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(foto di Silvia Lelli)
(foto di Silvia Lelli)

“Don Chischiotte ad ardere” del Teatro delle Albe. Quasi un manifesto

di Lorenzo Donati

Don Chisciotte ad ardere del Teatro delle Albe si concluderà nel 2025, quando verrà presentato anche il terzo movimento dello spettacolo. Come per il progetto sulla Commedia dantesca (2017-2021), anche in Don Chisciotte, sostenuto e inserito nel programma di Ravenna Festival, s’intarsiano diverse “magnitudini” di autorialità sceniche, con la scrittura di Martinelli e Montanari che fonde i contributi di creazione degli attori e attrici delle Albe, di collaboratori-autori come la band Leda (musiche), dell’artista Stefano Ricci ai disegni dal vivo, delle guide dei laboratori e appunto dei cori di cittadini e cittadine, i cui gradi di separazione da noi spettatori permettono di vivificare, sera per sera, quell’interrogazione alla “polis” inscritta nella storia delle Albe. Concentriamo il presente appunto sulle note autobiografiche che innervano lo spettacolo, in attesa di una scrittura più distesa il prossimo anno (per il 2025 sono previste anche alcune presentazioni della trilogia in un unico giorno).

(foto di Silvia Lelli)

È Ermanna Montanari ad accoglierci in via di Roma, affacciata al balcone di quel Palazzo Malagola che è divenuto il secondo polo di creazione della compagnia, dopo il Teatro Rasi. Lì, nelle stanze che fino a qualche anno fa ospitavano uffici e archivi, oggi si dispiegano le attività della scuola di vocalità e centro internazionale di studi sulla voce diretta dalla Montanari insieme a Enrico Pitozzi, con molti percorsi aperti alla cittadinanza. Salendo dal pianterreno fino ai piani superiori, si scorgono le tracce al carbone opera del disegnatore Stefano Ricci, animali e figure antropomorfe con fili che li connettono a orecchie o intenti a girare attorno a campane. Si ha l’impressione di stare dentro a un gigantesco strumento musicale suonato dai nostri passi, con le stanze vuote a fungere da casse armoniche. Da là sopra Ermanna, ma dice di chiamarsi Hermanita, ci accoglie e ci chiede cosa siamo venuti a cercare. È la custode delle visioni che seguiranno, parla un grammelot maccheronico-poetico-romagnolo. Sotto al balcone arriva Marco Martinelli, Marcus, abito elegantissimo e un ramo di ulivo che spunta dalla schiena, pare un sovrano silvestre. Si aprono le porte e sul fondo Stefano Ricci disegna dal vivo l’immagine di una donna, forse la sua amata, in mezzo all’androne alcune cittadine armeggiano con vecchie macchine da cucire e ci sussurrano i loro sogni, venendoci vicino. Siam pronti a salire le scale e a immergerci in una borgesiana biblioteca dei sogni, quasi tutte immagini non pacificate, inquietanti, incongrue: una famiglia a cena con una minestra in brodo portata alla bocca con coltelli; i corpi raggrinziti, nudi, di una coppia di anziani di spalle; organi di animali che colano sangue in un tavolo da macello; una donna che si mozza una treccia. Vediamo questo e molto altro camminando di stanza in stanza, salendo e scendendo i tre piani, senza pause. Rimane particolarmente impressa una grande scrivania da ufficio: è piena di fogli, laptop e rassegne stampa, è in atto un lavorio di raccolta e promozione ma in assenza di umani, sembra di sentire il vociare ma non c’è più nessuno qui. Dove sono finiti tutti?



Il cortile interno ci ospita dopo la discesa, Hermanita attende reggendo una marionetta che ci siam convinti abbia le sembianze di Miguel de Cervantes, la manipola davanti a sé mentre Marcus ci guarda benevolo. Luca Fagioli, Fagio, veste un frac e sovrintende silenzioso i nostri spostamenti e quelli degli attori. «Cosa avete scoperto di voi?», ci chiede Hermanita. Marcus incarna l’istanza più brechtianamente epica dello spettacolo: racconta rivolgendosi a noi, genera raccordi, pone domande sul suo stesso ruolo. Siamo solo dei poveri maghi, dice. Una porta sul fondo reca scritto trash room (al post di dress? Il travestirsi e trasfigurarsi del teatro, il vedersi in altri panni è relegato allo stesso livello del trash?). Qui entrano in scena il primo attore, Roberto Magnani, la prima attrice, Laura Redaelli, e il brillante, Alessandro Argnani. Sono loro ad assumersi la spinta attoria-autoriale delle visioni di Cervantes: il cavaliere Don Chisciotte, idealista impazzito per avere troppo letto (Magnani cioè Roberto del Castillo, con sottilissima lancia e una padella in testa al posto dell’elmo), la dolce e altezzosa Dulcinea del Toboso (Redaelli, Laura Ross de la Briansa, con immancabile ventaglio) e lo scudiero Sancho Panza (Argnani, Aleandro Argnàn de Puerto Foras, con giaccia e un povero gilet). Da qui in avanti si susseguono rocambolesche avventure nel pullulare dei cori dei cittadini, scorribande di gruppi bianco vestiti e seicentesche gorgiere. Fra le tante: il coro delle donne guidate da Ermanna in spirito misterobuffesco, una corifea artefice di ricami gestuali, contorsioni del tronco, glossolalie vocali di acuti e spigoli, imitata dalle donne dietro di lei; la fuga dei coscritti, imprigionati e in marcia dietro a uno stolido militare (Marco Saccomandi) che l’ardimento idealista di Don Chisciotte ferma e sfida, generando un parapiglia. Dulcinea era salita in alto su una scala, per sfuggire alla calca, facendo presente con voce smorfiosa al cavaliere di chiamarsi in realtà Laura e di non provenire da nessun “Toboso”. Guardandola, ma non udendola, Don Chisciotte per alcune volte reiterava il voltarsi di spalle e volto, con andamento marziale e perfetto ingranaggio comico, proseguendo nella sua “tirata” sull’amore cortese. «Adesso parlo io», aveva invece esordito Sancho Panza all’inizio. E così le sue gesta, ora verso lo scioglimento, sono memori della celeberrima fame dello Zanni: finalmente si può addentare il panino lasciato dal militare. Sketch comici di un’affilata surrealtà, scritti e recitati con maestria tale da fare pensare alle spedizioni delle Armate di Brancaleone da Norcia. Ma i fatti in scena precipitano, si invocano tempi meno corrotti, si bruciano libri e siamo invitati a spostarci, a uscire per metterci in salvo.

(foto di Silvia Lelli)

Passiamo in una viuzza e ci fermiamo di fronte a Stefano Ricci, questa volta le apparizioni dal suo arsenale sono quelle di animali, creature silenti che vengono cancellate appena compaiono con le quali abbiamo smesso di parlare, come accenna Hermanita, forse l’Ermanna che pensa alla sua terra di origine. Dobbiamo entrare in un palazzo in rovina, dice, è lì di fronte sempre su via di Roma, è quel che resta di un edificio imperiale dove pare abbia governato Teodorico in persona, il barbaro, nel mito di un equilibrio possibile fra oriente e occidente. Qui arde un braciere e Marcus ci riporta agli echi delle guerre, al nostro mondo europeo che credevamo al riparo e che invece sta sanguinando. Scatta un furioso litigio fra i tre attori: Roberto accusa Aleandro di non ricordare mai una battuta, poi se la prende con Laura dicendole che non sa usare mezzi toni, Laura gli da del «moscone puzzolente» e del Don Giovanni da bar, Aleandro confessa: in fondo lui voleva solo aprire un bar e fare brioche, per fare stare bene le persone. Marcus li interrompe: ricordate che la nostra compagnia è fondata sulla divisione egualitaria della paghe (e in effetti il teatro italiano nasce con il professionismo delle compagnie: non è dunque una mera questione economica!), poi è Hermanita che a sua volta interrompe Marcus: che noia, dice, ora fermiamoci perché sta arrivando la bambina senza nome. L’ultima delle ultime, vien da pensare, la cui sofferenza non sappiamo più ascoltare, forse la voce della poesia. Entra davvero una ragazzina, ma il suo racconto lo lasciamo all’immaginazione di chi legge, e al ricordo di chi c’era.

Siamo arrivati a riflettere sulle origini del nostro teatro. Alla Commedia dell’arte e alle tre “funzioni” interne alle compagnie, come le ha riassunte Mirella Schino: la comicità e la destrezza fisica (Don Chisciotte, Dulcinea, Sancho Panza), la capacità di scrivere e inventare scenari (Marcus), la poesia, il canto, l’improvvisazione (Hermanita). Perché siamo qui, a teatro, in queste rovine “inventate” fra oriente e occidente? Cosa cerchiamo? Ce lo chiedono più volte i personaggi. Se lo chiedono più volte gli attori e le attrici. Sembrano domandarselo il Teatro delle Albe ma anche la Cooperativa Ravenna Teatro. Come si sta insieme per più di trent’anni? Quale dovrebbe essere il rapporto con il mondo, con il presente e le sue contraddizioni? Quale relazione con la città, dunque anche con “il potere”, con chi finanzia, con chi nutre aspettative? E come dialogare con la cittadinanza? Alcuni echi vicini e lontani di un teatro che racconta e interroga se stesso, in una corda tesa fra disillusione, tentazione all’isolamento, desiderio di rinnovamento, fiducia nelle collettività: la scrittura alla rincorsa e le attese dei voleri del Re ne l’Improvvisazione di Versailles di Molière (1663); il rinnovarsi dei caratteri, fra finzione e invenzione degli attori, del Teatro comico di Goldoni (1750); i mezzucci di fortuna del mago di Sik Sik. L’artefice magico di Eduardo de Filippo (1929), con i bisticci fra gli aiutanti, la fascinazione per le magie di un tempo, le scuse al pubblico; gli scalognati e i personaggi come istanze conoscitive ridotte a “fantasmi”, con l’opzione di ritirarsi lontano dalla società de I Giganti della Montagna di Pirandello (1937); e ancora il limen fra verità e rappresentazione de L’Arte della Commedia (1965), sempre di Eduardo, nel rifiuto di un teatro esclusivamente edonistico.

La domanda delle Albe, però, è tutta nel presente e nel futuro, nella messa a nudo di un’inquietudine sul proprio “stare” nel mondo. Non deve essere per nulla facile trasfigurare litigi che intuiamo essere prossimi al vero, raccontare le fatiche del “comporre” i gruppi e le diversità che li nutrono. Non è facile celare quello che va tenuto nascosto dietro ai personaggi, perché in fondo Eduardo sosteneva che «il teatro è magico, ma il pubblico non lo deve sapere». Ma è difficile anche mostrare le note di verità delle persone fuori dai personaggi, come questo presente chiede all’arte. Negli orditi drammaturgici e registici di Don Chisciotte ad ardere s’imprimono dettagli biografici, invenzioni vocali, esplosioni corali e gesti minuti frutto di anni lavoro sulla presenza che interrogano il teatro e la sua persistenza, in una dislocazione dell’autorialità che è quasi un manifesto di poetica. Dunque, e ce lo chiederemo fino all’approdo del prossimo anno: cosa ci facciamo noi qui, teatranti e spettatori?

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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