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(foto di Fuori Margine)
(foto di Fuori Margine)

Frammenti da Contemporanea_24 / #1

di Giulia Damiano

Dal 27 settembre al 5 ottobre si è tenuto, “Contemporanea”, festival organizzato dal Teatro Metastasio di Prato, che inaugura così le attività della nuova stagione del Teatro stabile toscano. Il titolo di questa edizione è L’emozione prima della sommossa, che il direttore artistico, Edoardo Donatini, descrive come «Un laboratorio a cielo aperto, dove assistere alle reazioni […] tra il silenzio fertile dello spettatore durante lo spettacolo e il fervore che si propaga una volta finito, quando riconosciamo quell’emozione negli altri. La condivisione è il luogo in cui una comunità può emergere, dove può reclamare le proprie conquiste attingendo al potere trasformativo della scena, della cultura, dell’arte.»

In questa edizione compare anche “La pulce nell’orecchio”, una raccolta di “cartoline” a cura di Giuseppe di Lorenzo, che contengono brevi audio e suggestioni per personalizzare l’esperienza della spettatrice e dello spettatore, o per avere un assaggio di Contemporanea_24 per chi se la fosse persa.

Di questa edizione si riporteranno, in due puntate, una recensione e un’intervista attorno a due spettacoli visionati il 4 e il 5 ottobre 2024. In particolare si parlerà di La luz de un lago di El Conde de Torrefiel, andato in scena il 4 ottobre al Teatro Metastasio e di Dies Irae, visto il 5 ottobre nella Sala del Refettorio della Chiesa di San Domenico.

Dies Irae” di Gloria Dorliguzzo

Dies Irae è un concerto performativo che, attraversando la musica di Ustvolskaya, esplora il tema della violenza affrontato nella sua sfera più religiosa ed evocativa (il riferimento al giorno dell’ira, al giudizio universale), ma anche in un senso più terreno di violenza sul lavoro e sul corpo femminile.Tant’è che in scena sentiamo due pulsioni: quella violenta del potere che tutto sfrutta e distrugge, alimentata dal tuonare dei martelli e dalle mani di sangue sulle vesti grigie; ma anche quella creativa, liberatoria, a tratti giocosa, che scaturisce forse dallo scoprirsi collettività.

Il progetto di Dorliguzzo coinvolge persone non professioniste chiamate a interagire con la musica di Galina Ustvolskaya, riproducendola attraverso l’uso di incudini e martelli, e abitando lo spazio del Refettorio con vari oggetti di scena, per creare una rappresentazione fisica e sonora del lavoro della compositrice russa. La performance a Prato è l’esito di un laboratorio di circa una settimana con un gruppo di donne del Centro Antiviolenza “La Nara” – unico centro toscano organizzato da una cooperativa, Alice Coop, che ad oggi è a rischio chiusura.

(foto di Gloria Dorliguzzo)

Nell’intervista che segue approfondiamo il processo e le tematiche dietro Dies Irae assieme alla sua ideatrice. Dorliguzzo annuncia, inoltre, di aver vinto un bando indetto dall’Associazione Culturale Dello Scompiglio incentrato sulla “voce” e di star dunque lavorando a una nuova versione del progetto che debutterà alla Tenuta dello Scompiglio di Lucca questo 30 novembre e che si chiamerà Dies Irae + Symphony #2 – Concert for voice and hams, sempre prodotto da Fuorimargine (Centro di Produzione di danza e arti performative della Sardegna), in cui verrà incorporata alla precedente ricerca sui corpi, anche una ricerca sull’aspetto vocale, in un esperimento che diventerà corale.

Gloria Dorliguzzo si avvicina alla danza dalle arti marziali. Come performer ha lavorato con coreografi quali Nikos Lagousakos, Cindy Van Acker e Giselle Vienne. Dal 2018 collabora con Romeo Castellucci come performer e cura varie coreografie come The Third Reich e Domani. La sua ricerca corporea si approccia particolarmente al ritmo e all’interazione con le arti visive. Debutta come autrice nel 2019 come Folk Tales al festival di Santarcangelo dei Teatri e vince il Barcelona Film Fest e l’Holland Cinedans con l’opera Skin/Out.

Com’è nato il progetto Dies Irae? Quando l’incontro con Lenz Fondazione?

Il progetto in sé ha avuto un corso di pensiero di parecchio tempo perché ovviamente prima ho ascoltato la musica, e dalla prima volta che ho ascoltato Dies Irae di Galina Ustvolskaya sono passati tanti anni. Ovviamente non è una composizione che ascolti mentre fai colazione o in un momento in cui ti rilassi! Era un ascolto completamente dedicato. Ricordo che furono la forza e la violenza di questo pezzo a colpirmi. E ogni volta, quando cercavo di capire perché questa violenza mi colpiva, lo riascoltavo. Le immagini come flusso di pensiero che mi arrivavano erano ferite negli alberi. Immaginavo foreste completamente distrutte dalla forza dell’uomo ma anche dalla forza della natura. Quando ho deciso di mettere in scena la partitura sono arrivati i colpi di martello, rifacendomi comunque alla caratteristica di Galina, che era chiamata “donna con il martello”. La partitura di Dies Irae prevede proprio la presenza di 11 contrabassi, un cubo e un martello. Così ho collegato un po’ le mie visioni sugli alberi e violenza a questa musica: i tronchi in scena sono una prerogativa in questo spettacolo. A seconda dei luoghi ci sono dei props e degli allestimenti che cambiano, ma i tronchi restano. Mi piace chiamarlo concerto perché tutto nasce dalla partitura musicale.

Con Federica Maestri e Lenz c’è un rapporto di reciproco rispetto e, in occasione di Parentele 22-24, ho potuto costruire con loro un lavoro in otto giorni, ma sono riuscita in breve tempo appunto perché il mio pensiero e il mio ascolto musicale sono venuti molto prima. Secondo la loro prospettiva, e hanno fatto sicuramente bene, abbiamo proposto il debutto di Dies Irae nel giorno della Liberazione partigiana femminile e ci stava perfettamente.

Come è composto il gruppo che ha partecipato al workshop e come hanno vissuto l’esperienza? Qual è stato il loro impatto con una partitura musicale tanto peculiare?

Essendo un progetto anche per la comunità, il gruppo cambia sempre. La prerogativa che io chiedo alla struttura ospitante quando il progetto viene accolto è di fare una call pubblica con un minimo di otto persone e un massimo di undici, cercando donne dai 15 agli 80 anni, quindi un range di età enorme proprio per coinvolgere tutto il femminile. Altra cosa fondamentale è che non siano professioniste, che non abbiano, dunque, delle strutture performative già nel corpo. Il che è importantissimo per questo lavoro perché si riscontra e interagisce con una realtà che invece il performer trasformerebbe in un gesto molto più portato e costruito. In questo caso, quindi, l’anonimia delle partecipanti per me è tutto. Il gruppo è quindi sempre diverso e in pochi giorni deve affrontare la sfida dell’unirsi e di trovare un codice comunicativo che ovviamente sia anche aiutato dalla musica e dalla coreografia, per compattarsi ulteriormente. Anche perché questo spettacolo è faticoso: per delle non professioniste eseguire una coreografia di un’ora, a livello fisico e mnemonico, non è semplice. Si crea, in poco tempo, una grande coesione di gruppo, soprattutto nell’aiutarsi a capire quali sono le difficoltà di ognuna.

I gruppi sono ben diversi: per esempio Lenz ha accolto sia delle donne di Parma, sia tre performer interne a Lenz con degli handicap o dei disturbi. Lì ho conosciuto Monica Barone, una performer che ha un grave handicap alla zona mandibolare ed è tracheotomizzata. E con lei ho deciso di continuare il Dies Irae e di prolungarlo in un altro pezzo, considerando sempre un’altra partitura di Galina Ustvolskaya che si chiama Sinfonia numero 2 e che prevede una voce. Voce che lei aveva inteso come voce maschile su un testo medievale di Ermanno il Contratto. Per me, invece, la voce di Sinfonia sarà quella di Monica, quindi una ragazza con una voce che è solo un soffio per adesso. Quindi questa sarà l’evoluzione. E non solo sarà un lavoro di approfondimento sulla voce di Monica ma, nonostante non fosse previsto in Sinfonia un coro, io ho deciso di farlo esistere. Se in Dies Irae la voce era, diciamo, “metaforica” – perché quest’urlo che poi veniva trasmesso dal suono dell’incudine o dalla ripetizione o dagli alberi che venivano feriti ogni volta – era importante, comunque, dargli veramente un corpo vocale attraverso un coro femminile. Questa nuova versione o “continuo”, si chiamerà Dies Irae + Sinfonia numero 2 e lo presenterò per la prima volta il 30 novembre. Diciamo che è un primo studio e si terrà alla Tenuta dello Scompiglio a Lucca, dal momento che ho vinto un bando indetto dall’Associazione [Culturale Dello Scompiglio ndr] e incentrato sulla “voce”, e quindi lo presento lì.

I miei collaboratori, ci tengo molto a dirlo, sono sempre il maestro Feccia, con cui collaboro fin dall’inizio per lo studio e l’insegnamento della partitura musicale, quindi una figura fondamentale. E in più, per questo nuovo lavoro, ci sarà anche Francesca Della Monica, come vocal coach.

La musica su cui si costruisce lo spettacolo e dal quale prende il nome, Compositio n.2 “Dies Irae”, è un’opera datata 1972-1973, della compositrice sovietica Galina Ustvol’skaya, anche chiamata “donna col martello”. Nata nell’allora Pietrogrado nel 1919, la compositrice ebbe come maestro Dmitrij Šostakovič, dal quale lei poi si staccò vivendo e suonando nel quasi più totale anonimato fino almeno agli anni ‘80, nei quali viene riscoperta. Tuttavia Ustvol’skaya porta avanti fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2006, la sua musica con continui riferimenti e rimandi religiosi e alla natura. Le sue composizioni sono estremamente innovative e conturbanti, anche attraverso l’utilizzo di martelli su strutture in legno e metalliche con sonorità dal forte impatto.

Torno un momento alla musica su cui si costruisce lo spettacolo. Come è avvenuto l’incontro con la compositrice russa Galina Ustvolskaya? E che impatto ha presentarla ai gruppi di persone che partecipano al laboratorio?

Io assolutamente non la conoscevo, me l’hanno fatta sentire per caso. Ma se chiediamo a un ensemble di 50 persone, nessuno conosce Ustvolskaya, perché è una compositrice contemporanea completamente sconosciuta. Pensa che lei non ha neanche diritti musicali. In vita rifiutò eredità, diritti, tutto. Lei era una persona, era un’artista libera. E su questo io veramente voglio metterci il punto esclamativo, perché si è liberata da tutto. Nella sua resistenza, nella sua purezza, si è liberata da convenzioni di partito e anche dal suo maestro, con il quale aveva un rapporto molto solido, ma non si sanno alcuni retroscena… Nel senso che alcune composizioni di lei, pare che il maestro le abbia spacciate per sue. Però, insomma, lei a un certo punto si è staccata, vivendo nella povertà e nell’anonimato più totali.

C’è però un piccolo documentario di mezz’ora in cui si vede lei che, durante i suoi ultimi anni di vita, è sulla carrozzina e continuava ad andare tra gli alberi e nelle foreste. Questo mi ha colpito molto perché è stata esattamente l’immagine che io ho avuto ascoltandola. Quando l’ho vista che con la carrozzina componeva le sue ultime opere andando verso quello che per lei era il “Sacro” e che era soprattutto il segno di Dio nella natura, sono rimasta molto colpita. Poi lei ha un rapporto molto particolare col sacro e con Dio. E, diciamo, anch’io ho un rapporto con il Sacro e con Dio molto stretto. Ho fatto 11 anni di Orsoline che hanno segnato completamente la mia vita. Non ho brutti ricordi, però, ovviamente la mia educazione e la mia profonda cultura arrivano da lì. Quindi io la sento molto vicina e ho capito subito dalla sua musica che c’era un rapporto particolare con Dio, molto diretto. Questa sua forza non era un urlo contro di lui, ma, al contrario, era una forza che da lui arrivava per urlare contro qualcosa.

E questo qualcosa che cos’è?

Secondo me bisogna chiedersi che cos’è il Dies Irae. È il giorno dell’ira, d’accordo, ma è l’ira di Dio o l’ira dell’uomo? Questo è il problema. Per me è l’ira dell’uomo, è l’ira dell’umanità.

(foto di Gloria Dogliuzzo)

E declinato al femminile? L’ira del femminile, nel contesto dello spettacolo, sembra anche molto contro un sistema oltremodo umano, un sistema produttivo e riproduttivo. Lo spettacolo solleva questo tipo di violenza?

Beh sicuramente l’universo femminile, riferendosi anche per esempio alla stessa compositrice, non è stato facile. Per questo decido di esplorare il genere femminile scoprendo quanta violenza ha ancora ancora da sfogare. E questo è stato particolarmente lampante a Prato, quando ho collaborato con “La Nara”, che è un centro antiviolenza femminile. Il mio non era, assolutamente, un workshop di terapia: non sono stata coinvolta per un superamento o coinvolta da uno psicologo per lavorare sulla loro condizione. Loro erano tutte donne già integrate, altrimenti non avrei potuto lavorare con loro, perché ci sono proprio stadi di integrazione in queste donne nel sociale. Quindi erano tutte donne che avevano, diciamo, non dico smaltito – perché non si dimenticano mai le violenze –, però erano già state reintegrate. Tuttavia, mano a mano venivano fuori questi aspetti e ti assicuro che erano molto forti, molto forti e cambiavano il gesto.

La performance per Contemporanea si svolge, come detto, nel Refettorio della Chiesa di San Domenico, una struttura molto ampia e suggestiva, che ben si presta alla performance. La Chiesa, costruita alla fine del XIII secolo, subì varie ristrutturazioni, la più invasiva dopo l’incendio del 1647 causato da un fulmine, pur mantenendo la sua veste seicentesca a “guscio” gotico. La sala in cui si tiene lo spettacolo inizialmente era uno spazio decisamente più grande che adesso è diviso su due piani (di cui ci parlerà la coreografa) e venne utilizzato in tempi più recenti come palestra. Tale specifica sul luogo è dovuta al fatto che lo spettacolo dialoga molto con gli spazi in cui via via viene portato e ai quali si adatta, apportando modifiche sceniche e scenografiche. Difatti il Refettorio, locale tipicamente adibito al consumo di pasti in comune, ma anche come sala riunioni, di gioco o come palestra, ben si presta al modo in cui i corpi in scena si muovono nello spazio. Movimenti che oscillano tra il gioco, la preghiera e un opprimente lavoro.

Le donne in scena sembrano in un continuo scambio, oscillando tra gioco, preghiera e lavoro. Pensando ad esempio ai due tronchi che trasportano, su cui si fermano a mangiare, che compongono a croce, o al motore, all’utilizzo dell’incudine e dei martelli, all’alternarsi di una palla da basket a una sfera in metallo. Quale il pensiero dietro agli oggetti di scena?

Diciamo che i miei lavori sono sempre stratificati e prendono tantissimo spunto dalla storia dell’arte, dal cinema e così via. Mi lascio molto ispirare, faccio liberamente delle citazioni. E mi faccio anche molto ispirare dal luogo in cui mi trovo. Per esempio, in questo spettacolo, il motore è nato non dal fatto che loro erano in una fabbrica o perché avevano dei costumi particolari, ma è un fattore a sé. Questo lavoro, all’inizio, dovevo farlo al piano di sopra del Refettorio. Sai, prima non c’era questa divisione tra il piano di sotto e il piano di sopra, era un’unica stanza, che poi però è stata ristrutturata. C’è un dipinto sull’entrata e raffigura “L’ultima cena”. Quel dipinto va su fino all’odierno piano di sopra, dove io avrei dovuto inizialmente fare questo lavoro. E c’è un Cristo a cui è stato “tagliato” il corpo avendoci costruito sopra una porta. Questo perché non si sapeva che ci fossero questi affreschi. Quindi, la prima volta che ho fatto questo sopralluogo al piano superiore, ho visto solo le braccia di un Cristo il cui corpo era completamente mancante, perché al suo posto c’era una porta. E quindi io sono rimasta veramente molto colpita da questa immagine e mi sono detta che dovevo lavorare su questo corpo mancante. Arriva così l’idea del motore come corpo, appunto, di Dio. Volevo qualcosa che assomigliasse il più possibile a un intestino. Quindi l’idea del motore. Poi però per varie ragioni non sono più potuta stare lì perché era troppo pesante. Tra noi, il motore e il pubblico, rischiavamo di cadere di sotto e quindi siamo dovuti andare giù. Solo che al piano di sotto ho trovato anche un altro spazio, per cui mi sono chiesta se era giusto continuare con il motore. Però me lo sono portata dietro, appunto come pensiero. E giù ho trovato uno spazio che prima era adibito a palestra (come suggeriva il pavimento grigio in linoleum), dal momento che molte volte in spazi così grandi, così alti, parecchi anni fa ci facevano delle palestre: ci giocavano a basket o pallavolo. E quindi mi sono chiesta: come, questo spazio, può ospitare il Dies Irae? Così è nata l’idea della palla da basket, come ricordo dell’ utilizzo di questo spazio nel passato.

E subito dopo c’è uno switch visibile con una palla nera di metallo. Quindi prima le donne in scena ci giocano normalmente e poi arriva quest’altra palla che comunque continua a girare nello spazio; poi però arriva il metallo, arriva l’oscuro, arriva il Dies Irae.

(W.Turner, “Alba con i mostri marini”, da commons.wikimedia.org)

Quindi i props cambiano anche rispetto al rapporto che si ha col luogo in cui si svolge. Per esempio, quando portate la performance altrove ci sono sempre gli stessi oggetti o cambiano?

Allora le incudini e i legni ci sono sempre. E da un po’ di tempo ho inserito una lamiera appesa di un paio di metri, 2×1, che è color metallo, all’inizio, e poi la suonano con delle corde di contrabasso, oppure con delle percussioni, con le mani, con il corpo, o ancora scuotendola. E ha un suono bellissimo. Per me questo è un altro strumento in ferro interessante da poter suonare, come l’incudine e i martelli. E all’interno dello spettacolo, a un certo punto questa lamiera viene girata e appare un quadro di Turner, luminosissimo. Il pittore della luce con il suo quadro più luminoso, “Alba con mostri marini”, questa lamiera che si trasforma in tela e le donne in scena la staccano, la portano in giro, fino a che non entra nello spazio, per poi essere ri-appeso storto, acquisendo un altro significato. E quella diventa poi, nella nuova versione, l’ultimo schermo, per cui arriva quel grandissimo frame che c’era al Refettorio di Prato. E tra l’altro ho trovato là, non l’ho fatto fare questo frame. Mi sono detta “beh, cavolo, qui c’è l’assenza di un’opera d’arte, è un quadro senza quadro”.

A proposito di frame, assistendo a una replica dello spettacolo, forse solo a titolo soggettivo, ci si sente catapultate in un immaginario di violenza ben precisa. Ancor prima che religioso il contesto pare – come già detto – esplicitamente produttivo, lavorativo. Incudini e martelli, questo continuo rumore metallico, il motore che macchia le mani di rosso, i loro grembiuli dal lavoro, il loro girare con i tronchi come se fossero degli ingranaggi… Ti va di provare a dialogare anche con questo frame?

Sì sì, certo, in realtà sono vari i livelli. A me piace dare degli stimoli, dei pensieri. Cioè non voglio che sia chiara la linea che voglio percorrere. Per questo dico che il mio lavoro ha più stratificazioni: da un’immagine ognuno può ricavare una pittura, il sangue o qualsiasi cosa. Per cui da un lato c’è questa interpretazione multilivello; dall’altra sicuramente emerge anche il tema lavorativo perché comunque la macchina e il sangue rimandano a incidenti sul lavoro, violenza sul lavoro femminile… Quindi c’è sicuramente anche questo, ma poi è anche solo immagini a un certo punto, visto che stiamo stiamo parlando del paradosso, no? Perché il teatro comunque ti porta comunque verso una finzione, quindi è anche solo immagine, che però ovviamente poi è filtrata da tutte le nostre esperienze. Comunque sia, io ho anche un maestro, lavoro da tantissimo tempo in Socìetas [Raffaello Sanzio ndr] con Romeo [Castellucci ndr]. Quindi anche continuando a rimanere in contatto, lui mi ha molto trasmesso questo metodo di lavorare, cioè lasciare delle immagini sospese.

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