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Giffoni

Di fronte a un mondo che brucia. Conversazione dal Giffoni Festival

di Agnese Doria

Sono in coda all’ortofrutta di Giffoni Valle Piana che per l’occasione realizza gustosi pranzi al sacco. Accanto a me si accalcano adolescenti accaldati, chiacchierano fitti tra loro, febbrili. Carpisco qualche frammento di discorso, qualche parola: la regia mi è parsa…. Il doppiaggio era…. Il direttore della fotografia è quello che ha anche fatto… Penso che forse è la prima volta che passando accanto a gruppi di adolescenti li percepisco così immersi in un discorso unico che li abbraccia e coinvolge tutti a prescindere dall’età e dalla provenienza.

Dopo aver conquistato la mia “schiscetta” vado a ripararmi all’ombra dell’Hollywood Park. È il mio primo giorno al Giffoni Festival e provo a sintonizzarmi. Mentre cerco ristoro sotto a un albero, in uno dei lugli più caldi di cui abbia memoria, vengo raggiunta dalle note sospese di una melodia. Mi ero ripromessa di intervistare i ragazzi, di raccogliere le voci dei protagonisti di questa kermesse, ma le note del walzer n. 2 di Shostakovich mi attirano altrove. È un invito irresistibile: è la musica che attrae Pinocchio, il flauto del pifferaio di Hamelin. Le note mi conducono alla Cittadella del Cinema, cuore pulsante del Festival, una leggera brezza mi spinge mentre le bolle di sapone volano nell’aria.

Ho avuto la possibilità di seguire la 52° edizione del Festival di cinema Giffoni dedicato a bambini e ragazzi dai 3 ai 18 anni e di incontrare Claudio Gubitosi ideatore, fondatore e direttore con cui ho scambiato una chiacchierata al bar circa la possibile funzione di un festival di cinema, oggi, in relazione alle nuove generazioni. Iniziamo proprio da qui, nel chiedere a Gubitosi, di raccontarci come interpreta il suo ruolo e il ruolo di un Festival dedicato alle nuove generazioni.

«Ci troviamo per la prima volta nella storia dell’umanità di fronte a un mondo che brucia, a deserti che avanzano, a fiumi disseccati, a 140 guerre in corso e a un virus che ancora non ci lascia in pace. Siamo di fronte a epidemie e solitudini. Chiunque agisca nel mondo dell’arte e della cultura deve avere la forza di dire: iniziamo da capo. Non una ripartenza ma un vero e proprio nuovo inizio. Se proprio le persone che hanno il dovere di poter immaginare nel presente e per il futuro una società diversa da quella che c’è oggi, se chi immagina l’evoluzione della nostra cultura, è per primo pessimista, non andiamo da nessuna parte. Non bisogna interrogarsi, bisogna agire. Se una persona ha il desiderio di distruggere ciò che qualcuno prima di lui ha fatto, ha il dovere di ricostruire mondi nuovi, intercettando interessi sconosciuti di questo mondo in continua evoluzione. Io non voglio ripartire dal 2019, quel mondo è finito, quel pubblico non c’è più, oggi abbiamo un’esigenza sociale completamente diversa».

Come dialoga e si mette in relazione con i giovani il Festival Giffoni?

«Abbiamo reagito realizzando un festival in presenza anche nel 2020 pur con tutte le limitazioni necessarie, aprendo 25 hub all’estero che hanno coinvolto più di seimila ragazzi. Abbiamo diluito il festival nell’arco di più mesi, cercando però di mantenere vivo un legame con il nostro pubblico, provando a regalare la certezza (in tempi estremamente incerti) che il Giffoni si facesse.

Il primo giorno di festival, appena ho sentito l’eco dei ragazzi che sono arrivati, le loro voci, grida, abbracci, baci ho visto che quello che avevamo programmato rispondeva alle loro esigenze di comunità. C’era una voglia, un desiderio di tornare a stare insieme, insieme occupare quelle poltrone, cercando di ritrovare la propria felicità in mezzo a tante altre persone».

In che modo un festival come Giffoni, dedicato ai giovani, può avere anche un ruolo educativo?

«Il ruolo educativo non è nostro, lo regalano al Festival direttamente loro: i ragazzi. Ognuno di loro è un docente per come si comporta, per come vive l’esperienza, per come la muta e la trasforma, per come la contamina. Giffoni non fa formazione, non ho mai voluto questo ruolo post o pre-scolastico, non ho mai voluto che il Festival fosse irrigimentato in una casella dedicata alla formazione. Quello che serve qui è la libertà dei ragazzi, la libera espressione delle loro capacità. Un ragazzo di 13/14 anni non è più uno spirito in costruzione ma una persona che ragiona con la propria identità definita, una propria personalità, non possiamo entrare nelle loro vite in modo devastante facendo i professori.
Il nostro ruolo è creare ponti, quello che succede su quei ponti o sulle sponde dei fiumi è qualcosa che è solo loro. Al Giffoni i ragazzi non restano soli, dopo la visione c’è un ampio dibattito tra di loro, devono imparare a comunicare. Devono avere da un lato il tempo di sedimentare dall’altro la forza di parlare/intervenire di fronte a 800 coetanei. Per noi è importante lasciar libero chi sceglie di venire a vedere un film: non dobbiamo ammorbarli con letture, informazioni. Ai ragazzi non interessa sapere se quell’inquadratura è perfetta. Io sono contrario alle gabbie, a un’idea governativa della fruizione. I ragazzi sanno che c’è una libertà di presa di parola e nella libertà cercano il confronto, senza obblighi. Giffoni da questo punto di vista rappresenta un canone inverso: non gli dobbiamo dare strumenti, se vogliono se li trovano. Forse questo è l’elemento che piace di più ai giovani che a migliaia tornano e purtroppo in migliaia restano fuori. Cosa li spinge? Il sentire che non devono fare un corso per essere adeguati al compito di giurati, vanno bene così come sono, portano il bagaglio di se stessi, capaci e pronti a raccogliere ciò che sono in grado di catturare da soli, senza mediazioni».

Farsi ponte vuol dire mettere in dialogo i ragazzi con le opere cinematografiche. Come scegliete i titoli presenti nella programmazione?

«Il mio team visiona 4500 film l’anno. Il concetto di buono o cattivo film non esiste. Esiste quel film che arriva a Giffoni perchè è utile a questa edizione, che ha la capacità di uscire dallo schermo per le sue grandi potenzialità narrative. Il cinema è uno strumento per leggere la società. Giffoni non è un festival per cinefili puristi. È un Festival per la gente che viene catturata da storie capaci di non celare mai la verità. Ogni tanto mi diverto a dire: “Se voi questi film li vedete brutti è perché brutta è la società che vi si rispecchia”.
Ai bambini diamo la possibilità di vedere delle opere capaci di farli crescere, riflettere, interrogare. Non è tanto quello che vedi in quel momento ad essere importante ma quello che ti porti dentro successivamente quando, una volta tornati a casa, si ha l’occasione di parlarne con i genitori. Proviamo a stare attenti al tempo stesso alla qualità dell’opera ma anche alle tematiche proposte. Molto a Giffoni lo proponiamo noi ma tantissimo lo mettono i ragazzi per primi. L’esempio di Giffoni non è replicabile perché si completa con i ragazzi e con le loro azioni. I ragazzi non hanno un programma, non vivono un calendario, vivono un grande evento per la loro esistenza».

Quale dialogo intesse il Festival con il paese di Giffoni?

«Sono un uomo fortunato perché sono nato qui, tutto è stato costruito con e per il mio paese, queste sono le mie radici. Giffoni non è una location. La valorizzazione delle proprie radici, la capacità di impresa, il coinvolgimento totale prima del paese e poi di tutto il territorio, l’aver attualmente occupato 140 persone tutto l’anno, aver dato un beneficio economico all’intera zona, insieme a una notorietà importante: sono molto orgoglioso di tutto questo. Il Festival non è un innesto, anche se qualche anno fa risposi a un giornalista inglese che dovevo chiedere scusa al mio paese perché ho portato una rivoluzione e dentro a questa rivoluzione c’è la violenza di un impatto grosso.
Quando si parla di festival di cinema vengono in mente il Festival di Venezia, Cannes, Berlino che hanno una chiara funzione per l’industria cinematografica. Ma secondo te il festival di Venezia va in Piazza San Marco? Si relaziona e dialoga con i veneziani? No. Fanno quello che devono fare e se ne tornano a Roma.
È necessario invece porsi il problema della propria identità, di dove si nasce, perché si decide di pensare a un Festival, quale rapporto si ha con il territorio e cosa rimane una volta finito il festival tanto a chi lo organizza quanto al territorio dove nasce. Sono domande fondamentali.
Ho chiesto a una società esterna di monitorare gli effetti e le ricadute del Giffoni in termini di occupazione creata, ricaduta economica sul territorio, processi di internazionalizzazione (siamo capaci di portare questa nostra idea fuori dai confini italiani?) e di destagionalizzazione (la possibilità di vivere anche oltre ai giorni strettamente deputati al festival). Ci vuole un’altra idea di partecipazione al festival, anche i giornalisti hanno una responsabilità in tal senso, non possono continuare a chiedere alla star di turno solamente cosa farà in futuro, l’articolazione delle domande deve variare a seconda del contesto in cui si trovano».

Giffoni ci interroga su quanto e come i giovani spettatori di cinema siano cambiati in questi cinquant’anni, ci spinge a chiederci se i festival continuino a essere effettivamente luoghi di attraversamento e libertà o se si celino cliché dietro alla spontaneità della cosiddetta partecipazione, se il protagonismo dei più giovani cambi a seconda delle istanze del tempo presente. Lungo il Blue Carpet della Cittadella le note di Shostakovich accompagnano domande e pensieri che non si sono acquietati: forse per questo ha ancora senso fare un festival oggi.

L'autore

  • Agnese Doria

    Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.

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