altrevelocita-logo-nero
Screenshot 2024-03-27 alle 15.36.25

Dopo il moderno. Conversazione con Dorina Khalil-Butucioc 

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa

Dorina Khalil Butucioc è una studiosa di teatro moldavo, nonché drammaturga. È membro dell’unione teatrale moldava (UNITEM) e dell’associazione internazionale di critici teatrali IATC. Si è occupata di teatro dell’assurdo e di “post-moderno” e, anche sulla scorta di tale percorso, ha deciso di fondare il primo Centro di Drammaturgia Contemporanea (CDC) del suo Paese, con l’ambizione di sostenere e innovare la scena locale. Con lei discutiamo della lunga e controversa “transizione” dall’epoca sovietica a oggi, cercando di rilevare analogie e differenze, e del ruolo del testo nel panorama teatrale moldavo contemporaneo, provando a rilevare difficoltà da superare e punti di forza su cui far leva per il futuro. 

Come studiosa, ti sei occupata del concetto di “postmoderno” a livello estetico. Pensi che sia un’attitudine che ha attraversato e che magari sta ancora influenzando il teatro moldavo?

Premetto innanzitutto che è forse troppo tardi per parlare del postmoderno come di un’attitudine ancora viva nell’attività teatrale tout court, poiché viene da più parti considerato come un processo ormai giunto a conclusione. Si inizia a parlare infatti di post-postmoderno o di “teatro post-drammatico”. Inoltre, la pregnanza di tale concetto non è neanche universalmente accettata: molte sono le polemiche a riguardo e alcuni si oppongono all’utilizzo del termine.
In generale, direi che si tratta di una definizione che ha un doppio livello di significato: può essere letta come semplice categorizzazione storica, per indicare cioè quello che accade dopo il moderno; oppure si può porre l’accento su quegli elementi di innovazione stilistica che sono diventati sempre più preponderanti da un certo punto in poi. In questo senso, descriverei il postmoderno come una corrente “democratica” che è una sintesi di tante altre correnti e che ha inglobato, fondendole insieme, diverse caratteristiche da differenti campi artistici.
Venendo alla Moldavia, devo dire che i processi e le evoluzioni artistiche sono generalmente lenti rispetto ad altre parti, per cui è difficile identificare una vera e propria ondata di teatro postmoderno. Tuttavia, ci sono esperienze che stanno inglobando molte diversità e differenze al proprio interno. Penso che si possa parlare di postmoderno analizzando alcuni testi teatrali moldavi e il modo con il quale sono stati messi in scena (mi viene in mente la prima edizione di Iosif și amanta sa al Teatrul Ionesco, nel 1994). Dopodiché le realtà di teatro indipendente nel Paese non si rifanno in toto a grandi correnti estetiche ma possiedono ciascuna la propria peculiarità di partenza: Spalatorie, per esempio, è un “teatro di gruppo” in cui il testo di base per la performance viene scritto e montato collettivamente, prendendo spesso direzioni variegate senza aderire ad attitudini o stili precostituiti.

Quali motivi ti hanno spinto a fondare il CDC (Centrul de Dramaturgie Contemporana) e come mai avete scelto di occuparvi principalmente di “scrittura drammaturgica”?

Il centro è stato fondato da me assieme al regista Sava Cebotari ed è stato recentemente riorganizzato e assorbito all’interno di un più ampio centro di promozione culturale. Da una parte, durante una mia permanenza in Canada, avevo osservato il funzionamento di un centro di drammaturgia locale e mi era sembrato che potesse essere utile anche per la scena moldava avere una realtà di questo tipo. Dall’altra parte Sava aveva avuto esperienze teatrali in Russia, dove si è recentemente assistito a un “boom” del testo grazie al movimento del New Drama. Per tali motivi ci è sembrato naturale concentrarci sull’elemento testuale, anche perché crediamo che è da lì che sostanzialmente parta lo sviluppo di una performance. Inoltre, a mio parere, in Moldavia c’è un grosso vuoto a livello di drammaturgia: pochi sono gli autori giovani e di conseguenza i testi innovativi. È mancato insomma, nel periodo successivo alla transizione dall’era sovietica, un ricambio generazionale. Con il CDC abbiamo cercato di far fronte a questa situazione, organizzando un festival di drammaturgia (Verbarium festival), incoraggiando e sostenendo giovani autori che magari lavoravano nel campo della televisione o dei mass-media, e posso dire che siamo certamente riusciti a ingenerare dei processi nuovi.
Ma è inutile dire che i problemi permangono e che c’è ancora tanta strada da fare. A mio modo di vedere, ciò di cui c’è maggiormente bisogno è una riforma nel sistema di educazione teatrale, che al momento è un po’ lasciato a se stesso senza alcuna coordinazione. Non c’è insomma una vera e propria scuola moldava di teatro. Inoltre credo anche che occorra un cambio di mentalità. È vero che risorse e finanziamenti sono pochi, ma non siamo preparati a organizzarci in maniera flessibile. Il sistema sovietico ci ha abituato ad aspettarci che ci venga fornito dall’esterno tutto ciò di cui abbiamo bisogno per produrre una performance e, nel momento in cui un solo elemento viene a mancare, ci ritroviamo bloccati.

Concentrandoci sulla questione della transizione, quanto è forte ancora l’influenza della tradizione sovietica nel teatro moldavo sotto l’aspetto estetico?

È una domanda molto complessa. Da una parte, direi che a un livello geopolitico la Moldavia si è separata in maniera molto profonda dallo spazio post-sovietico e questo si può apprezzare anche nel teatro. Negli anni ’90, appena dopo l’indipendenza, si è verificato un grosso fermento e sono comparse nuove correnti: il teatro dell’assurdo con il Teatrul Ionesco, gli one-man show e i festival del Pocket theater… Tuttavia, è come se si fosse trattato di una esplosione di contraccolpo alla caduta dell’Unione Sovietica, dopodiché il movimento si è arenato e ancora oggi non sappiamo bene perché. Dall’altra parte la Moldavia non aveva tradizione propria da recuperare e a cui rifarsi, poiché tutto il sistema teatrale era di stampo sovietico, appunto. Pertanto molti dei nostri attori e dei nostri registi hanno un’educazione teatrale di questo tipo e, non solo, molti anche fra i giovani tendono a emigrare in Russia per studiare teatro. Non dico che ciò sia un bene o un male, è però un dato di fatto.
Per quel che riguarda invece il rapporto col pubblico, in epoca sovietica il teatro era uno strumento per forgiare il cosiddetto homo sovieticus. Gli spettacoli ufficiali mettevano spesso in ridicolo i costumi regional-nazionali per indebolire le varie identità particolari e crearne una più ampia. Allo stesso tempo, registi e autori si ribellavano a tali direttive, creando dei sotto-testi e delle metafore per parlare comunque di ciò che era proibito. Era come se gli spettacoli parlassero in due modi diversi a due parti diverse della società, usando però elementi scenici identici. Ora tutto questo è cambiato: direi che il teatro non ha più alcuna funzione “educativa”, in generale è la pubblicità che si occupa di promuovere gli spettacoli. Inoltre, rispetto all’epoca sovietica, il ruolo del governo nello sviluppo del teatro nazionale è scemato vertiginosamente, il che lascia di certo una maggiore libertà e indipendenza ma ha come conseguenza un minore supporto finanziario e logistico.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.