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Dove vogliamo andare? La residenza-studio di Trasparenze XI

di Giuseppe Di Lorenzo

L’undicesima edizione di Trasparenze, ideata e coordinata da Teatro dei Venti dal 18 al 30 luglio, è stata una prova di fiducia verso un sistema di relazioni fragile e discontinuo come quello del teatro italiano, lacerato dal folle sistema produttivo statale quanto vivo e palpitante ai suoi margini. Spogli di un finanziamento mai arrivato, ma col fondamentale supporto di C.Re.S.Co. (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea) e l’incoraggiamento di Fabio Biondi, Teatro dei Venti ha chiesto un atto di fede ai partecipanti di questa residenza-studio, organizzata in un abbandonato angolo del borgo di Gombola, nel modenese, rinunciando fin da subito ad alcune comodità pur di investire in questo tempo passato assieme. A turno i più di sessanta nuovi residenti del paese hanno dovuto prendersi la responsabilità di cucinare, lavare, aiutare e sostenere ogni attività prodotta in quei giorni di lavoro, ritmi comunque ben diversi da quelli febbrili ed eccitanti dei festival estivi. Il tema della residenza era piuttosto criptico: “Attraversare il vuoto”, nessun’altra spiegazione o input, se non qualche settimana prima l’accesso a una lavagna digitale su Miro su cui appuntare pensieri, poesie, foto, video, domande su quel tema vaporoso. Arrivati sul luogo della residenza nessuno sapeva bene cosa sarebbe successo, anche se Stefano Tè (Teatro dei Venti), Gregorio Amicuzzi (Residui Teatro) e Francesco Chiantese (Accademia Minima), hanno fin da subito preso le redini della nostra permanenza ponendo in essere delle prassi quantomeno peculiari: non promuoversi, non divagare, non lamentarsi.

Per indirizzare i lavori Teatro dei Venti ha escogitato un sistema semplice quanto efficace di suggestione: tre incontri a sorpresa, tutti sull’attraversare il vuoto ma da tre prospettive totalmente antitetiche. Il primo con lo scultore Felice Tagliaferri, artista non vedente che ci ha aiutati a mettere mano alla materia scultorea, convincendoci a bendarci e a fidarci degli altri sensi, attraversando la notte della vista. Il secondo col fisico Livia Conti, che ci ha raccontato la storia del concetto di vuoto da Aristotele fino alla fisica quantistica, mostrandoci come il vuoto, almeno nelle scienze dure, non esista. Il terzo con il medico palliativista Paolo Vacondio, che ha portato con sé storie di lunghi addii, modi diversi di affrontare l’assenza generata dalla morte. Questi incontri, inframezzati durante le giornate di studio, hanno influenzato positivamente la qualità del dibattito, non ponendo dei punti di riferimento statici ma stimolando la discussione con delle esperienze in comune con quali cominciare a confrontarsi.

Quattro giorni, quattro tavoli di lavoro divisi per i dintorni di Gombola, girando a turno tra un boschetto, l’antico mulino ancora in funzione, la vecchia chiesa di San Michele Arcangelo e altri luoghi all’interno del borgo, come una bellissima stazione radio allestita per l’occasione e coordinata da Francesco Chiantese, in cui giornalmente veniva registrato, montato e trasmesso il podcast Pionieri dell’invisibile su Cosmic Fringe Radio. Di questi iniziali quattro gruppi di lavoro, divisi arbitrariamente in Artisti, Amministratori, Organizzatori e Spettatori, ne sono scaturiti nuovi cinque che li hanno sostituiti, generati dalle istanze emerse durante i primi tre giorni di dibattiti. Un’altra prassi che Teatro dei Venti aveva promosso fin da subito era proprio quella di sciogliere i gruppi iniziali per creare dei tavoli trasversali uniti da uno scopo (o per meglio dire, da un tema) comune. Non era scontato in un processo di questo tipo riuscire a costruire delle proposte, anche perché non era strettamente richiesto. Ma ho personalmente trovato rincuorante che invece si sia anche cercato di risolvere nodi, di porre questioni concrete. Credo ovviamente al valore intrinseco che questi eventi hanno di creare relazioni prima ancora che restituire qualcosa di concreto e valutabile, ma temo che questo continuo rimandare le risposte per cercare ossessivamente nuove domande (vendute come panacea contro il veleno capitalista del “prodotto”), provochi anche un impaludamento politico, per cui senza una direzione condivisa si è portati a accettare più di buon grado che qualche Ministro prenda le decisioni per noi.

Alcune proposte per attraversare il vuoto, insieme

Would you walk forever in the light

To never learn the secret of the quiet night?

Big Thief, Changes, “Dragon New Warm Mountain I Believe In You” (4AD, 2022)

Tra le questioni emerse in modo ricorrente tra tutti i tavoli di lavoro è risultata particolarmente significativa quella dello spazio. La poetessa Azzurra D’Agostino ha parlato spesso di «vuoto come sorgente», similmente Ilaria Romano (associazione Laviko) rilanciava il concetto di «prendersi cura del vuoto». Si era fin da subito evidenziata tra i tavoli un’idea diffusa che lo spazio del teatro sia un luogo da riempire di significato, che metterlo a disposizione di altri voglia dire curarne la neutralità. È un tema particolarmente sentito anche al di fuori della nostra residenza studio, ricordo profonde riflessioni in merito durante la prima tappa della residenza per curatori (“L’insostenibile leggerezza dell’essere – Il valore delle relazioni”, festival Contemporanea, 2022) ideata da Edoardo Donatini, Fabio Biondi e Settimio Pisano. Anche lì si parlò lungamente del concetto di “cura” come messa a disposizione di strumenti e tentativo di creare un ambiente non codificato che gli artisti potessero definire. Ma perché si sente questa costante necessità di ricordarci che lo spazio teatrale dovrebbe essere un “vuoto” da riempire di significato? Durante una discussione ad un tavolo rinominatosi “Sassolini bianchi”, si è individuato nel teatro istituzionalizzato italiano un carico di significati e significanti che lo rende un luogo in cui è difficile portare qualcosa di proprio. Il teatro non è solo il luogo dove andare col vestito buono e per mettere in mostra la propria cultura, elementi già di per sé completamente fittizi eppure ben presenti nell’immaginario collettivo anche grazie alla rappresentazione che ne fanno i vari media, ma è anche il luogo della conservazione più che dell’innovazione, seguendo una china che non è molto diversa da quella dell’intero apparato culturale nostrano.

Ci sono stati molti interventi memorabili sul tema, ma vorrei soffermarmi su una frase che ho trovato illuminante: «Fin da quando siamo arrivati qui abbiamo dovuto affrontare delle mancanze. Nei tavoli di lavoro, per esempio, mancava il tavolo». Matteo Pecorini, attore e organizzatore, col suo cinismo fiorentino ha colto un elemento che ritengo fondamentale, ovvero la pratica della mancanza. Buona parte degli spazi oggi disponibili per fare teatro sono a disposizione di pochi eletti, arrivati a possederli o a occuparli dopo una lunga fila ordinata su scala anagrafica. Spesso Pecorini in quei giorni di dibattiti si è sentito dire che il teatro lo puoi praticare anche nel balcone di casa tua, e questo è vero, ma fino a qualche generazione fa potevi ancora fare i tuoi spettacoli nelle cantine (dove taluni rischiavano l’osso del collo ogni sera), oggi avresti bisogno di compilare migliaia di pagine di scartoffie burocratiche per avere a disposizione un sottoscala colonizzato dalla muffa, per poi pagare la SIAE e qualche altro acronimo statale la cui utilità è andata perduta nel tempo, e trovare pure un modo per guadagnarci, dato che non puoi semplicemente mettere una sedia e un tavolo e sbigliettare, ci vogliono dei permessi anche per quello. Pecorini ravvisa in tutto questo un problema di cessione degli spazi di produzione, e immagina una sorta di rivalsa marxista in cui tramite rotazione quinquennale gli spazi vengano costantemente riassegnati a nuovi inquilini più giovani (ovviamente anche questa va presa come una provocazione, ma almeno è politica). Esistono comunque anche sistemi alternativi. In Sud Corea, per esempio, c’è una distinzione tra il teatro così detto “Nazionale” e quello invece “popolare”, il primo è a trazione pubblica e si occupa esclusivamente di portare in scena drammaturgie classiche sia coreane che internazionali, il secondo invece è composto da imprese culturali indipendenti che si occupano del teatro più pop come quello di sperimentazione, e dove i luoghi deputati alle prove vengono fortemente agevolati fiscalmente e burocraticamente. Negli U.S.A. invece c’è una forte distinzione tra un sistema produttivo milionario come Broadway, dove l’accesso è molto limitato, e quello dal basso, che grazie al crowdfunding e a un sistema di tassazione leggero (o quasi inesistente) riesce a contaminare l’intero paese di produzioni underground. Bisogna solo saper scegliere una direzione comune.

Da noi sembra mancare un’idea condivisa politicamente di come dovrebbero essere gestiti gli spazi, di quale valore dovrebbero avere e quali possibilità di gestione. Damiana Guerra, drammaturga e docente di drammaturgia, aveva parlato nel suo tavolo del teatro come potenziale spazio di incontro oltre l’evento spettacolare, chiedendoci perché non fosse una prassi condivisa. Penso a realtà come il Teatro Bellini di Napoli, che sta tentando di creare nel suo foyer uno spazio che faccia incontrare il teatro con la città, che ne sia il cuore senza per forza regolare quel flusso verso uno specifico spettacolo, ma rendendo fluida l’esperienza tra prendersi un caffè, seguire un laboratorio, ascoltare una conferenza e via discorrendo. Ma mi torna in mente anche il Teatro Metastasio di Prato, che ha dovuto chiudere i suoi bar per investire sulla produzione, lasciando però che l’attesa diventi sempre meno un rito da consumare assieme ma una corsa all’ultimo momento prima che aprano il sipario.

È anche emerso il tema della comunità di riferimento del teatro, e ha riscontrato un certo consenso l’idea che un teatro che piace a tutti non solo non è possibile, ma di certo non è neanche auspicabile. Eppure al tempo stesso allargare la propria comunità di riferimento è sempre più complesso, si parla spesso con orgoglio che i teatri da noi sono sempre più pieni, eppure ci si dimentica di osservare che sono sempre anche di meno e a volte con meno sedute. Di questo passo tra poco ci ritroveremo a festeggiare con champagne e caviale i continui sold out dell’unico teatro rimasto aperto. Stefania Minciullo (Festa Di Teatro Eco Logico a Stromboli), nel tavolo “Patto collettivo”, ha saputo sintetizzare un percorso pragmatico, forse anche per la sua professione di organizzatrice. In questo approccio, per ampliare la visibilità del teatro, è essenziale porre al centro la pratica dell’ascolto. Dal punto di vista organizzativo questo si traduce in festival teatrali molto diversi da quelli a cui siamo abituati, dove la noia e il tempo perso possano rimpiazzare l’impellente necessità di riempire ogni momento della giornata con eventi di ogni genere. Nel taoismo come nello zen giapponese esiste un tema ricorrente riguardante la creazione vuoti per permettere a qualcosa di riempirli per poi svuotarsi successivamente. Come si può pretendere che si avvicini una nuova comunità al teatro se non gli si da lo spazio per farlo? Guerra parlava anche del presunto «gap intellettuale» ovvero l’idea che ci voglia una certa preparazione per andare a teatro. Nel tavolo dei “Vuoti a rendere” si è discusso molto del diritto a «non capire», un diritto che la cultura ci nega fin dalla scuola, insegnandoci che dietro ogni rima di una poesia esiste un significato specifico da analizzare, perdendo così la prospettiva sul piacere di vedere le parole danzare sul filo dei significati.

Per quanto Stefano Tè abbia provato a evitare che ci percepisse la necessità di produrre qualcosa da questi tavoli, delle urgenze sono emerse da sole, costringendoci a confrontarci con delle domande che esigono delle risposte. Che sia a Gombola o a Cortona o a Gualtieri o a Sant’arcangelo, ovunque il teatro si desti questi temi riparlano con voci diverse, con un preoccupante senso di smarrimento e trascuratezza da parte della politica che dovrebbe farsi voce di queste istanze.

Siamo effettivamente capaci di attraversalo questo vuoto, senza pregiudizi su cosa ci sia dopo? Oppure il terrore di perdere ciò che abbiamo ci sta logorando, lasciando che la nostra inerzia venga indirizzata finché sarà comodo, per poi lasciarla inerme nell’abisso una volta che avrà esaurito la sua funzione di consenso elettorale? Dove vogliamo andare?

[A questo articolo ho deciso di combinare una playlist di musica che appuntavo sul mio taccuino mentre passeggiavo per i boschi di Gombola, fuori da ogni connessione possibile.]

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