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Dominare il tempo: teatro e musica nell’opera di Luigi Ceccarelli

di Alex Giuzio

Musicista dall’articolata ricerca sonora, Luigi Ceccarelli da circa 40 anni concentra la sua attenzione nella danza e nel teatro contemporanei, ma lasciandosi sempre ampi margini per spaziare anche nelle sonorizzazioni per il cinema, nei concerti e nell’attività di insegnamento. Un percorso che ha portato a risultati di notevole interesse, soprattutto nel campo della musica di scena: Ceccarelli è oggi una delle rare figure che in Italia compone lavori per spettacoli altrui, riuscendo a conservare una spiccata ricerca personale con una musica che lui stesso definisce «materica». Non a caso, è stato il primo e unico musicista a ricevere il Premio Ubu.
Abbiamo incontrato Luigi Ceccarelli lo scorso 13 aprile a Ravenna, dove si trovava per il suo X-Traces (concerto per contrabbasso e live electronics, insieme a Daniele Roccato), per porgli alcune domande sul suo percorso che lo ha visto collaborare con numerose compagnie italiane e straniere di teatro e di danza, tra cui, nel nostro paese, il Teatro delle Albe (in un proficuo rapporto iniziato nel 2000 e mai interrotto) e Fanny & Alexander.

La sua attività musicale è stata sin da subito legata al teatro e alla danza. Da dove ha origine questo avvicinamento?
Dopo avere iniziato il mio percorso come batterista, ho smesso a 19 anni e ho deciso di dedicarmi solo alla composizione. La mia prima esperienza in questo campo è arrivata nel 1978, quando sono entrato nel “Gruppo di lavoro intercodice ALTRO”, fra i primi gruppi italiani costituitisi con l’idea di fare teatro in maniera non tradizionale. Si trattava infatti di un insieme di persone molto diverse tra loro: pittori, danzatori, fotografi e architetti che si erano uniti nel 1972 per produrre un’arte teatrale che non partisse dalla volontà di riferirsi alla tradizione, bensì dal desiderio di congiungere tante esperienze differenti che potessero concludersi in uno spettacolo senza attori né registi. Si trattava di un gruppo di persone che discutevano insieme: ognuno dava il suo apporto nella costruzione di qualcosa che all’inizio non si sapeva nemmeno bene che cosa fosse.
Purtroppo ho vissuto solo la fase conclusiva del Gruppo ALTRO, scioltosi nel 1981. Ma io e la coreografa Lucia Latour abbiamo subito deciso di fondare AltroTeatro, una compagnia che si occupava di danza, versante in cui sono proseguite le mie principali esperienze musicali. Negli anni ’90 ho iniziato a occuparmi anche di cinema con Edison Studio, un gruppo di quattro compositori che ha cominciato un po’ per caso a comporre musiche per film muti degli anni ’10. Si trattava di un’attività che ci piaceva molto, e che ci ha portato a realizzare sonorizzazioni molto interessanti. Finora abbiamo realizzato quattro film in 15 anni: lo facciamo volentieri ma sporadicamente, perché è un lavoro che ci coinvolge parecchio.
Al teatro, invece, sono tornato solo nel 2000 con L’isola di Alcina del Teatro delle Albe. Grazie a Franco Masotti, il Ravenna Festival, coproduttore dello spettacolo, ha avuto il merito di far incontrare le mie composizioni musicali con i lavori teatrali delle Albe.

La lunga collaborazione con il Teatro delle Albe è caratterizzata da una perfetta intersezione tra la sua musica materica e l’intenso teatro di voce di Ermanna Montanari. Qual è il processo di lavoro che ha portato a esiti tanto interessanti come Ouverture Alcina e La mano?
Trovo molto naturale l’interazione e l’intesa tra la mia musica e la voce di Ermanna. Non abbiamo mai fatto sforzi, né abbiamo mai messo in atto discussioni o particolari teorizzazioni. Abbiamo sempre interagito in modo molto spontaneo. Trovo che la sua voce si adatti benissimo alla mia musica, ne è anzi il punto di contatto ideale con il teatro, ed evidentemente lei si trova a suo agio in questa sinergia. Non c’è alcun lavoro ideologico o artificiale sotto; ci siamo trovati subito bene e abbiamo trovato che le cose andassero perfettamente, sin dal nostro primo incontro per L’isola di Alcina.

Nella musica per le arti sceniche, esistono delle soglie raggiungibili solo dalla musica, oppure solo dal corpo e dalla voce dell’attore?
Inizierei a rispondere partendo dal cinema, dove l’immagine e il suono sono più distaccati tra loro. Nel cinema, quando immagine e suono funzionano, la musica apparentemente passa in secondo piano, poiché ciò che lo spettatore ricorda meglio è l’immagine. Tuttavia, a mio parere l’importanza dei due elementi è identica. Oggettivamente ci si ricorda dell’immagine, ma è il suono a dare all’immagine la sua forza evocativa ed emotiva. Senza musica l’immagine non ha forza, e rischia di essere percepita in maniera alterata. Il suono cambia la percezione e aumenta le sensazioni dello spettatore, agendo nel campo dell’inconscio e dell’emotività. Al cinema è molto facile rendersi conto di questo: basta togliere il sonoro a un film per fargli perdere tutta la sua potenza. E questo vale anche per il teatro, dove però il discorso è più complicato. Anche nel teatro gli spettatori legano il ricordo all’immagine o al testo, ma è in realtà la musica che contribuisce in modo sostanziale alla percezione profonda ed emotiva di uno spettacolo complesso. Inoltre, in teatro c’è la presenza dal vivo dell’attore/performer che, quando è capace, è una presenza davvero significativa, molto più che nel cinema: a teatro l’attore può già da sé contribuire all’emotività dello spettatore, mentre in un film l’immagine non può fare lo stesso senza la musica. Nel teatro e nella danza, dunque, la musica ha un ruolo più fluido e sottile, meno diretto, che dunque permette esplorazioni laterali e autonome per una maggiore pienezza.

I suoi lavori sono tra i rari esempi in cui la musica per le arti sceniche ha una notevole forza narrativa, tanto da avere una propria autonomia evocativa anche nella pratica dell’ascolto puro, senza spettacolo. Anche per questo, nel 2002 è stato il primo musicista a ricevere il Premio Speciale Ubu per la partitura e la drammaturgia musicale di Requiem (Fanny & Alexander) e del Sogno di una notte di mezza estate(Teatro delle Albe). Ed è rimasto l’unico. C’è oggi un problema, in Italia, nella musica per il teatro? Mancano musicisti innovativi in questo campo, o è il teatro a lasciare loro poco spazio?
Per tradizione, in Italia, quando un musicista pensa al teatro si riferisce al teatro lirico. Nonostante le opere liriche non si facciano quasi più, i musicisti provenienti dai conservatori hanno ancora in mente la tradizione lirica che, a mio parere, oggi è assolutamente improponibile. Si tratta di un teatro ormai separato dal mondo reale, ma che continua imperterrito a vivere e a essere prodotto. I musicisti italiani non si sono ancora del tutto separati da questa situazione, sia per un orizzonte culturale che non lascia intravedere altro, sia perché non esistono strutture per poter fare altro: le politiche economiche in campo musicale sono ancora legate all’opera lirica. Inoltre, il teatro tradizionale considera quello del musicista un mestiere di serie B.
Nella scena contemporanea, invece, c’è un modo completamente diverso di pensare la danza e il teatro, a partire da una forte interrelazione tra i vari ambiti artistici e da un continuo rimescolamento dei vari linguaggi. Se nel mondo tradizionale il teatro di prosa, la danza classica e la musica lirica sono enti culturalmente differenti e separati, nell’ambito contemporaneo tutto è fuso insieme e c’è maggiore libertà di espressione proprio grazie alle relazioni che si creano.
Anche i conservatori italiani non favoriscono il lavoro dei musicisti a teatro. Gli studenti di composizione sono mantenuti legati all’opera lirica, e se qualcuno vuole occuparsi di teatro contemporaneo, deve farlo per conto suo e senza poter contare su alcuna struttura che lo integri. Si tratta di una carenza molto grave: oggi è difficile trovare dei musicisti interessanti nel teatro d’avanguardia, perché quelli che ci sono provengono da esperienze autodidatte. Personalmente, nel mio lavoro di insegnante di composizione musicale elettronica al Conservatorio di Perugia, cerco invece di portare i miei studenti ad altre frontiere, integrandoli con il teatro e la danza contemporanei.

All’estero invece la situazione è diversa?
Credo che all’estero il teatro contemporaneo e la musica siano molto più integrati, anche se i conservatori e le scuole di musica tendono ancora a seguire la tradizione lirica. Esistono però delle fortunate eccezioni, come l’Università di Oslo, in Norvegia, dove si studiano teatro, danza e opera lirica nello stesso ambiente. Questo non significa che uno studente di danza faccia anche del teatro; ma significa creare una realtà che stimola le collaborazioni tra diverse discipline, al contrario di quanto avviene in Italia. Inoltre questa struttura, nonostante ospiti relativamente pochi studenti – circa 400 – comprende ben 9 teatri in cui permettere loro di fare esperienza diretta già in fase di studio.

Nella sua esperienza di musicista per la scena, come descrive l’evoluzione dell’approccio del corpo alla musica, nel teatro e nella danza?
C’è sempre stata una notevole differenza di approccio del corpo al teatro e alla danza, ma sta diventando via via più sottile. Oggi, per il teatro, il movimento e la corporeità sono sempre più importanti, mentre nella danza si è tornati a una volontà di racconto: la danza contemporanea in principio era movimento puro, e invece oggi, col teatro-danza, instaura racconti complessi e non più lineari come nella danza classica. I confini sono ormai molto labili. Nel mio lavoro me ne sono reso conto soprattutto due anni fa, durante la mia prima esperienza con la coreografa sudafricana Robyn Orlin: le sue danzatrici erano in realtà attrici, e lavoravano anche con la voce. Oggi il tentativo di combinare il movimento del corpo, il testo, la musica e la scenografia fa parte dell’ideazione dello spettacolo, alla ricerca di un’unica chiave narrativa. A partire dall’inizio del ‘900, l’arte ha cominciato a essere sempre più astratta, ma oggi non è più così: non voglio dire che rifiuta l’astrazione, ma solo che al suo fianco c’è tanto altro, a partire dalla narratività che è tornata a far parte dell’arte contemporanea. Parlare di narratività della musica e dell’arte negli anni ’60 e ’70, invece, era quasi scandaloso.

La sua ricerca musicale spazia in diversi ambiti, ma è sempre riconoscibile nella sua forza di tenere lo spettatore saldo all’ascolto e senza scampo, e nel suo stile incisivo che rimane in testa a lungo.
Nel comporre la mia musica faccio ciò che so fare e che l’istinto mi suggerisce. La mia narratività non è mai pensata in modo teorico, nonostante tanti sostengano il contrario, anche ascoltando le mie musiche pure. Ma non posso negare che la musica, tutto sommato, non può sottrarsi dall’essere una narrazione, anche se astratta. Ciò che un musicista dovrebbe saper fare è lavorare sul tempo: la musica è l’unica arte che ha come dimensione esclusiva il tempo, e se un musicista non lo sa dominare, non può dominare nient’altro. Lavorare sul tempo significa tenere l’ascoltatore dall’inizio alla fine, e questo si può fare solo con una narrazione, studiata o innata che sia.

L'autore

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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