Da Castiglioncello-Rosignano
Il festival Inequilibrio ha raggiunto il traguardo dei venticinque anni. Massimo Paganelli, fondatore, insieme a Fabio Masi e Angela Fumarola, attuali direttori, tagliano una torta degna di un matrimonio. È giusto festeggiare. Il tempo passa ma le linee perseguite da questo festival sono le medesime. Anche il rapporto che intrattengono con gli artisti ha il sapore della lunga fedeltà. Tradimenti pochissimi. Così a Rosignano, nella piazza del Castello, di fronte a Palazzo Bombardieri, Nerval Teatro di Maurizio Lupinelli con Elisa Pol, dopo la sospensione negli anni del covid, presenta Chi la fa l’aspetti. Primo studio sul Pinocchio, il nuovo lavoro del Laboratorio Permanente, che è una pratica che nasce quindici anni fa a Rosignano con persone che vivono esperienze di gravi patologie o forti marginalità. Anche in questo caso Pinocchio si rivela un libro mobile, sorprendente, misterioso, capace di accogliere tutto e il contrario di tutto, con una grazia e una crudeltà uniche. Il lavoro si presenta in divenire, perciò il pubblico assiste a delle scene che vengono provate, interrotte e ripetute. Uno studio per un Pinocchio che dovrà nascere. Intanto però ci sono già molte cose, a partire dalla barchetta in mezzo al mare (in realtà poggiata sul selciato della piazza), da un Geppetto che non sa di essere Geppetto, dai giudici saccenti e ansiosi (interpretati dai genitori degli attori del Laboratorio permanente), dalla divertentissima coppia del Gatto e della Volpe. Poi c’è il grillo, la fatina, Lucignolo e l’ipnotica danza di Pinocchio che è diventato un bambino, in una scena conclusiva davvero commovente. Ogni personaggio del libro di Collodi è portatore, come nella miglior tradizione favolistica, di una caratteristica fisica o morale ben precisa e duratura. Gli attori e le attrici giocano con le loro fragilità che, a contatto con i personaggi che interpretano, diventano ricchezze espressive. Pezzi di storia ancora presentati come i numeri di un’esibizione, più che come uno spettacolo compiuto, che Lupinelli sa gestire molto bene, con un pizzico di magia.
Anche Ambra Senatore è un’artista che ritorna al festival Inequilibrio. Ma ritorna dieci anni dopo quel Passo che, realizzato assieme agli stessi interpreti, Matteo Ceccarelli, Claudia Catarzi, Caterina Basso, aveva colpito per una danza capace di farsi ironica ed energica, leggera ma non superficiale, quotidiana nell’immaginario, ma inclusa dentro un percorso di ricerca contemporanea. Il tempo trascorso diventa il tema dello spettacolo, che non a caso si intitola Col tempo, anche se all’inizio sembra tutt’altro. Con il pubblico ancora in fila in biglietteria appare la Senatore nel foyer, chiede agli spettatori di scrivere su un fogliettino il titolo della canzone che vorrebbero veder danzata. Sembra solo un gioco un po’ sciocchino, un modo per coinvolgere lo spettatore e per creare subito un clima ludico, spensierato.
Poi, consegnata la cesta piena di foglietti al tecnico seduto dietro la regia, parte la musica e Senatore, Basso, Catarzi e Ceccarelli cominciano a improvvisare, prima timidamente e un po’ stralunati, poi in modo sempre più convinto e sicuro. Ognuno balla da solo sapendo però di essere seguito e osservato dagli altri, con quell’affiatamento che ha il sapore dell’amicizia. Dieci anni sono pochi per fare una “reunion”, ma sono anche troppi per far finta di nulla. Questo “non detto”, esplicitato solo da dei cartelli che indicano la data di oggi, rimane a lungo in secondo piano, perché sulla scena, mentre scorrono grandi hit e brani poco noti, rock e dance, molta musica straniera, ma anche qualche cantautorato italiano, l’improvvisazione comincia a farsi più complessa, a tratti costruita in brevi coreografie di gruppo, assumendo toni più dolci ed espressivi o più atletici e incrinati. Ogni volta che parte un nuovo brano il pubblico sussulta, sperando di ascoltare la propria canzone e poi si incuriosisce della creatività dei danzatori, di quale gesto, movimento, smorfia salta fuori. Sembrerà strano, ma con il passare dei minuti l’attesa cresce, i brani sono tantissimi e vari, sembra sia solo questione di tempo. Nelle improvvisazioni c’è qualcosa di sporco, qualche tono dissonante, a volte invece i quattro sembrano eseguire una coreografia prestabilita. Così viene il dubbio che tutto, o molte cose, siano definite fin dall’inizio. In questa strana condizione lo spettatore è una sorta di giocoso investigatore alla ricerca della verità del gesto spontaneo. Allo stesso tempo cresce in lui il desiderio petulante di veder coreografato il proprio brano musicale. In effetti il desiderio cresce, perché le tre danzatrici e il danzatore ogni volta inventano qualcosa – un gesto, un movimento – che stuzzica la fantasia, sorprende, diverte. In particolare Claudia Catarzi a tratti lascia a bocca aperta, per virtuosismo, atletismo e soprattutto per forza espressiva, anche perché tutto si svolge secondo il ritmo delle improvvisazioni. Poi di colpo lo spettacolo si ferma, cala un velo di nostalgia, le tre danzatrici e il danzatore sono sdraiati a terra. Guardano in alto come ci fosse il cielo. E pensano ai dieci anni passati. E se oggi fosse il 26 giugno del 2012? E se oggi fossi il 26 giugno del 2002 (nel frattempo il calendario di cartone cade per terra e viene rimontato, ma la data non è più la stessa, e il tempo va avanti e indietro…)? Occasioni perse, qualche rimpianto, ricordi belli, tristi e così via… La nostalgia di chi è ancora giovane, ma non più così giovane. Scivola qualche lacrima. Inaspettata. Ma dura tutto pochissimo, come fosse una pausa non prevista. Poi il blob musicale riprende, il ritmo accelera, fino a quando lo spettacolo sembra assumere sfumature quasi sadiche. Perché cresce la sensazione nello spettatore che il brano musicale da lui scelto non sarà mai danzato. Non perché sfortunato, ma perché fin dall’inizio era stato tutto deciso prima. La ludica partecipazione del pubblico, decantata in Italia e in Europa in tutte le salse, qui ha un’incrinatura inaspettata. L’euforia dello spettatore partecipante si spenge di fronte alla risata di un piccolo scherzo. Una cosa da nulla. Eppure rimane l’amaro in bocca per quella canzone che ognuno aveva scelto molto probabilmente pensando a quando, dieci, venti o anche solo qualche anno prima, gli era successo che… Insomma sembrava solo un gioco, ma forse era un fuoco.
Da Santarcangelo
L’ex cementificio di Santarcangelo, la Buzzi Unicem, è un’enorme struttura in disfacimento. Chiuso soltanto nel 2008, sembra appartenere a un’altra epoca storica. Già il festival era riuscito a utilizzare in maniera evocativa alcuni suoi spazi e già Ascanio Celestini, venti anni fa, aveva raccontato il mondo della fabbrica proprio a Santarcangelo. Questa volta è l’artista polacca Anna Karasinska ad accettare la sfida lanciata dal festival di utilizzare questo enorme scenario in una nuova produzione. Un gruppo di non professionisti, tra cui spicca una simpatica signora romagnola, di fronte a questo rudere comincia a raccontare la propria storia, curiosa, a tratti commoventi. Uno dietro l’altro. C’è l’immigrato tunisino, la giovane peruviana, due ragazzine del paese e l’anziana signora di Santarcangelo, l’unica legata, per ragioni famigliari, alla storia della Buzzi Unicem che durante la guerra fu rifugio per gli sfollati e per più di mezzo secolo ha dato lavoro a centinaia, migliaia di operai della zona. Ogni storia viene raccontata molto semplicemente al pubblico, seduto su una gradinata. La raccolta delle storie orali è una branca di studi interessantissima. Le interviste e le memorie sono alla base di tante discipline, dall’antropologia alla sociologia. Anche la storia del teatro sempre di più si avvale delle testimonianze dirette come fonti fondamentali per ricostruire fatti, indagare cause, analizzare ricezioni. Il teatro degli ultimi vent’anni in particolare ha recuperato proprio tutte queste tecniche per inventare nuove drammaturgie o anche modi diversi di stare in scena, con la presenza ad esempio di non professionisti (dai Rimini Protokoll in giù, per intenderci). Ogni volta la sfida è sempre stata quella di capire come portare in scena “la realtà”, aggirando o lottando o giocando con la rappresentazione. Il festival di Santarcangelo, almeno per alcuni dei suoi anni, si è interrogato molto su tutto questo con una miriade di spettacoli italiani e stranieri. In questo strano lavoro, presentato inspiegabilmente senza titolo, ma solo con la dicitura New Creation, non c’è traccia di esperienze pregresse. Verrebbe da dire un “lavoro naif”, se non fossimo all’interno di un festival internazionale: quel poco che c’è è esattamente quel poco che si vuole presentare. Si toccano temi importanti (immigrazione, razzismo, torture, ingiustizie, guerra, sofferenza…), ma ci si dimentica della forma, per cui è come se tutto fosse un po’ scolorito, già sentito, prevedibile. Non è uno spettacolo, non è un’assemblea, non è una conferenza, non è una riunione, potrebbe sembrare più l’esito di un laboratorio frettoloso.
La performer Marina Otero in Love me, firmato con Martín Flores Cárdenas, rimane seduta per tre quarti dello spettacolo in penombra. Sullo schermo, dietro di lei, viene proiettato un lungo testo. Sono i suoi pensieri, i suoi ricordi, in forma di sfogo personale o di confessione pubblica. Otero è ferma in primo piano e il pubblico legge la sua storia sentimentale fatta di rapporti difficili e violenti con uomini di cui non può fare a meno. Sono storie intime, alcune un po’ scabrose, che restituiscono la vita di una persona certo problematica alla ricerca di un difficile equilibrio. Alla fine, dopo questa lunga fase di costipazione, Otero regala al pubblico cinque minuti di danza energica ed esplosiva nella quale tutta la rabbia espressa prima dovrebbe coagularsi nei gesti e nei movimenti. Operazione molto ambiziosa che si basa sull’assunto che il pubblico sia in qualche modo interessato e sempre di più attratto da questa vicenda personale. Invece, vuoi per un testo molto elementare, che ricorda più un post su un social che non l’esplorazione di un dispositivo, vuoi per una parabola esistenziale molto intimista e francamente raccontata in modo confuso (avere bisogno assoluto di un uomo dominante? Picchiarlo come forma di emancipazione? Masochismo? Sadismo? La disperazione come condizione più patologica che esistenziale? Il sesso come forma di guarigione e condanna?), lo spettatore non può fare altro che contemplare la performer come fosse di fronte di per sé a un’opera d’arte o a qualcosa da ammirare. Questo sostanziale narcisismo e la fragilità dell’intera struttura drammaturgica e registica ottengono invece l’effetto contrario, una certa indifferenza per i casi sempre più urlati e disperati.
L’ultima scena di O Samba do Crioulo Doido di Luiz de Abreu e Calixto Neto è, per gli amanti del genere, una sorpresa divertente e raffinata. Dopo aver mostrato il proprio corpo atletico, longilineo e muscoloso da tutti i lati e in tutte le posizioni e dopo aver utilizzato la bandiera del Brasile come mantello e soprattutto come coda, incastrata tra le natiche, il performer ringrazia il pubblico mentre parte come brano musicale conclusivo l’Ave Maria di Charles Gounod in versione samba. Come ricordava Ruggero Jacobbi, tra i primi traghettatori di cultura brasiliana in Italia, è scorretto dire “la samba”, al femminile, perché questo stile musicale e di danza si ispira al tipico ragazzino brasiliano. È dunque un genere del tutto maschile. Ma cosa c’entra l’Ave Maria di Gounod con una performance del genere? Il riferimento, mai esplicitato e quindi comprensibile solo agli appassionati del genere, è a un’antichissima registrazione (addirittura del 1900) dell’ultimo castrato, Alessandro Moreschi. È l’unica registrazione esistente della voce di un evirato ed è un brano straziante e commovente per molte ragioni (oggi ascoltabile facilmente su youtube). Chiudere con questo brano remixato appare come la celebrazione trionfale del corpo maschile così perfetto da assorbire gli opposti, anche l’intero universo femminile. In tutta la performance ogni parte del corpo, dalla bocca alle braccia, dalle natiche al pube, viene esibito e portato ad assumere anche tipici stereotipi femminili. Lo spettacolo dura una ventina di minuti ed è costruito in maniera umoristica e ironica. Nel foglio di sala si legge di «tentativo di decostruire i processi di attribuzione di identità a determinati gruppi etnici o sociali». Riproducendo gli stereotipi in scena si vorrebbe procedere a una decostruzione. Ma questo ribaltamento, osservando lo spettacolo, non arriva per nulla, perché il tono è al contrario quello della festa, dell’eros compiaciuto e ludico, dell’esotismo più smaccato, dell’ironia senza incrinature. Il performer è un David di Michelangelo nero e su tacchi a spillo. E allora che fare? Non arrivando nessun secondo livello di senso, oltre al piano più fisico ed erotico, al pubblico non rimane altro che distinguere le proprie reazioni – in piedi ad applaudire commossi o seduti in annoiata indifferenza – in base a gusti e orientamenti sessuali. Paradossalmente una performance più esclusiva che inclusiva.
La domanda scelta per questa edizione del festival di Santarcangelo è stata “Can you feel your own voice?”, una bellissima suggestione. Ma dopo questi tre lavori sorge il dubbio che il problema principale non sia esattamente quello di sentire la propria voce, bensì sia quello di accorgersi che la propria voce, come ognuno la sente, suona in maniera diversa da come è sentita dagli altri. È un esperimento elementare che tutti possono fare ascoltando la propria voce registrata: è quasi uguale, ma non uguale. E questo per ragioni del tutto fisiologiche. Le nostre orecchie sono attaccati al corpo, per cui ascoltano anche le vibrazioni che emette la voce. In questo “quasi” si nasconde un mondo. La sfida di restituire agli altri la propria voce diventa allora un viaggio lunghissimo e tortuoso che ha a che fare con l’arte, la forma, la storia, le idee, altrimenti quel che può capitare è proprio dimenticarci dell’altro, trattarlo come uno specchio, e alla fine la voce non sentirla più.
Da Cortona
Che emozione vedere un artista matto e geniale come Leo Bassi raccontare della sua vita avventurosa ed eccentrica. Il pretesto sono i settant’anni, anche se in scena Bassi si presenta come un signore molto più anziano che cammina appoggiandosi a un deambulatore e fatica a stare in piedi. Così inizia a raccontare della sua famiglia di straordinari giocolieri, famosi in tutto il mondo, protagonisti addirittura nei filmini Lumière. Racconta anche dei suoi primi anni di vita e di quell’episodio narrato da suo padre sul letto di morte, che ha il sapore iniziatico di segnare un destino. I giovani genitori portano il piccolo Leo in una gita fuoriporta. Ma anziché a prendere il sole o a respirare l’aria pulita in qualche bel bosco, lo portano a vedere un’esplosione atomica, nel deserto intorno a Las Vegas. Un’esperienza turistica molto in voga negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Per godere meglio dello spettacolo gli incoscienti genitori aggirano anche i limiti imposti dalla polizia e riescono ad avvicinarsi di qualche chilometro, a tal punto che l’onda d’urto del fungo atomico li trascina a terra. Insomma, secondo il padre, questa esperienza nucleare è all’origine dell’energia esplosiva di Leo Bassi che devia dalla tradizione familiare e comincia a girare per le strade, utilizzando le arti circensi per fare agit-prop, facendo volare merda contro gli spettatori tramite ventilatori e compiendo tante altre azioni che lo rendono famoso nel mondo. Leo Bassi racconta tutto questo senza la dolcezza dell’anziano nonno, ma con i toni del vecchio rancoroso, perennemente arrabbiato, cattivo e cinico, con esilaranti effetti comici, ma anche scavando nella natura dei sentimenti umani. Poi spacca qualche bottiglia di vetro e ci si sdraia sopra, fino a che la schiena non inizia a sanguinare. «Perché l’ho fatto? Perché così potrete raccontare di aver visto lo spettacolo di quello scemo che si graffia la schiena con i vetri…».
Sul fronte della danza Manfredi Perego presenta una breve performance dal titolo Ruggine. Ma forse si potrebbe intitolare anche in maniera diversa, perché i contorni sono talmente sfumati che non si sa bene come inquadrare lo spettacolo e se è opportuno parlare di vero e proprio spettacolo. Il lavoro è composto da due brevi parti il primo è Totemica con Chiara Montalbani, e il secondo è l’assolo di Manfredi Perego. Nonostante sia come decontestualizzato, la sua presenza ha qualcosa di geniale. In pochi minuti, avvalendosi di rapidi e precisissimi gesti, soprattutto delle mani e delle braccia, Manfredi Perego porta il suo pubblico di fronte a una carrellata di sentimenti umani tra loro in tempesta che si riflettono nella sua danza a tratti sorprendenti. Perego sembra voler parlare direttamente al pubblico, ma non si sente nulla, e le sue mani poi deformano l’iperrealismo lasciando spazio prima allo stupore e poi allo stordimento. Perego osserva il pubblico, senza in realtà metterlo a fuoco, e i suoi occhi vagano persi come gli occhi di un demente. Demente per troppo dolore. Perciò è stordito, spaesato, con quel peso angoscioso di non saper dove trovare sostengo ed equilibro. Pochi minuti, come raffiche di vento, incongruenti, che ci portano lontano, senza sapere bene dove e senza sapere perché.
La raffica di vento è l’immagine utilizzata da Costruzioni di Ultimi Fuochi, per adesso solo uno studio, ancora a uno stato iniziale, dedicato al grande Tommaso Landolfi. La prima scena, la più densa e anche la più potenzialmente ricca di sviluppi, è un monologo agitato di Alessandra Crocco che, in crescendo, parla della letteratura di Landolfi come fossero continue raffiche che portano il lettore da una parte e dall’altra. In questo movimento, così sconvolgente, non può che nascondersi il segreto della vita, spiazzante, incredibile, incoerente, sconcertante, come quando appunto si è investiti da forti raffiche di vento.
L'autore
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Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.