altrevelocita-logo-nero

Domini Pùblic di Roger Bernat, specchio dell'uomo per ripensare il teatro

di Altre Velocità

Il teatro partecipativo di Roger Bernat è stato un progetto che La Soffitta ha dedicato alla scena dell’artista catalano, a cura di Cristina Valenti e Carmen Pedullà. Inseguendo una necessaria polifonia, Bologna Teatri vi propone un racconto a mosaico della performance Domini Pùblic, vista il 31 marzo 2017 nella Piazzetta Pasolini. La galleria in apertura e tutte le foto sono di Felisia Santagata [gallery columns="4" ids="1269,1268,1267,1266,1265,1264,1263,1262,1261,1260,1255,1256,1257,1258,1259,1254,1253,1252"]  Noi, dominio pubblico, creiamo il teatro All’ingresso dei Laboratori delle arti c’è un bel po’ di gente divisa in due file: una per i biglietti, l’altra per le cuffie. Esco su piazzetta Pier Paolo Pasolini dove avverrà lo spettacolo. Un po’ perplesso e con curiosità guardo cos’è disposto in questo spazio pubblico: due cartelli, sulla destra e sulla sinistra (con scritto destra e sinistra) e una postazione da arbitro, come quelli dei campetti da tennis. Tutto è predisposto per il gioco, mentre una musica allegra ci passa in cuffia. Poi sentiamo che ci arrivano delle indicazioni, è una voce pacata ma piana, e la folla si muove verso il centro della piazza. Procediamo rispondendo alle domande che ci vengono poste con segni e schierandoci verso destra o verso sinistra, in questo modo prendiamo parte, siamo partecipativi nel senso che creiamo la drammaturgia degli spostamenti, delle dinamiche di scena: in sintesi tutto parte da noi. Le domande per tutta la prima parte sono simpatiche, ironiche, spigolose, chiedono cose personali e siamo messi a nudo, sappiamo che in uno spazio di dominio pubblico come questo non siamo soli. La maggior parte ride e anch’io partecipo divertito. Poi ci viene dato un ruolo: i nativi, gli stranieri, la croce rossa. Io sono uno straniero, che poi diventerà un poliziotto, a cui sarà chiesto di sparare, fare violenza, imporsi. Infine sulla piazza ci sono dei morti e dei feriti, frutto delle nostre violenze, del dominio pubblico, del nostro acconsentire e decidere, spinti dalla irrefrenabile volontà di rispondere a questa voce trascendente che ci rimane distante ma ai cui tendiamo infine la mano, in questo dominio pubblico in cui siamo soli. Valentino Bettega Io, tu, egli. Noi, voi, essi. Quando assistendo a uno spettacolo di teatro il performer di turno scruta indagatore tra il pubblico chiedendo (o nel peggiore dei casi prelevando) un volontario, la sensazione che pervade l’intera platea (salvo casi particolarmente propensi alla propria messa in gioco) è un senso d’inquietudine: «Oddio ti prego fai che non scelga me!». Bernat, con Domini Public, toglie lo spettatore dal disagio dell’essere scelto. Fin da subito, cuffie alle orecchie, avrà il privilegio di potersi mischiare tra la folla rompendo l’imbarazzo dell’essere oggetto dello sguardo altrui. Gli spetta-attori, coscienti del ruolo attivo che sono chiamati a svolgere, vengono delicatamente sottoposti a una serie di domande che prevedono modalità di risposta fisiche/spaziali secondo un processo, inizialmente, del tutto arbitrario. L’illusione dell’ininfluenza della propria risposta crollerà con l’avanzare della performance quando a scelte intraprese corrisponderanno indicazioni (ordini?) sui ruoli da interpretare nell’allestimento di una vera e propria scena teatrale. Quello a cui Bernat ci pone di fronte pare un assaggio delle tecniche di anestesia sociale che spesso ci coinvolgono in quanto gruppo: lasciandoci l’illusione di scegliere autonomamente («Siete veramente sicuri di aver scelto senza farvi influenzare dalle risposte date dal gruppo?») il regista ci pone invece di fronte al disagio dell’essere identificati come facenti parte di un gruppo al quale sentiamo di non appartenere realmente o al “trauma” del distacco coatto dal gruppo stesso per riacquistare tempestivamente la nostra identità di singolo. Si tratta in sostanza di una sorta di gioco dal retrogusto amaro, dove al riso del divertimento si alternano, nel contrappunto di una dimensione tutta interiore, sensazioni perturbanti e disturbanti. Sulla faccia un sorriso, nella mente il fastidio che sotto sotto qualcosa non vada. Marta Vettorello Un semplice gioco Armati di cuffiette, in una calda giornata di fine marzo, abbiamo giocato a fare teatro. E ci siamo divertiti. Eravamo una cinquantina di persone, forse anche di più e prima di cominciare eravamo tutti divisi in piccoli gruppetti: ognuno cercava un amico o un conoscente per sentirsi più forte e capace di affrontare un’esperienza simile. Perché tutti noi sapevamo che avremmo fatto qualcosa ma nessuno sapeva dire cosa. Poi, il gioco è cominciato: ci facevano delle domande e dovevamo rispondere muovendoci nello spazio. Pian piano i piccoli gruppetti si sono compattati sempre di più, fino a muoversi in massa. È stato l’aspetto che più mi ha colpita: sentirsi vicina agli altri spettatori, comprenderli, trovare nell’altro il coraggio per rispondere sinceramente alle domande e quindi partecipare attivamente alla performance. Forse, sarebbe stato più interessante se avessero osato con delle domande più intriganti, per andare oltre al semplice gioco. Camilla Fiore Margini Ci ritroviamo a osservare la piazza: un cartello con scritto destra, un altro sinistra. Un seggio per arbitro del tennis al centro, un po’ spostato verso l’entrata della strada. Nelle cuffie affidateci suona Mozart, la musica del Flauto magico dà inizio al “gioco”. Le domande che ci vengono trasmesse ci fanno dividere, fare gesti, chi va a sinistra e chi a destra. Spesso si forma un gruppo, con alcuni che ne rimangono fuori, ai margini. Tutti avanzano verso la parte destra, a quattro passi alla volta. Poi si girano e vedono me da solo, unico rimasto indietro. Saluto. Le cuffie ci isolano pur essendo in mezzo agli altri, ognuno è solo con le proprie scelte. Rispondere alle domande ci da l’illusione di appartenere a qualcosa, di essere quello che formuliamo. Quando poi ci dividono in guardie e prigionieri la finzionalità del meccanismo si palesa. Ora sono un poliziotto. Questo ruolo mi svela come io non sia quello che le domande descrivono, ma che al massimo posso solo rappresentarlo. Matteo Boriassi Nudità Non sapevamo nulla. Radunati alla piazzetta P.P.Pasolini, aspettavamo. Ai lati, due cartelli: uno che indicava la sinistra e l’altro la destra. Al centro, invece, una ragazza seduta su una scala. La guardavo e non capivo che ruolo avesse (arbitro? regista?) e solo più tardi abbiamo scoperto che si faceva chiamare la “maschera”. Noi partecipanti indossavamo delle cuffie, attraverso cui una voce registrata ci sottoponeva a delle domande. Sbalorditi, imbarazzati o divertiti rispondevamo seguendo le indicazioni che la voce, continua, ci suggeriva. Facciamo un esempio. A un certo punto la voce ha recitato così: «chi pensa di morire entro dieci anni si diriga verso il centro». Un’anziana signora ha mosso i primi passi e, benché fosse prevedibile, non credevamo lo facesse. A seguirla una giovane donna sulla sedia a rotelle e noi, vigliacchi, a rifuggire dal suo sguardo. Roger Bernat, scrivendo questo spettacolo, sperava forse che noi spett-attori trovassimo l’audacia di denudarci davanti all’altro e chissà, magari qualcuno di noi ci è veramente riuscito. Carmen Zaira Torretta Delle pedine collocate nelle precedenti posizioni «Hai mai ucciso un animale che non fosse un insetto o un verme?»,«devi ai tuoi genitori la maggior parte delle cose che sai?»: diverse le domande che hanno risuonato all’orecchio degli spett-attori muniti di cuffie alla performance Domini Pùblic di Roger Bernat. Il teatro partecipativo dell’artista spagnolo ha invaso il 31 Marzo la Piazzetta Pasolini adiacente al laboratori delle arti di Bologna, dove due cartelli a indicare destra e sinistra e una sedia da regista a centro piazza sono stati i soli riferimenti spaziali. I partecipanti, attraverso gesti e spostamenti, hanno risposto alle domande rivolte loro dalla voce fuoricampo e un’atmosfera ilare ha accompagnato il definirsi di piccole comunità poi cristallizzatesi, sulla base delle provenienze territoriali, in tre gruppi. Fra poliziotti, rifugiati e croce rossa (ciascuno munito di blusa dal colore segnaletico) è stato un continuo consumarsi di aggressioni, ribellioni e morti, veicolati dalle indicazioni della voce in cuffia. La liminarità tipica della performance ha fatto sì che ciascuno desse un peso differente alle azioni svolte ma la distensione del clima è andata sfumando nella parte finale, quando i presenti, scortati all’interno dei laboratori, hanno osservato delle pedine collocate nelle proprie precedenti posizioni. Delle domande che non lasciavano tempo a risposte a fare da sfondo sonoro e i propri nomi su uno schermo come titoli di coda. Martina Vullo Siamo a teatro. O forse no. Domini Public non è uno spettacolo da andare a vedere. O meglio non lo si può vedere, dal momento che non è propriamente uno spettacolo. Forse rientra più nella categoria (che dice tutto e niente) di “performance”, ma anche questa definizione non convince. Che cos’è stato allora Domini Public della compagnia Roger Bernat_FFF? Difficile da dire. Forse un’esperienza, un gioco, in cui noi spettatori eravamo sia pedine che giocatori. Muniti di audio-cuffie siamo stati guidati in un percorso che ci sballottava da una parte all’altra di Piazzetta Pasolini, in base alle risposte date alle (scomode) domande. A un certo punto non eravamo più spettatori, ma poliziotti, carcerati e crocerossini: attori, quindi. È stato divertente. Entrati poi in teatro nel buio della sala, la voce alle nostre orecchie continuava a interrogarci; le domande sono quelle che tutti noi, inconsciamente, ci poniamo, ma che altrettanto inconsciamente cancelliamo, perché le rispettive risposte ci farebbero prendere coscienza di angosciose verità, come il fatto che ogni cosa ha una fine, anche la nostra vita. Siamo dunque invitati a ricercare un senso a ciò che è stato “inscenato”, una connessione tra noi e la “scena”. Io credo che il teatro partecipativo voglia fare proprio questo: (ri)educare lo spettatore alla funzione del teatro come specchio della realtà ma soprattutto dell’uomo, inteso sia come singolo individuo (in quanto la riflessione è un atto privato) sia come collettività (in quanto le domande che l’uomo si pone sono universali, comuni a tutti gli esseri umani). Mi chiedo però fino a che punto una simile poetica possa fissarsi in un metodo, ovvero quale sia la sua efficacia se applicata a più esperienze simili, nel lungo termine. Inoltre, si può definire teatro? O è qualcosa di collaterale utile per ri-pensare il teatro? Ilaria Cecchinato  ]]>

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.