Un quaderno per l’inverno del premio Ubu 2017 in ex aequo con Massimo Popolizio. E proprio quelle righe di introduzione designano ciò che mi appresto a vedere un vero e proprio “incontro”, un patto segreto stipulato tra gli attori e il regista, da una parte, e il pubblico dall’altra. La creazione teatrale viene considerata un rito, un “match”, un morbo finalizzato ad avvelenare l’immaginario collettivo e a colpire, focalizzare i rapporti simbolici più profondi dell’umanità. Ecco che gli interpreti sulla scena diventano due “cerimonianti”, abili a mescolare il tragico, il sublime, il comico e il ridicolo e trasferire, distillandole, le parole del testo agli spettatori nel “qui e ora” della scena. Una scena spoglia e una regia quanto mai asciutta e non spettacolare portano alla luce due figure malinconiche, che si avvalgono del dramma e di un confronto serrato e ben cadenzato nelle pause, nelle accelerazioni, nei movimenti e in alcun momenti fortemente surreali per fissare con occhi diversi le loro vite, o meglio ancora l’esistenza tutta caratterizzata dal lutto, dalla miseria, dall’amore e dall’abbandono. L’allestimento e l’intera messa in scena del testo di Armando Pirozzi prevedono la presenza costante degli attori sulla scena, un disegno luci non variabile per l’intero arco dello spettacolo, un tavolo e due sedie come mobilio, un tempo e uno spazio quasi azzerati, fondando un terreno percettivo e poetico minimale provvisto di vita propria. In scena ritroviamo due personaggi che appaiono quasi insignificanti, grigi e tanto distanti l’uno dall’altro: un ladro, che tenta di estorcere alcune poesie molto simili a quelle raccolte all’interno di un taccuino rubato e alle quali affida un potere taumaturgico per guarire la moglie, e un docente universitario, autore in un tempo lontano proprio di quei versi poetici. Un botta e risposta allucinato, gelido, doloroso e a tratti quasi goffo tra i due, può diventare un potente mezzo per riflettere sul senso della scrittura e porre alcuni interrogativi: qual è l’oggetto di una scrittura? Chi sono i destinatari a cui ci rivolgiamo? La parola scritta con il trascorrere del tempo si deteriora, perde il suo significato e si riduce a semplice ricordo oppure conserva il suo valore primigenio? «No, non scriverò più una parola. Non io. Mi basta questa condanna a leggere e studiare tutte queste stupide parole che hanno scritto tutti gli altri, scritte chi sa per chi, e chi sa in che modo trattati poi da queste persone che tanto insostituibili sembravano per loro», afferma, rabbioso, il professore Velonà, interpretato da Alberto Astorri, e poi aggiunge «Non sono un poeta». Allora spetta al pubblico interrogare l’azione, il valore e gli effetti di una parola poetica, da una parte elaborata sulla carta e forse abbandonata troppo presto da un Velonà in totale disfacimento e dall’altra, invece, fagocitata e pretesa a gran voce dal criminale, interpretato da Luca Zacchini. E lo spettacolo s’interrompe bruscamente proprio quando lo spettatore scopre che il ladro, rimasto ormai vedovo, ha donato al figlio il taccuino incompiuto di proprietà del professore, liberando quei versi dal loro destino di morte apparente e lasciando in eredità delle pagine bianche, enorme contenitore vuoto e spoglio da riempire con l’immaginazione. «Oggi papà mi ha regalato un quaderno. Dentro c’è qualche poesia. Mi ha detto di scriverci anche una mia. Ha detto che è per far passare più presto l’inverno. Oggi papà mi ha regalato un quaderno, per l’inverno». Esco dal teatro. Mi accingo a tornare a casa. Fuori ha smesso di piovere.
Damiano Pellegrino
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.