L’uomo dal fiore in bocca… e non solo!: adattamento della quasi omonima pièce pirandelliana in cui Gabriele Lavia, attraverso la sua regia, conferisce all’opera una marcata impronta personale. L’intenzione dichiarata già nel titolo è assiduamente confermata da vari elementi. Non è più un bar il luogo in cui avviene l’azione, ma una più cupa e a tratti onirica sala d’attesa di stazione ferroviaria. È illuminata da lampioni (unici elementi immutati rispetto alle indicazioni scenografiche del poeta girgentano) con una panca al centro che si estende in orizzontale ed alle spalle una vetrata. Da qui, di tanto in tanto, sul sottofondo di fischi e temporali, transita rapidamente un treno e si scorgono sagome incandescenti, quasi fantasmagoriche, di passanti con ombrelli in mano. In alto, al centro della vetrata, un orologio privo di lancette domina la scena, conferendo al tutto un sapore beckettiano. I due protagonisti (Gabriele Lavia e Michele Demaria) – in pantalone, giacca e tanto di cappello – sembrano immersi nei rispettivi mondi: uno dorme a un lato della panca, l’altro esordisce da un portone laterale con l’ombrello rotto e decine di pacchi dai colori sgargianti: tanti, troppi, «due per ogni dito», spiega con tono sfinito al suo interlocutore. Quest’ultimo, con apparente calma, dà inizio a una serie di argomentazioni. Non si riscontra il tipico nonsense del teatro dell’assurdo, ma buffoneschi e tragici, grottescamente pennellati come sono, i nostri personaggi sembrano ricordare Vladimiro ed Estragone: uno batte i piedi per la rabbia e si fa male, l’altro, con poetico trasporto, si lancia in performance pantomimiche nel rievocare il confezionamento di pacchi regalo. Si ragiona di vita e morte, dei brevi momenti in cui si assapora l’esistenza e del peso della sua finitezza. L’uomo col fiore in bocca, che traina la conversazione, attinge dalla novella Il marito di mia moglie per citare l’uomo metafisico di Schopenhauer, ma anche dallo “spirto filosofico” di Bernardo in Acqua Amara, nel momento in cui si lancia nella disquisizione sulla necessità di creare due generi autonomi (quelli DEL moglie e DELLA marito). L’inserimento di estratti dalle novelle non tradisce la memoria dell’autore che, come notava Giovanni Macchia, era solito far viaggiare i propri personaggi da un’opera all’altra. Le aggiunte intensificano la portata concettuale della pièce. Il senso del grottesco, seppure centrale nella poetica pirandelliana, è qui portato alle estreme conseguenze. Immutata si conserva invece l’impronta di una sicilianità restituita dalla canzone nostalgica e dialettale che i due intonano. Ogni elemento nello spettacolo è portatore di una funzione semantica: il tuono che irrompe all’inizio, potente e spaventoso, pare preannunciare il tema centrale della morte, mentre i pacchetti regalo – il cui confezionamento è descritto dall’uomo col fiore in bocca come uno dei rari momenti in cui si assapora realmente la vita – si contrappongono, con la loro vivacità, alla cupezza circostante. Cambia il finale, prevedibile forse, ma comunque denso di spunti di riflessione. A morire all’improvviso, anticipando il preannunciato destino dell’uomo con l’epitelioma (il fiore) nella bocca, è paradossalmente il pacifico avventore che col pensiero di morire non ha potuto farci i conti. Una fine beffarda, degna del poeta del caos e della sua ironia amara. Martina Vullo]]>
L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.