Personaggi sbozzati fra presentazione e rappresentazione, manipolati, quasi circuiti da attori che per intervalli s’immergono in un gorgo di azioni tragiche e se ne tengono però anche a distanza, per poterle lucidamente raccontare. Quelle sulla scena di David è morto di Babilonia Teatri sono presenze che ondeggiano fra adesione e distanza, fra dramma e narrazione. Una voce off informa che l’attore che vedremo farà David; riconosciamo il timbro del regista Enrico Castellani, autore dello spettacolo insieme a Valeria Raimondi. Nello spazio, corde a vista e quinte abbassate fanno da contrappunto ai velluti e ai lampadari del Teatro Goldoni di Venezia. La sala del debutto veneziano è piena: abiti eleganti, pellicce, gioielli, messe in piega, cravatte, profumi acri.
Entra David con una palla da basket, sul fondo si staglia un cuore di lucine rosse, immagine kitsch che pervade lo spazio visivo. David racconta di un gatto amato e perduto, dei suoi abiti rossi indossati per infastidire il padre, sottolinea che quando moriamo diventiamo numeri, cifre che rimandano a pratiche da smaltire. In piedi, monocorde, con la voce tesa ma ferma, il racconto di David (Filippo Quezel) è una soggettiva di un suicidio: un punteruolo conficcato nel petto, mentre poco prima i Blur cantavano Tender, «l’amore è la cosa più grande che abbiamo».
I mugolii di Britney Spears si diffondono nell’aria, una macchinina elettrica per bambini entra in scena guidata da Iris (Chiara Bersani, attrice disabile, magnetica). Col microfono si rivolge a noi sfrontata, cantilena le vocali come una vocalist, racconta di essere stata cacciata da un qualche convitto, dopo che «mi ero scopata mezza caserma», ma aveva rifiutato il maresciallo. Un occhio di bue la scontorna nel buio, perimetrando una presenza perturbante. Non le possiamo staccare gli occhi di dosso. Anche Iris racconta, parla del padre che la picchiava, introduce «quella notte», quando al risveglio ha visto David, suo fratello morto. Iris si è impiccata e ora riflette, divaga disquisendo dei carnivori e degli erbivori, mettendoci in guardia su questi ultimi. Ha visto il sangue del fratello, ha pensato al Ketchup, ora urla «Ketchup!» più e più volte, interdetta perché la colazione col salato proprio non le va a genio.
Le note di regia dei Babilonia Teatri descrivono David è morto come un’attuale Spoon River, con i personaggi che si raccontano post-mortem, in un delirio da abbandono che conduce ogni destino a un inevitabile scacco. A noi pare di stare di fronte al dispiegarsi “epico” di un incubo noir contemporaneo, in cui ci si accorge che la sostanza stessa della verità si sfalda nei passaggi fra realtà e rappresentazione. Ci aspettiamo uno svelamento, o almeno delle risposte: perché David si è ucciso? E Iris? Il meccanismo dello spettacolo smonta il noir per dare la parola al morto, emerge però una descrizione ambientale non troppo distante dalle province dei tristissimi personaggi di talune serie statunitensi (Fargo, la seconda stagione di True Detective). Gradualmente si fa strada la sensazione che nulla stringeremo, e che dal tragico nulla s’impari, se cerchiamo una spiegazione esterna a noi. La tensione emotiva si raffredda, il climax non arriverà, resteremo nell’asepsi di un Caos Calmo.
Entrano i genitori (Alessio Piazza, Emanuela Villagrossi), parlano all’unisono ma la madre è la prima a narrare. Prima di tutto inventano una versione dei fatti socialmente accettabile. David è morto, ma di arresto cardiaco. David è morto, amen. Prende la parola il padre: «Amen un cazzo, troppo facile. Andate in pace, la pace non c’è. Come faccio io a vivere?» Parte il pianoforte di Brian Eno, vengono alla mente altri dolori rappresentati al cinema (La stanza del figlio), i genitori prendono una corda e se la portano al collo. Poi entra Alex.
Alex (Emiliano Brioschi) è un cantante, la sua hit Nuvole è stata in testa alle classifiche. Racconta della sua vena creativa che si è persa, descrive l’incontro in ascensore con un clown dottore, poi di una donna che vende materassi, dell’inesausto tentativo della venditrice di convincerlo, insistendo su molle, lattice, guanciali, rivestimenti, reti. Guardando il tg dentro al negozio arriva l’illuminazione: David è morto! Quello sarebbe stata la sua nuova canzone, forse l’ultima, la definitiva, quella che avrebbe chiuso il cerchio per sublimare il dolore in rappresentazione, la sofferenza in denaro. Ma, anche qui, senza nessuna catarsi possibile. Dalla sofferenza non s’impara, al massimo la si fa fruttare (anche solo per chiudere un arco drammaturgico, con una nota che ci è parsa lievemente autoironica: il medico clown e la materassaia sono padre e madre di David e Iris). Chitarre elettriche sono calate sul palco, il brano David è morto dei Cabeki (brano orginale) prende il largo: «David è morto, controluce posso dirlo, è un’alba scura e non fa giorno. Alex si punta un’arma alla tempia».
Il padre e la madre salgono su una scala al centro del palco. La madre dice di essersi strappata il cuore. Alex aveva affermato di odiare i buoni. La madre invoca la possibilità di ricominciare tutto da capo. David aveva chiesto un nemico contro cui combattere, «voglio un obiettivo, voglio le mie torri gemelle», quasi ricalcando il delirio da “stato di minorità” che descrive Daniele Giglioli nell’omonimo libro, reazione a una società che ci ha tolto la possibilità di agire, decidere, rischiare proprio mentre ci mette a confronto con personaggi televisivi e cinematografici che in ogni secondo decidono rischiano agiscono. Nel finale cadono fiocchi di neve, sullo sfascio, nello scacco, e salgono le note della canzone dell’inizio: «Come on, Come on, Come on, Love’s the greatest thing, That we have, I’m waiting for that feeling, I’m Waiting for that feeling, Waiting for that feeling to come».
David è morto sembra riprendere i fili di un discorso della compagnia divenuto ultimamente carsico. Dopo gli affondi “a tema” sulla morte e la sua idea (The End, 2011), su Gesù e la sua rappresentazione (Jesus, 2014), lavori che ci erano parsi volere fare i conti con la disamina di concetti, con l’esposizione, l’analisi e lo smontaggio di temi da “ridurre” nell’ora di uno spettacolo teatrale; dopo incontri, aperture, collaborazioni con gli orizzonti della giovinezza in Lolita, 2013, e con La casa dei risvegli di Bologna per uno spettacolo con i risvegliati dal coma in Pinocchio, 2012; i Babilonia qui ritrovano il filo del resoconto della vita di provincia, della sua assurdità, della ferocia mascherata da materassi a molle, come un po’ avveniva in Pop star e Pornobboy (entrambi del 2009). David è morto è frutto della coproduzione di due teatri nazionali, quello veneto e quello emiliano-romagnolo. I cinque interpreti sono stati scelti con un provino “alla Babilonia”, dove si chiedeva di postare un video su YouTube, al quale sono seguite giornate di lavoro insieme (come ci hanno racontato lo scorso anno in questa intervista). Non di sola regia, non di sola messa in scena di testi del passato devono vivere dunque i Teatri Nazionali, e fa un certo effetto vedere sulla facciata del Goldoni i visi di Castellani e Raimondi al fianco di quello di Accorsi. Fa un certo effetto vedere programmato David è morto nella stagione “regolare”, non nelle stagioni di serie b o c del contemporaneo. Un plauso dunque al lavoro della direzione del Teatro Stabile del Veneto.
David è morto non consola, raffredda la temperatura, abbassa l’enfasi, pur preservando la spettacolarità. Non conforta, non mostra parabole dalle quali apprendere, non ha valore edificante. Non spiega, anzi divaga, così la narrazione dei personaggi s’inceppa proprio di fronte alla nostra ansia di senso, insiste su dettagli la cui sostanza si approssima al non-sense, all’enumerazione per assonanza fonetica, quasi al gioco linguistico (Alex e la sua ricerca di ispirazione che diviene lista infinita lista di nomi di opere).
Oggi il teatro può provocare una scossa dal torpore. Potrebbe incrinare i nostri sonni, destarci di fronte alle poche certezze che abbiamo. Lì potremmo vedere una realtà dai tratti sempre meno nitidi, e grazie alle domande del teatro essere invitati a decidere se vogliamo vederci più chiaro, sapendo che il fallimento è l’orizzonte più probabile. Questo ci pare riescano a fare i Babilonia. David è morto è una presa di coscienza che avviene dopo aver esalato l’ultimo respiro, un luogo dal quale solo il teatro può guardare, approssimandosi alle nostre malcelate disperazioni, riflettendo un’immagine che rivela chi veramente siamo, noi che ci sentiamo buoni.
foto di Eleonora Cavallo
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.