Durante le prime serate di dicembre, mentre le luminarie si accendono e dalle finestre iniziano ad intravedersi le prime decorazioni natalizie, nella piccola sala del Teatro delle Moline Chi resta, ideato e scritto da Matilde Vigna e Anna Zanetti, accompagna il pubblico in quello spazio buio della perdita in cui le stelle sembrano scomparire.
Su una scena spoglia, Vigna attraversa lo spaesamento del lutto nel dialogo con la madre, Daniela Piperno, proiezione di una presenza/assenza non ancora pronta a essere lasciata andare. La luna, nella sua insormontabile distanza, diventa elemento dell’assenza, luogo irraggiungibile nel cielo verso cui lo sguardo si rivolge alla ricerca delle persone care che ci hanno lasciato; meta di un lungo viaggio, il più grande, senza ritorno. Le due personalità emergono contrastando l’essenzialità della scena, nel tono cromatico quanto espressivo, attraverso l’incontro e l’opposizione dei rispettivi temperamenti con fermezza e ironia, fin dai primi stanchi tentativi di rialzarsi in piedi sotto il rigoroso occhio materno. Lo scambio tra madre e figlia ne delinea le differenti personalità, portando alla luce un rapporto sfaccettato e imperfetto, come spesso accade nella vicinanza, intervallandosi a momenti in cui il buio cala e l’atmosfera diventa lunare, aprendo varchi di memoria in cui si sfogliano ricordi di condivisione quotidiana.
Vigna e Piperno raccontano quella solitudine particolare del dolore di chi resta a fare i conti con frammenti che improvvisamente sembrano schizzare dappertutto: vestiti da riordinare e ricordi da ripercorrere. Da un momento all’altro tutto si ferma mentre il mondo continua a muoversi. Promemoria: richiamare gli amici, richiamare i medici, richiamare il notaio, pagare, firmare, eredità, fiori per il funerale – forza per il funerale. La rabbia per quel viaggio senza preavviso e senza ritorno che esplode in un litigio tra le due proprio alla fine della cerimonia.
Ma la solitudine di cui parla Vigna non rimane intimistica e confinata al personale dolore della perdita, inserendosi sullo sfondo più ampio e viscoso di una generazione di giovani adulti segnata dall’incertezza e dall’instabilità, come già nel precedente Una riga nera al piano di sopra. Sono continui i rimandi al lavoro, che sottrae il tempo delle relazioni, isolando e generando un senso di colpa che aleggia nella consapevolezza di non poter tornare indietro per recuperarlo. E il riscaldamento globale, non più un’ombra sul futuro ma uno scenario ormai evidente sul nostro presente. La questione della maternità, dell’assenza di maternità, che sembra non essere una scelta di fronte a un presente e un futuro precari, tanto da un punto di vista economico quanto ambientale, crescendo al tempo stesso in una cultura che nonostante tutto ancora oggi lascia poco spazio a immaginari comunitari alternativi al tradizionale nucleo familiare. Una figlia, dunque, che non sarà madre, si pone quella domanda tutta umana di che cosa resterà, dalle radici all’ultimo ago di pino.
Nel monologo finale, la consapevolezza della casualità dell’essere figlie e dell’essere madri, e di ciò che ci si lascia pur nella distanza delle proprie strade e dei propri viaggi: lo scambio tra due persone, come due pianeti nello stesso sistema solare. Durante un momento di gioco, Piperno si prepara alla partenza indossando sul suo tailleur celeste una tuta da astronauta e lentamente muovendo i primi passi fuori dal campo gravitazionale terrestre. Qui, sulla terra, e sulla scena, rimangono oggetti e pezzi di ricordi, da raccogliere e da riordinare, per riuscire a lasciare andare, guardare indietro senza senso di colpa per un viaggio per cui non esiste preparazione e poter guardare avanti per (ri)costruire e immaginare nuove strade.