Teatro Delusio inizia a luci accese, tant’è che il pubblico sembra non accorgersene. La terza campanella è già suonata e la sala è rumorosa. Sul palco tre tecnici in nero spostano gli oggetti di scena, i cavi penzolanti, una porta, un baule. Lentamente le luci cambiano e il pubblico intuisce che c’è bisogno di attenzione. Con il silenzio i tre tecnici si trasformano dunque in attori: dalla porta al centro dello scenario viene verso di noi una marionetta, animata da una delle maschere che caratterizzano le produzioni di Familie Flöz, e un vestito bianco, che pende sotto di essa. È una maschera di cartapesta, caricaturale come un’illustrazione. Improvvisamente il volto si stupisce osservando la mano che muove la manica del suo vestito: il secondo attore è al suo fianco e ha infilato la propria mano nella manica della marionetta, prendendo parte alla nascita del personaggio, che avviene sotto i nostri occhi. Dopo poco tempo questo “gioco” diventa a tre: un attore muove il volto, l’altro la mano sinistra, e il terzo ha dato vita alla mano destra. Il gioco continua tra stupore del personaggio e sapienza gestuale degli attori, che sfruttano le potenzialità espressive della marionetta, vagamente spiritica perché sollevata da terra, fino a che non la portano danzando al di là della scena. Lo spettacolo procede: uno alla volta compaiono i tre tecnici, i veri protagonisti dello sviluppo drammaturgico dello spettacolo, stavolta anche loro con costumi e maschere. Lo spettacolo è la riproposizione dei retroscena di un teatro che è al di là del nostro sguardo. Ciò che vediamo di fatto è ciò che accade dietro le quinte mentre il “teatro rappresentato” rimane nascosto, se non per le musiche e i personaggi che di tanto in tanto fanno capolino in scena, quella stessa scena che ci viene costantemente sottratta. Si tratta di uno spettacolo drammaturgicamente ricco. Intorno alle avventure dei tre tecnici si muove infatti una miriade di personaggi: musicisti, cantanti d’opera, registi affascinanti, donne delle pulizie, legati ai tecnici e tra di loro da espedienti diegetici a tratti comici a tratti drammatici. Ogni personaggio ha un carattere definito e riconoscibile: il violinista appare vecchio e sperduto, arriva nel backstage, che è la nostra scena, chiedendo indicazioni per il palco, per poi addormentarsi su una sedia; il pianista è alto e altezzoso, lo vediamo sciogliere le articolazioni delle dita; la cantante d’opera è spocchiosa e bellissima, tanto da ricevere continue attenzioni dal tecnico più anziano e un po’ robusto, e così via. C’è un accurato lavoro di caratterizzazione dei personaggi attraverso il corpo nonché attraverso le puntuali entrate e uscite degli attori, che diventano decine pur rimanendo in tre. Scenicamente ritroviamo poi elementi propri della clownerie, delle arti acrobatiche e del teatro di figura, percepibili attraverso il lavoro del corpo che sostiene le maschere, le quali cambiano espressione grazie all’uso sapiente di luci, musiche e gestualità. Queste maschere, sorprendentemente cangianti ma uguali, ricordano gli esperimenti sul montaggio di Pudovkin e Kuleshov: dopo aver associato tre primi piani identici di Mosjukhin alle immagini di una minestra, di una bambina che gioca, di una bara con un cadavere, il montaggio finale veniva mostrato al pubblico che rimaneva sorpreso della recitazione eccellente dell’attore, nonostante la sua espressione fosse sempre la stessa. Con un simile abilità avanguardistica Familie Flöz dà vita alle sue maschere. [caption id="attachment_1199" align="alignleft" width="850"] ph: Valeria Tomasulo[/caption] In scena è riconoscibile non solo la critica ironica a un teatro classico, presente sia nella forma che nella diegesi, ma anche il conflitto, clownescamente esasperato, tra amore e morte, antico e nuovo. La marionetta iniziale ritorna infatti lungo tutto lo spettacolo con apparizioni evanescenti come in rappresentanza di uno spirito teatrale antico, un po’ guardiano e un po’ beffardo, a tratti da sfidare. Anche negli inchini finali veniamo presi in giro, con gli attori che ci danno le spalle e vanno a ringraziare il pubblico del “teatro al di là”, portando avanti un discorso simile al “seduti-in piedi” dell’ultimo Rezza-Mastrella. In 7-14-21-28 il gioco critico tra pubblico e chi sta sul palco viene espresso attraverso l’affermazione secondo la quale chi è in piedi nella Storia vince, e provocatoriamente la ripetizione della dicotomia “seduti-in piedi” sottolinea la contrapposte condizioni di spettatori e attori. Chi ha il potere? In Teatro Delusio invece il gioco non è tra alto e basso, ma tra davanti-dietro: con ironia dicono al pubblico pagante che lo spettacolo viene costruito al di là del nostro sguardo, nel “dietro-scena”. Cos’è quindi ciò a cui abbiamo accesso? Entrambe le produzioni, seppur differenti, problematizzano il ruolo dello spettatore, quindi del teatro. Unico disappunto: dopo gli applausi e gli inchini nel teatro al di là e nel teatro al di qua, gli attori escono di scena per poi rientrarci con le maschere, suonando tre minuti di un pezzo dal sapore country. Qui forse il gioco viene forzato troppo, dopo quasi due ore di spettacolo dal meccanismo impeccabile. Usciamo dal teatro comunque molto soddisfatti, con i tre tecnici – già non più attori? – che spostano gli oggetti di scena, i cavi penzolanti, una porta, un baule.
Ludovica Sciannamblo
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.