«Devo recitare o posso fare di testa mia?»
È proprio quel fare di testa sua che rende la figura di Alberto Manzi, del maestro Manzi, affascinante e appassionante. Provocatore, ribelle, insofferente di fronte alle ingiustizie, chi più di lui poteva entrare in empatia con il mondo dell’infanzia e in generale dell’educazione? Procedendo a modo suo, tra richiami disciplinari e sospensioni didattiche, realizza il sogno di “fare il maestro per aiutare i ragazzi”. In realtà da giovane sarebbe voluto diventare capitano di lungo corso e potremmo dire che il desiderio di solcare i mari alla guida di una grande imbarcazione si è concretizzato in modo inaspettato, prendendo altre strade. Maestro alla scuola elementare e all’Università, maestro al carcere minorile, maestro agli Indios del Sud America, maestro alla televisione, grazie alla celebre trasmissione della RAI Non è mai troppo tardi, in cui insegna a leggere e a scrivere ai tantissimi italiani che allora non erano in grado di farlo. E successivamente anche a coloro che verso l’Italia erano emigrati da altri paesi, sebbene rivelò in un’intervista che il tentativo della RAI fu soprattutto di facciata e questo non gli andò mai giù. Alberto Manzi ama la sfide, osserva e sperimenta. Persino quando si presenta in RAI per quel provino grazie al quale diventerà “il maestro degli italiani”, dopo essersi assicurato di poter impostare la lezione come più gli piaceva, strappa il copione («Chi ha scritto questa lezione non ha capito niente») e comincia a disegnare, perché la televisione è immagine in movimento, non ci si può permettere di annoiare gli spettatori con tediose lezioni frontali, ma bisogna coinvolgerli. Manzi parte dalla necessità di “tenere una tensione cognitiva” e dalla certezza che “l’imposizione non forma un concetto”, che si tratti di una lezione a scuola o in televisione. Tutte queste idee, che oggi sono perle per chi si occupa di educazione e che hanno contribuito a modificare in qualche modo il sistema scolastico, all’epoca vennero accolte con sdegno dalla scuola tradizionale, la scuola dei voti e delle schede di valutazione (che sembrano non passare mai di moda), alle quali Manzi opponeva il suo unico giudizio possibile: «Fa quel che può, quel che non può non fa».
Daniela Nicosia della compagnia Tib Teatro, autrice e regista dello spettacolo Alberto Manzi: storia di un maestro, ripercorre la biografia del maestro romano, figura alla quale è molto legata affettivamente (“da Alberto Manzi ho imparato a scrivermi la vita”), per raccontare l’importanza di una pedagogia basata sul piacere dell’apprendimento, sullo sviluppo di un pensiero critico, sulla curiosità che scaturisce da una relazione educativa sana, cioè finalizzata al benessere degli studenti, siano essi bambini, adulti, in condizioni di svantaggio o meno, italiani o di altra provenienza geografica.
Lo spettacolo, andato in scena il 13 novembre a La Baracca Testoni ragazzi di Bologna, parla ai bambini e alle bambine perché è la storia di un maestro, un maestro un po’ speciale, e comunque molto diverso o forse molto simile a quelli che hanno incontrato; ma parla anche agli insegnanti e alle insegnanti perché racconta di un certo modo di fare scuola, che conoscono, condividono e portano avanti, oppure no.
I due attori in scena, Marco Continanza nei panni di Alberto Manzi e Massimiliano di Corato in quelli di Mollica, uno dei ragazzi del carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma, sono i portavoce di uno sguardo sulla scuola dal punto di vista del maestro e dell’alunno, ma sembrano anche l’uno l’alter ego dell’altro. Probabilmente ciò che davvero li distingue e che ha fatto sì che le loro strade si dividessero, portando l’uno a diventare un maestro e l’altro un fuorilegge, è quella capacità di esercitare il pensiero stimolata dal desiderio di imparare. Non a caso l’autrice del testo dello spettacolo più volte fa dire a Manzi che imparare a leggere e a scrivere non è solamente un atto meccanico, ma sviluppa delle competenze che permettono di leggere e “scrivere” il mondo intero e non soltanto il foglio che abbiamo davanti.
Mollica a poco a poco capirà quelle parole, tanto più perché il maestro arriverà a liberare i pensieri dei giovani detenuti e a condurli fuori dalle mura del Gabelli grazie a “La Tradotta”, il primo giornale realizzato in un carcere. È lo stesso Manzi a ricordare in un’intervista che degli oltre novanta giovani ai quali riuscì a fare scuola in carcere, dopo essersi guadagnato il loro rispetto facendo a botte con il capogruppo (una condizione imposta dai ragazzi), pochissimi ritornarono in prigione dopo essere stati scagionati. Fuorilegge si diceva di Mollica. Ma in fondo lo stesso Manzi è stato ritenuto tale dai suoi superiori, perché impegnato continuamente in una battaglia che per essere vinta necessitava di una certa propensione a rompere gli schemi e uscire dalla norma. Non a caso in un momento dello spettacolo vediamo Mollica e Manzi, di nuovo insieme dopo che il maestro aveva lasciato il carcere per insegnare all’Università, accomunati da un destino in qualche modo simile: l’uno era ritornato in prigione e l’altro era stato sospeso dall’insegnamento per essersi rifiutato di valutare i suoi allievi e le sue allieve utilizzando il sistema dei voti.
Daniela Nicosia per delineare la figura di Manzi e rivelarne la propensione al mestiere di educatore, decide dunque di partire dalla sua esperienza di insegnante all’interno di un carcere minorile, all’epoca accuratamente evitato dai suoi colleghi. Il maestro invece accetta la sfida e quell’ambiente, fatto di sbarre, di regole, di divieti, diventa anche il simbolo della possibilità che si apre oltre gli ostacoli: cercare la libertà dentro una prigione, liberare il pensiero in un luogo in cui per poter sopravvivere bisogna spegnere il desiderio e obbedire. Manzi offre una soluzione: la parola e più in generale l’apprendimento.
La scenografia di Bruno Soriato, semplice ed efficace, risponde perfettamente alla necessità di ricreare uno spazio angusto, ma che potesse al contempo mutare e schiudersi, anche grazie alle suggestive immagini video di Mirto Baliani. Al rumore freddo e inquietante delle sbarre che si richiudono con violenza, si contrappone quello delicato e pacifico della pioggia. Il carcere diventa dunque metafora della prigione nella quale l’ignoranza può rinchiude se non si possiede la chiave della cultura.
I due personaggi, perfettamente contrapposti e incredibilmente complementari, raccontano di quel “noi” che si realizza tramite la relazione pedagogica, utilizzando il corpo attraverso una partitura gestuale precisa, molto studiata, per cui il movimento è sempre funzionale a un legame che si stabilisce a poco poco, fatto di arresti e riprese, di sospetto, fiducia, delusione, affetto. In questo rapporto a due, in cui Mollica rappresenta tutti i bambini e le bambine che Manzi ha incontrato nella sua esperienza educativa, è vivissimo il ricordo di un altro Maestro, Don Milani, del quale non a caso il Manzi della Nicosia rielabora una famosa citazione per spiegare a Mollica l’importanza di emanciparsi attraverso le parole: «se conosci solo 100 parole e un altro ne conosce 1000 ti potrà mettere sempre i piedi in testa».
Due figure chiave della pedagogia moderna accomunati da un pensiero comune, una convinzione che ritroviamo in quanti chiamiamo a ragione Maestri: l’apprendimento è uno strumento di liberazione, non solo per se stessi, ma per l’intera umanità. È un progetto collettivo, rivoluzionario, che presuppone una grande dedizione e responsabilità e un sogno talmente grande che se non ci si crede fino in fondo diventa solo retorica: cercare di rendere il mondo un posto migliore e per farlo non si può che partire da sé.
Il Manzi di Daniela Nicosia si rivolge direttamente a noi spettatori e spettatrici e ci accompagna nel viaggio della sua vita, come se sfogliassimo con lui un album di fotografie e ci raccontasse con pacatezza anche le più incredibili avventure. Il suo spirito ribelle e disobbediente emerge dalle vicende che ha vissuto e che apprendiamo a poco a poco, perché colui che si presenta a noi è come se ci stesse parlando da un altrove sconosciuto. Marco Continanza si esprime in prima persona, è come abitato dal maestro, che utilizza per l’ultima volta il palcoscenico (in fondo un maestro non è anche un po’ attore?) per rivelare gli eventi che hanno disegnato il suo destino e ciò che li provocati: credere profondamente nel valore della conoscenza.
La spigliatezza e la spontaneità di Mollica, concreto, fisico, nel qui e ora della storia, rende ancora più chiara la differenza tra i due protagonisti. Mollica è una delle foto dell’album di Manzi che prende vita mentre racconta, è immobile in quel passato, ma è solamente in quel tempo e anche se a volte può interagire con noi spettatori e spettatrici, ci parla da un tempo che non esiste più. Continanza da corpo a un personaggio che invece è etereo, che è nel presente, ma è anche nel suo passato, che racconta (e in certi momenti rivive) con sereno distacco. È con noi per il tempo di uno spettacolo, per lasciare un messaggio. È una voce che, pur presente e concreta, parla da lontano, fornendo a noi studenti, studentesse, insegnanti, gli strumenti per combattere la tentazione di gettare la spugna, dimentichi della gioia dell’apprendimento o del piacere dell’insegnamento maieutico.
Non sorprende la frase finale, perfettamente coerente con il maestro conosciuto in questo spettacolo, che in un certo senso rappresenta l’essenza di Manzi, colui che, come tutti i Maestri, non smetterà mai di insegnare alle generazioni future.
«Ora dobbiamo salutarci. E ricordatevi che se qualcuno, qualcosa vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi. Ciao!»