esposizione.

Il materiale prodotto è stato molto e di diverso tipo. Pensando al pubblico, qual è stato il filo rosso che ne  ha guidato il montaggio, l’organizzazione?

Leonardo Delogu: I momenti canonici di relazione con il pubblico sono state le due performance, a Castiglioncello e a Santarcangelo. Ma c’erano anche altri spazi di praticabilità dell’incontro: l’accampamento di Santarcangelo permetteva per esempio di partecipare al nostro training fisico, durante le classi aperte del mattino, poi ci sono stati quattro incontri in cui, subito dopo essere andati in scena, abbiamo potuto confrontarci anche con persone del tutto ignare del percorso. Il sito è l’altro luogo in cui è possibile vedere dei “materiali residuali” del viaggio, ma c’è tutta una parte di vissuto che resta privata, ed è molto importante che sia così. Questo è un progetto che ha risposto al bisogno di recuperare una dimensione esperienziale e all’urgenza di restituire al fare un corpo, una fisicità concreta. È stata un’esperienza molto forte per il tipo di impegno e per i limiti di fronte ai quali ci ha posto ed è ovvio che non tutto possa essere tradotto in forma verso l’esterno. A posteriori forse troveremo un altro modo per raccontarlo.

Valerio Sirna: Non è facile definire in che modo la camminata abbia dato forma al lavoro. Però credo sia diverso, per lo spettatore, incontrare degli attori che per diciassette giorni hanno compiuto un cammino rispetto a un gruppo che ha invece tradizionalmente lavorato in sala. L’esperimento è stato anche questo. L’idea era che dei corpi, e forse anche degli spiriti, giunti alla fine di un lungo percorso tendessero all’incontro con il pubblico.

La performance reca con sé gli echi di un processo creativo di cui il cammino è parte integrante. Eppure, avendo provato da spettatori un certo spaesamento,  ci è parso che non abbiate voluto chiarire del tutto la relazione fra i due poli. Come mai?

Leonardo Delogu: Il percorso e il nostro attraversamento del fatto creativo non erano qualcosa di “interessante” da far vedere, ma uno studio sotterraneo. La forma adottata ha parlato di un divenire senza renderlo visibile ventiquattr’ore su ventiquattro; c’è stata una selezione frutto di una scelta artistica. L’intento non era quello di rendere totalmente partecipe lo spettatore, tant’è che non sono stati mostrati i giorni di prova. I due spettacoli sono lavori finiti, con un proprio ordine compositivo informato dal viaggio di ricerca. Mentre il camminare è un atto estetico sufficiente a se stesso, ma è anche un gesto etico, parte di una tradizione che di fatto non lo rende niente di nuovo. Poi è stato un momento di incubazione dell’energia dei corpi, una digressione per concedersi il tempo di entrare in relazione con il pubblico, senza che ci fosse un impatto di tipo frontale.

Emanuela De Cecco: Quando osservo un’opera ogni volta sento di cogliere la condensazione di un percorso più lungo. La percezione di trovarsi in confini del tutto definiti è illusoria per lo spettatore, e l’eco di un processo precedente c’è sempre. Quindi il fatto di far tremare questi confini, senza provocazione, è uno degli elementi del lavoro ed è il risultato del trovarsi in una condizione in cui il percepire non potrà mai essere totale.

Leonardo Delogu: Dietro la performance c’è stata una grande riflessione teorica, ma si è scelto di renderla per riverberi per far sì che non fosse una chiave di lettura. La costruzione dello spettacolo non ha mire intellettuali, la comunità comunque agisce sulla scena e per me la scena è figlia di un incontro tra il concetto e la pratica, ma non richiedo che il risultato in quanto opera venga letto a partire da una conoscenza a priori. Il desiderio è che possa essere letto a prescindere. Il linguaggio scelto punta anche alla semplicità e fa parte di una sfida che era quella di portare in scena il gioco, l’energia dei corpi e il loro vissuto quotidiano.

Sara Leghissa: Mi sono interrogata molto sulla restituzione del lavoro rispetto a chi guarda. Da una parte i livelli di comunicazione con l’esterno sono stati molti, dall’altra sento che abbiamo rivolto una domanda di adesione ambiziosa a chi ci si affiancava. Comunque la comunità si è allargata, alcune persone sono tornate e hanno dormito nel campo. Più si amplia questo tipo di condivisione, più le informazioni viaggiano senza che se ne parli. E l’aumento della confidenza e della partecipazione ha influito sul lavoro, per cui non solo abbiamo aderito a uno spazio, ma si è stretto un legame con altri e questo mi sembra abbia reso più comprensibile ciò che stavamo facendo.

Francesco Michele Laterza: La mia sensazione, da un anno e mezzo a questa parte, è che si stia nella frequentazione continua di una domanda, nell’ottica di un esperimento. Le risposte arrivano di giorno in giorno e il lavoro si modifica di conseguenza, con l’allargarsi della comunità, nel confronto pratico con temi come il nomadismo o la ricerca dell’essenzialità. Farne esperienza ci ha cambiati, poi lo spettatore può non vedere esattamente ciò che si sta acquisendo, ma avendolo vissuto faccio affidamento sul fatto di esserne il riflesso.

Sarebbe ora necessaria una riflessione riguardo l’inclusione, da parte del festival, di una molteplicità eterogenea di esperienze: per cui si è scelto di ospitare un “oggetto teatrale non identificato” – come il progetto King – attorno a progetti certamente più consueti. Anche per questo, forse, le nostre domande scavano attorno alle ragioni profonde del vostro lavoro, con la “pretesa” di volere afferrarlo maggiormente. Proviamo allora a ribaltare la questione: alla luce del cambiamento prodotto dall’esperienza e considerando che il progetto è giunto al termine, qual è il grado di  consapevolezza che sentite di aver raggiunto dopo l’esposizione allo sguardo dello spettatore?

Daria Menichetti: Questo lavoro ha molto a che fare con una verginità dello sguardo, una chiamata a guardare per la prima volta le cose, all’abbandono che permette il fare, l’osservare e il lasciarsi osservare. Stupendosi perché tutt’a un tratto ci si accorge della presenza di un tronco e lo si guarda come se fosse la prima volta. Così succede anche con il volto di una persona. E lo dico dopo averlo provato direttamente e aver condiviso un vivere comune per giorni. Forse la nostra chiamata al pubblico ha coinciso anche con l’accostarsi a un’esperienza con l’intenzione di non voler parlare dei massimi sistemi, ma cercando di far capire chi si aveva di fronte.

Leonardo Delogu: Credo sia interessante leggere con gli occhi della perdita questo lavoro. Effettivamente  è stato un allenamento a perdere, piuttosto che a guadagnare. Una ricerca di due anni attorno a un tema porta all’abbandono, allo scarto del materiale. Il principio che ordina e seleziona è un atto violento. Da spettatore capisco che possa esserci la sensazione di aver perso dei passaggi: la composizione drammaturgica dello spettacolo e la complessità dell’intero percorso richiedono l’attenzione, ognuno poi risponde secondo le proprie possibilità.

Potremmo ora aprire una discussione molto più lunga. Ci sarebbe da soffermarsi sul concetto di “verginità dello sguardo”, e su come la si possa ottenere in un processo in realtà estremamente costruito come quello che porta all’opera…

Daria Menichetti: Si tratta di un “tendere verso”, o di una richiesta a chi guarda.

Certo, tensione che non vogliamo mettere in dubbio. Per esempio, alla fine dello spettacolo, il vostro dare le spalle al pubblico, e il lungo momento di silenzio che segue, spingono chi guarda a osservare per la prima volta il luogo con attenzione (la natura, il paesaggio, la presenza antropica ecc). Ecco, tale accadimento o “effetto” ci pare assolutamente costruito, lontano dall’idea di “verginità”, appunto. 

Leonardo Delogu: Certamente, il finale è frutto di una scelta precisa. Non mi interessava concentrarmi su una verità estetica, ma al contrario volevo ragionare e restituire una complessità. Per questo il lavoro è diviso in tre parti, delle quali il momento centrale è più teatrale. Ci sono qualità diverse, la rarefazione e l’assenza di intenzione (la verginità di cui stiamo discutendo) convivono con altre istanze più legate ai principi della rappresentazione. La visione che abbiamo tentato di esprimere non è edulcorata, tenta di essere fedele a quello che siamo, dunque non può essere univoca.

Gli autori

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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