Se la scena è uno spazio assoluto di libertà, se la finzione (come dice il critico Nicola Gardini a proposito della letteratura) ha «il compito di rappresentare la diversità e l’eccezione e di affermarle, se non come alternative, sì come realtà possibili», questo avviene forse a discapito e contro le biografie reali di chi decide di abitare il palco. Diario di un dolore di Francesco Alberici (attore-autore che ha lavorato molto con Deflorian/Tagliarini e attivo anche con la propria compagnia Frigoproduzioni), che ha debuttato quest’anno nell’ambito della rassegna “Anni Luce” del Romaeuropa Festival, sembra proprio esplorare un tale paradosso.
Lo spettacolo si apre con un resoconto-confessione: l’attrice Astrid Casali si avvicina al pubblico dal lato sinistro del palco e descrive, in un crescendo di intensità emotiva, il momento in cui ha trovato sua sorella impiccata nella propria stanza. Racconta con dovizia di dettagli la visione del corpo appeso, disseziona i propri sentimenti nel momento della tragica scoperta. «Ma è un episodio che ti è successo veramente, giusto?», chiede alla fine della narrazione Alberici, unica altra presenza in scena oltre a un lungo tavolo di legno e tre sedie. «N-no, no!», risponde Casali stupendosi (e forse risentendosi) della domanda. «È un passaggio di Norwegian Wood di Murakami. Un libro che mi è piaciuto molto».
La tensione accumulata fin lì si scioglie; l’attrice mostra, forse ostenta, una certa naturalezza nell’aver “finto” un sentimento e la domanda di Alberici (che fino a un istante prima era anche la nostra) ci sembra quasi stupida. Eppure, da lì in avanti, lo spettacolo prosegue giocando in continuazione sul filo di una tale ambivalenza. La luce è neutra, diffusa sul palco, per nulla enfatica, mentre la recitazione si muove in una dimensione di rapporto col pubblico intimo, confidenziale: stimolata in maniera discreta da Alberici, che sul palco assume a tutti gli effetti le vesti di un “regista”, Astrid inizia allora a rievocare ricordi, sensazioni dal passato, piccoli “quadretti” e “scene” che compongono infine il senso di una biografia personale, di un diario, appunto. Al centro, il dolore per la morte di suo padre, importante uomo di teatro, e l’incapacità, forse, di marcare con certezza la distanza emotiva che la separa da quell’evento avvenuto ormai dieci anni fa, quando lei era diciassettenne.
Dalla pura finzione, ovvero dalla declamazione naturalistica di un brano letterario, si passa dunque al resoconto intimo, a un teatro della realtà e della memoria. L’ambiguità, però, rimane costante. A tratti in modi e con toni che potrebbero sembrare quasi “di maniera” («Ma sto davvero recitando?», si chiede a un certo punto l’attrice), a tratti invece mantenendo una tensione recitativa sottile, Alberici e Casali cercano infatti di abitare quella soglia di separazione fra attore e personaggio, fra vissuto e trasfigurazione: lo spettacolo procede per domande e tentennamenti, con scene che sembrano quasi andare più a illustrare e spiegare ciò che si sta raccontando invece che a rappresentarlo e agirlo.
Francesco Alberici ha dichiarato di essersi ispirato per Diario di un dolore all’omonimo libro dello scrittore e teologo C.S.Lewis così come alla vicenda dell’autoritratto “bende e cerotto” realizzato dall’illustratore e fondatore della rivista Frigidaire Franz Ecke dopo un incidente (autoritratto che campeggia infatti illuminato sullo sfondo della scena e che costituisce anche la locandina dello spettacolo). L’intento non è tanto quello di esprimere dolore, o un dolore personale, sul palco, quanto quello di ragionare sulle rappresentazioni possibili del dolore, su cosa queste spostino nelle vicende private e biografiche di ciascuno. Non si tratta solo di finzione, o di teatro. Alberici, a un certo punto della messa in scena, lo afferma chiaramente: «Io non ho una storia all’altezza del mio dolore». Si tratta di esplorare il paradosso per cui trovare una narrazione ai propri traumi, rappresentarli appunto, sia un dato antropologico, faccia parte integrante della costante rielaborazione simbolica di ciò che si vive ma, allo stesso tempo e nonostante il suo valore “terapeutico”, è proprio una tale rielaborazione ad allontanarci forse da un’esperienza davvero prossima e primigenia del dolore e delle sue conseguenze esistenziali. Le parti maggiormente “leggere” e ironiche dello spettacolo sembrano ricordarcelo: non può esistere alcuna rappresentazione vera poiché ogni rappresentazione, anche quella che più si ancora a una dimensione reale o privata, possiede in quanto tale una componente di arbitrarietà.
Poco dopo l’introduzione delle vicende, Alberici chiede ad Astrid di provare a piangere “a comando”, mostrando così in maniera molto esplicita l’aspetto più meramente “tecnico” e artificioso della rappresentazione del (o di un) dolore; oppure ancora un po’ più avanti, interrompendo un discorso serioso del regista, l’attrice finge di sbattere la testa contro il pesante tavolo di legno, producendo il rimbombo grazie a un colpo nascosto della mano: Alberici vuole imparare il “trucco” e da lì, in un crescendo di vari tentativi guidati, si crea una sorta di “siparietto” che vira sul comico e altro non fa che ribadire, per via assurda, la natura di inganno e quasi di gioco che possiedono certe espressioni di dolore. È come se, scavando sempre di più nei meandri di una memoria traumatica, non si trovasse infine che lo scherno canzonatorio, un ennesimo mascheramento. Casali ora si rivolge a noi, sia con piglio d’attrice sia uscendo dal personaggio, ora intesse una dialogo con Alberici, che a tratti la guida e a tratti, partecipe, la osserva nel suo recitare. Ripercorre gli ultimi mesi di vita di suo padre, si chiede in che modo quel periodo abbia influito sulla sua scelta di intraprendere la carriera teatrale (formandosi, però, a una scuola diversa da quella paterna), esplora i rapporti inter-familiari e nota quanto questi, in particolare i rapporti fra le sorelle, fossero per certi versi sovrapponibili al dramma checoviano che dai legami di sorellanza prende appunto il nome… Siamo nei territori dell’autofiction, della drammatizzazione di un “io-cavia” che non coincide con l’io reale, ma che comunque prende le mosse da un vissuto tangibile, effettivo. Eppure, Astrid non cerca una liberazione attraverso l’uscita da sé. Al contrario, è come se il suo divenire-personaggio servisse invece a meglio dissezionare i propri ricordi, a guadagnare una distanza che è però anche possesso, affermazione. Ma è il teatro il luogo per una simile dialettica?
Le vicende personali dell’attrice-protagonista sono presentate in maniera sincera e schietta, senza fronzoli, come fossero il frutto di una ricerca intrapresa per motivi anche esistenziali oltre che “artistici”. Eppure, mano a mano che procediamo verso una “verità nuda”, ovvero verso il momento esatto in cui Astrid Casali viene raggiunta dalla notizia della morte del padre, tendiamo a credere sempre meno a quanto avviene sul palco, tendiamo a estraniarci: l’ultima scena dello spettacolo è rappresentata in modo smaccatamente teatrale, con un piccolo cambio di scenografia e con le luci ben collocate. È retorica, nel senso tecnico del termine: Casali impersona pienamente la Astrid più giovane mentre riceve sul cellulare il messaggio che attesta il decesso del proprio genitore, si sofferma a leggere e indugia in una pausa recitativa tesa a enfatizzare sentimenti ed espressioni mentre un faro dal lato le illumina il volto. Infine, si alza infine dalla sedia per lasciare il palco in una camminata dal ritmo non certo solenne ma comunque calcolato. Siamo dunque di fronte a due estremi del dolore e delle sue rappresentazioni: all’inizio abbiamo creduto ad Astrid attraverso le parole e le vicende di Norwegian Wood, parole e vicende che non erano le sue. Ora che l’attrice si misura invece con ciò che dovrebbe costituire per lei il massimo della verità, almeno nell’ambito della sua sfera più intima e privata, è come se non potessimo più far parte di quella sofferenza e tutto ci apparisse “posticcio”. Anzi, è forse come se a Casali stessa – leggendosi dentro la grammatica teatrale – la propria storia apparisse oramai posticcia, non più all’altezza di un dolore che le è stato espropriato dai meccanismi della messa in scena. Il “diario”, cui si allude nel titolo, è allora il resoconto di un furto, di una profondità rubata. L’attestazione, dolorosa nel suo lento dispiegarsi, di come la negazione di una qualsiasi prossimità con se stessi sia in fin dei conti l’essenza della pratica attoriale e, forse, della teatralità tutta.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.