1. Dieci parole per descrivere la vostra evoluzione in questi dieci anni di lavoro.
Collettivo. Conflitto. Ricerca. Avant-pop. Immaginario (collettivo). Catastrofe. Darwin. Riso. Progettualità. Pubblico (come interlocutore, come spazio urbano, come spazio politico)
2. Dieci anni fa qual era lo spettacolo teatrale più bello che avevate visto? E oggi cosa direste?
Divertente: è stata l’ultima domanda del primo colloquio al Premio Scenario 2005. Rispondemmo in 5 modi diversi, naturalmente. Oggi – più smaliziati – eluderemmo la domanda, perché “non esiste lo spettacolo più bello”, ma dentro di noi elaboreremmo comunque risposte diverse, 3 per l’esattezza, che in 3 siamo rimasti. Aspettate, chiedo anche al tecnico… 4 allora, 4 risposte diverse. Che dite, parliamo di cinema?
3. Avete iniziato inserendo nel titolo la condizione di “apnea” (11/10 in apnea, 2005) partendo un senso di “fine” e di “vuoto” ma anche di grande energia, ritmata da un’ironia a tratti feroce, a tratti impietosa verso i tic di una generazione (Post-it, 2007). La “fine” dell’inizio di dieci anni fa, a ripensarla oggi, che effetto fa?
La Fine è un’ossessione che abbiamo, ce la teniamo, ci facciamo i conti, cerchiamo di trasformarla in qualcosa di così non-sense da divenire sensato sulla scena. L’effetto è sempre quello: com’è terrificante e bella la Fine, come sono sublimi i crolli, le macerie, i deserti, le catastrofi… Possiamo dire che 11/10 in apnea (2005) raffigurava dei 20enni in un garage che veniva smontato, mentre il più recente BE NORMAL! (2013) raffigura dei trentenni in strada come fossero in battaglia col loro tempo: due poli autobiografici – intesi come biografia di una generazione – che a guardarli col senno di poi incorniciano in modo del tutto spontaneo il lavoro di questi circa 3650 giorni spesi insieme (spesso domeniche incluse).
4. La cosa 1 (2008), uno spettacolo “fatto di corsa” nel senso letterale. Uno spettacolo con scene da romanzo di formazione, assillate però dalla continua corsa dei performer. Una generazione a metà fra una “corsa dei topi” imposta (Goodman, 1960) e una velocità salutare che è dunque commistione, connessione, visibilità. Possibile, però, che non si possa mai scegliere?
Si può scegliere di fermarsi. Gli altri correranno comunque, i tuoi mostri ti raggiungeranno, i daimon si perderanno, il cronometro continuerà a scorrere – è un po’come un videogioco, il punto è: quante vite hai? I topi non sono consapevoli che non c’è uscita dalla stanza e non sono capaci di co-figurare alcuna exit-strategy. Noi siamo primati evoluti, in teoria correre fino allo stremo delle forze è già un metodo abbastanza pratico per prepararsi a scalare muri e sviluppare consapevolezza. Puntiamo sull’energia cinetica, in fondo ostinarsi a fare delle opere teatrali nel 2015 che altro obiettivo potrebbe avere?
5. Dies Irae. Cinque episodi intorno alla fine della specie (2009). Un’insistente domanda agli spettatori guardando la Storia all’indietro: What if? Che cosa sarebbe successo se? pensando a ciò che non è più possibile mutare. E se “la specie” prossima alla fine fosse quel teatro di ricerca che tanto amiamo? Quindi: pensando anche al nuovo decreto in fase di attuazione, che cosa accadrebbe se domani TS diventasse Ministro della cultura?
Che noia, legiferare. No grazie. Scherzi a parte: la ricerca (teatrale e non) è la punta più avanzata dello sviluppo culturale di un paese, è ciò che ci posizionerà nell’immaginario planetario (con le relative conseguenze politico-economiche) nei prossimi secoli. Veniamo da Firenze e sappiamo quanto aver segnato un’epoca può garantirti porzioni di futuro… quindi se fossimo ministri avremmo giusto questa ossessione: la ricerca non come lusso ma come necessità. Suona banale, lo sappiamo, ma il paradosso è che persino ciò che è banale nel pensiero collettivo non è più scontato nell’opera di chi legifera. E ora non vorrete mica che parliamo davvero del nuovo decreto?
6. Santarcangelo 2010, Finale del mondo. Un radiodramma live: mentre l’audio va in onda in diretta su Radio Rai Tre, il pubblico del festival assiste a una partita di calcio, uno scontro uno a uno tra due calciatori di fronte a un unico tifoso, commentato dalla voce di un radiocronista in diretta da Johannesburg dove, in contemporanea e per davvero, si gioca la finale dei mondiali Olanda-Spagna. Dov’è la realtà? Esiste solo se la “tormentiamo”, se la intendiamo come paradosso spazio temporale, come cortocircuito?
La realtà può darsi pure che esista, ma secondo noi l’uomo porta in sé questo paradosso: è programmato per esplorare l’esistente fino ai limiti dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, senza riuscire mai a cogliere il tutto. Il senso è nella ricerca (di nuovo). Poi c’è l’immaginario, l’inconscio collettivo, l’esperienza mediata, la realtà aumentata – se parliamo di queste realtà, che esistono altrettanto, allora sì: qui è tutto un gioco di salti quantici, perché sono prodotti dell’incessante lavorio mentale e manuale dell’uomo e quindi il tormento, il paradosso e il cortocircuito sono aspetti inevitabili. Forse, ma forse, i modi tecnologico-culturali in cui pieghiamo il reale costituiscono il nostro attuale piano evolutivo come specie, ma non sfuggono allo stesso paradosso: anche le realtà che ci fabbrichiamo debordano dalle nostre capacità di comprensione e quindi non facciamo che indagarle. Play. Loop.
7. Un collettivo di ricerca, i performer più il dramaturg, una regia comune. Fin da subito avete lavorato come un (bel) mostro a più teste, portando avanti un “metodo orizzontale” che rivendicate non solo nella fase creativa, ma anche in occasione dei laboratori teatrali che costituiscono una parte importante della vostra attività. Cosa si perde e cosa si vince lungo il percorso che va dalla ricerca di gruppo alla singolarità di un’opera?
Sì perdono possibilità, perché un no del gruppo a un’idea individuale impedisce a certe cose di accadere e chissà, magari erano geniali. Si guadagna complessità, perché il lavoro è sempre mutevole, contradditorio, sfaccettato e se il gruppo avverte l’urgenza di lavorare insieme l’oggetto a cui arriva rappresenta tutti. Non esiste un metodo privilegiato, non crediamo nel collettivo come “alternativa migliore”, è semplicemente il nostro modo di lavorare.
8. Nella Repubblica dei Bambini (2011) portate il pubblico dei giovanissimi a confrontarsi con la regola. Prima, infrangete la legge per fondare la micronazione, poi, tentate di darvi una costituzione perché questa prosperi. Parlando di “regole” teatrali, preferite distruggerne di vecchie o costruirne di nuove?
È un problema che non ci poniamo, onestamente. È liberatorio e difficilissimo distruggere, è difficilissimo e spesso illusorio creare regole nuove (ammesso che sia possibile). Con Lavoisier siamo più votati alla trasformazione: le regole, anche quelle più intrinseche, sono ormai talmente assimiliate, note e riconoscibili che autori e pubblico sono pronti a giocarci, ribaltarle, usarle, tritare teatro vecchio per farne di nuovo e così via. La convezione ha cominciato a fagocitare se stessa, a noi non è mai importato il nuovo, piuttosto lo stare nel presente, il che non riguarda solo il nostro punto di vista come autori ma anche il/i pubblico/i a cui ci rivolgiamo.
9. BE LEGEND! e BE NORMAL! (Daimon Project, 2013). Entrambi i lavori partono da una domanda: “Cosa vuoi fare da grande?”, “Cosa fai per vivere?”, tra dimensione quotidiana, storia e mito, ripensano il concetto d’identità individuale e collettiva (i desideri, le scelte, ciò che li induce, ciò che li affossa o nega). Cosa sta facendo TS per vivere, e cosa vuole fare da grande?
Teatro Sotterraneo e i suoi componenti fissi al momento sopravvivono di teatro. Non sembri poco. Ne siamo grati e ne avvertiamo la responsabilità, anche se fatichiamo a chiudere le mesate e contiamo gli spiccioli ogni giorno, però fin qui abbiamo trasformato il nostro progetto nel nostro lavoro e sì, è una lotta continua, la qualità della vita è quella che è, macchine mutui e viaggi di piacere sono lussi, la vita privata è manomessa e incerta ma alla fine di tutto possiamo dire che ne vale la pena perché siamo padroni del nostro tempo e della nostra energia/forza lavoro, oltre ad avere la proprietà intellettuale di ciò che pensiamo e facciamo. Il punto è che siamo già grandi: 32 anni in media. Per il ministero siamo under 35, per l’immaginario del paese siamo ggiovani, per i colleghi più maturi siamo emergenti: come si diventa grandi quando l’età diventa una gabbia generazionale, un tic del sistema paese, una condizione patologica? A tratti sembra che l’unica via adulta garantita sia il fallimento e quindi il fare altro, e siamo sereni, l’abbiamo già messo in conto come orizzonte del possibile – ecco una ragione per “festeggiare” questi 10 anni: ormai sono fatti, e nessuno e ce li potrà più togliere.
10. Marzo 2025, avere vent’anni. «A vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età». Crescere, maturare, invecchiare, o acquisire esperienza? Raccontateci un vostro spettacolo del marzo 2025, e il suo pubblico.
Vorremmo tanto buttare giù una versione distopica in cui il teatro non esiste più e il nostro spettacolo è fatto con residui robotici dismessi in un campo di prigionia per dissidenti sotto il cielo grigio di una società totalitaria in cui le rappresentazioni sono clandestine…
Invece eccovi una descrizione utopica, e che l’ottimismo diventi una forma di lotta: si tratta di un lavoro che dura 2 ore (riusciamo ormai a superare il nostro tetto limite dei 60 minuti). C’è una narrazione ma siamo riusciti a farla esplodere in mille rivoli e a comporre una serie teatrale compatta, quindi stiamo al diktat umano della realtà come racconto ma senza subirlo. Ci sono molti attori professionisti (perché c’è una produzione robusta) e sono eclettici – attori danzatori cantanti ginnasti – ma anche molte forme di coinvolgimento diretto del pubblico, parte integrante della messinscena: è uno spettacolo che è anche un rituale laico partecipato. Il tema e le opere di riferimento spaziano in modo talmente vasto che il pubblico è trasversale: adolescenti nerd, docenti letterari, ultras delle curve, ricercatori scientifici, marzialisti, turisti di passaggio, abbonati della prosa (sì, persino loro). Il lavoro si sviluppa in altri formati fuori dalle sale: se ne traggono libri che interagiscono con la rete tramite gli smartphone, giochi performativi che vengono usati in ambito scolastico-universitario, format televisivi d’autore, reading-concerti live, videogame che ibridano il virtuale col gioco di ruolo fisico e incontri pubblici che espongano e amplino il piano teorico che c’è dietro al progetto. È un tempo in cui nessuna opera rimane più isolata dalle sue possibilità di sviluppo. Lo spettacolo replica in spazi metropolitani ecosostenibili e multifunzionali dove prima e dopo è possibile attraversare gli scaffali di un biblioteca multimediale, assistere a delle conference e ballare fino allo sfinimento. E non dico che l’abbiamo fatto noi questo spettacolo, è firmato TS ma gli autori non si sa dove stanno né chi siano, dicono che un tempo giravano nel circuito del teatro contemporaneo (più che altri i festival, aggiungono…) ma nessuno se li ricorda più e anzi è probabile che la sigla ora sia usata da qualcun altro, c’era un numero di telefono sul sito ma se lo chiami suona a vuoto e nessuno risponde più da anni.
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.