C’è un omino gracile e poco bello da vedere. È al centro del palcoscenico, circondato da centinaia di boccette di vetro. Contengono droghe, come non tardiamo a capire. L’omino comincia subito a decantarne le qualità come si fa con i detersivi in televisione, le ingurgita e ce ne manifesta gli effetti, danza e suda, si eccita e striscia sul pavimento. Drugs kept me alive di Jan Fabre ci mostra l’emarginazione di un compulsivo tossicodipendente attraverso la messa in scena della sua squallida solitudine. Non sappiamo se tale condizione sia volontaria o meno. Sappiamo solo che il performer Antony Rizzi gioca con le bolle di sapone, immagina amplessi, racconta storie sconce. La sua vita scorre monotona nella stessa stanza: tra un’iniezione e una pasticca, l’omino descrive le sue emozioni sintetiche e si abbandona agli istinti aizzati dal corpo drogato, agli orgasmi e ai bagni nella schiuma. Potremmo immaginare di dilatare i settanta minuti di spettacolo in intere giornate, e scopriremmo che le ore di quest’uomo imbottito di chimica ticchettano sempre uguali, senza differenze tra il giorno e la notte. Finché il suo fisico può contare su qualche sostanza, i bisogni primari come il cibo, il sonno e il sesso possono anche essere solo immaginati.
Drugs kept me alive non è un’analisi scientifica sugli effetti delle droghe artificiali in stile Huxley, né un’evocazione suggestiva dei mondi fittizi dipinti dagli stupefacenti, come è riuscito a fare il migliore Burroughs. Il lavoro di Fabre mette a nudo il lato estetico del tossico, quello del corpo deperito dalla dipendenza, gravido di sostanze fagocitate e poi vomitate, tenuto vivo dalle eccitazioni dei trip e dalle crisi di astinenza. Il protagonista non fa un uso “sociale” delle droghe, consumandole in compagnia, ma usufruisce del suo vasto catalogo di prodotti chimici nell’isolamento della propria stanza, solo con un po’ di musica techno per aiutarsi a scaricare l’adrenalina ballando in una danza tribale e frenetica, e insieme intima ed erotica.
Per il pubblico, Drugs kept me alive è una prova non facile. Per più di un’ora il protagonista si dimena nel suo sudore e parla solo di se stesso e delle sue esperienze ultrasensoriali, con discorsi ripetitivi che cominciano sempre dalla medesima domanda retorica: «Am I sick?», «Sono malato?». L’omino è tenuto in vita dalle sue sostanze ma è anche cosciente della morte che si avvicina. Tanto, quella arriva per tutti e chi non si droga non sa cosa si perde. «Ho salvato il mio corpo avvelenandolo», dice infatti il performer. Ho trovato emozioni profonde, distrazioni dall’apatia, alternative alla noia quotidiana. Ho scelto di immergermi in un’altra dimensione per rimanerci in eterno.
Ma anche se il testo è un’esplicita dichiarazione d’amore per gli stupefacenti artificiali, non bisogna prendere lo spettacolo di Jan Fabre come un inno alla droga. Lo struggimento del protagonista rimane sempre in primo piano, tanto da rendere naturale la compassione per il suo progressivo annientamento, con la stanza sempre più in tumulto e il corpo che deperisce e frana. L’intera performance si muove in questa ambiguità tra la bolla di protezione in cui si rifugia il tossico, che lo fa salire in un gradino di privilegiato distacco dai problemi della vita, e il suo disagio fisico che non ce ne fa invidiare fino in fondo la condizione. Sembra che Jan Fabre non voglia dare un giudizio sulla figura del drogato, e che lasci questa opinione al singolo spettatore. L’autore vuole solo farci capire che il tossicodipendente non è un essere emarginato né inferiore, ma è uguale a tutti gli altri uomini. Anche lui è dotato di un’elevata sensibilità: i racconti delle sue emozioni sono profondi, i suoi ragionamenti raffinati, i suoi desideri autentici. Anzi, i sentimenti di quest’uomo appaiono più veri dei nostri, poiché non si vergogna della sua omosessualità, si tocca gli organi genitali, parla delle sue erezioni di quattro ore, urina davanti al pubblico. Non è inibito e non ha filtri, proprio grazie all’alterazione delle droghe che gli aprono un mondo più sciolto e naturale. Questo paradosso porta a chiedersi che cosa si prova sotto l’effetto di quelle pasticche, come si fluttua dentro le bolle di sapone in cui si trova il protagonista, come ci si sente senza catene. E, soprattutto, se è vero che senza le emozioni sintetiche rimane solo la morte, intesa sia come apatia che come scomparsa del sé. In fondo, l’alterazione della coscienza è sempre stata una tendenza umana, e l’emarginazione legale e sociale delle droghe non significa che queste portino solo del male. L’ossessione del protagonista per la propria alterazione psicofisica è sul palcoscenico a dimostrarcelo: Jan Fabre è molto capace a restare in mezzo tra la condanna e l’esaltazione della tossicodipendenza, ma lo spettatore non può non uscire da teatro con una nuova ottica sulla condizione del drogato. Se l’opinione pubblica tendenzialmente rigetta gli stupefacenti come un problema individuale e sociale, Drugs kept me alive vuole ricordarci che essi possono essere una via di salvezza piena di ragioni, al pari di chi si rifugia dal pessimismo con l’arte, la lettura e ogni altra forma di sollievo.
(foto di Wonge Bergmann)
L'autore
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Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).