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(foto di Angelo Maggio)
(foto di Angelo Maggio)

Dammacco/Balivo, gli oggetti impliciti di un teatro minimo

di Francesco Brusa

Un accumulo che porta alla singolarità: oggetti, oggetti, oggetti. Oggetti di uso domestico – citofono piatti posate il parcheggio sotto casa –, oggetti di scena, rigirati fra le dita per tutta la durata dello spettacolo o lasciati come in contemplazione sulle sfondo – sigaretta spenta bottiglie d’acqua un centrotavola –, oggetti evocati a parole oppure che servono ad assorbire le parole, come la bambola, lo scheletro-burattino che siede di fronte al personaggio incarnato da Serena Balivo: «È il mio oggetto transizionale», afferma l’attrice riferendosi al fatto che, attraverso di esso, sublima l’angoscia e l’apprensione per l’imminente (?) morte dei propri genitori.

La morte ovvero il pranzo della domenica, per la regia e la drammaturgia di Mariano Dammacco, è un testo al tempo stesso delicato e diretto, che punta a creare un’atmosfera di concreta astrattezza: quella, fin troppo comune nell’immaginario collettivo, di una conviviale riunione di famiglia – contesto con il quale, almeno fin dall’Ottocento in poi, il teatro non cessa di confrontarsi per svelare dinamiche relazionali, tic della società borghese e reconditi interdetti della psiche. Ci viene raccontato tutto da una sola persona, la figlia (di cui appunto conosciamo solo il ruolo, senza che venga detto neanche il nome), con accenti recitativi che vanno dal trasognato al parodistico: strascica i discorsi, cerca una complicità col pubblico sebbene conservi per quasi tutto lo spettacolo un’aria quasi assorta, si muove dinoccolata o restando seduta a un mezzo tavolo che “scompare” dentro un telo bianco sul fondo scena o percorrendo una avanti e indietro una linea retta ai due lati del palco. Il dialogo a pranzo con il padre e la madre (di cui neanche sappiamo né i nomi né la provenienza, se non per il fatto che a un certo punto si sono trasferiti in città lasciando “il caro e indimenticato paese d’origine”) gira attorno a frasi di circostanza, gesti che hanno il sapore di rituali concordati (il padre che sempre negli stessi momenti decide di mettere su della musica a tutto volume, la madre che chiede di raccontare, ancora una volta, sempre gli stessi aneddoti) e un argomento che rimane inizialmente sottotraccia per poi prendersi quasi tutta la scena: la morte.

Ultranovantenni, i genitori sanno infatti che ogni pranzo della domenica con la figlia potrebbe essere l’ultimo. È una consapevolezza condivisa, che – per forza di cose – può essere affrontata solo obliquamente: attraverso non-detti, un’ironia insistita, reiterazioni gestuali e discorsive che servono più che altro a esorcizzare la paura e, appunto, la fissazione con gli oggetti che compongono il quadro domestico e la cui presenza distoglie dal pensare. Il rumore delle stoviglie, «la musica ascoltata a un volume sconsiderato», i documenti stampati con ossessiva compulsività e diligentemente organizzati per cartelle nell’ufficio del padre… A un certo punto è come se gli stessi genitori (che conosciamo solo attraverso le parole della figlia) arrivino a coincidere con il loro appartamento. Mariano Dammacco costruisce un linguaggio che riflette la sincera elusività dei rapporti familiari, intessendo frasi che sembrano sempre essere “trasparenti a se stesse” e che rimandano, ma con scarsa convinzione, a qualcosa di altro dal loro significato più esplicito. Similmente, la recitazione di Serena Balivo cammina su una corda tesa fra esibito macchiettismo e minimalismo espressivo, rendendo di fatto il proprio corpo un veicolo di emozioni inespresse – nonostante l’esuberanza scenica con cui vengono “ricalcate” alcune sfumature di superficie.

L’accumulo verbale, le circonvoluzione discorsive, servono dunque a focalizzare un sentimento singolo, che però non può dirsi, esplicitamente, nella sua specificità: la tenerezza filiale, una vaga malinconia che è forse anche la malinconia di un teatro che prova a reggersi su pochi, elementari, pezzi. Scenografia ridotta all’osso, parola, relazione. Un teatro che magari sfiora le retorica e il patetismo ma che non ha timore di affrontarli, proprio perché retorica e patetismo sono di fatto gli oggetti impliciti di una drammaturgia soffusa e sospesa, tra favola quotidiana e surrealtà universali.

“La morte ovvero il pranzo della domenica” di Dammacco/Balivo è in programma il 15 marzo 2025 a Castello d’Argile (BO) nell’ambito della Stagione Agorà

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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