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(foto di Giuseppe Di Lorenzo)
(foto di Giuseppe Di Lorenzo)

“Come pesci volanti”, nuovi luoghi per un nuovo teatro

di Giuseppe Di Lorenzo

Perché dare a un pesce le ali? Che senso ha? A livello evoluzionistico è piuttosto semplice se ci pensate bene, quanti pesci possono cibarsi di ciò che è appena sopra la cresta del mare? Eppure l’evoluzione non è un percorso lineare, come quello che leggevamo nei nostri libri di biologia, dove la scimmia minuta sul bordo sinistro della pagina pian piano s’ingrandisce e diventa eretta fino a mutare in un uomo fatto e finito. In realtà assomiglia più a un tiro di dadi, dove la natura prova sempre nuove soluzioni per la sopravvivenza, ma alla cieca. E così le ali sono sì utili, ma ti rendono anche preda di nuovi pericoli, diversi da quelli a cui eri abituato stando sott’acqua, al tuo posto. I pesci volanti hanno un nome: Hirundichthys rondeletii e sembrano sardine, forse un po’ più argentee e, ovviamente, con un paio di piccole ali ai lati, ma per comodità d’ora in poi li chiameremo artisti.

“Come pesci volanti” è la prima edizione di un nuovo e ambizioso festival di teatro emergente, che ci ha messo di fronte alla precarietà di un sistema in cui emergere non significa quasi mai arrivare, ma continuare ad annaspare sperando che qualcuno prima o poi ti noti. Organizzato dal CUT – Centro Universitario Teatrale – di Trieste in collaborazione con il Teatro degli Sterpi e Hangar Teatri, grazie al sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia nell’ambito del progetto Cantiere Cultura 2024, questo festival è anche un segno di discontinuità in confronto a alcune pratiche sempre più invise ai giovani teatranti, come la premialità e la competizione.

Tre giorni, dal 10 al 12 maggio, sei spettacoli, sei compagnie che imparano a conoscersi, si guardano e si confessano al pubblico, non c’è da correre tra mille eventi, l’evento è lo spettacolo. Unica richiesta da parte dell’organizzazione agli artisti: partecipare a tutte le serate. Chi porta il suo lavoro a “Come pesci volanti” deve anche concedersi il tempo di vivere quei tre giorni come un gruppo. Non ci sono congressi, né tavole rotonde da organizzare la mattina fino alla sera, giusto un paio di workshop dedicati agli artisti, sono loro i protagonisti del festival, e a loro il festival dedica le proprie energie. È stata un’occasione preziosa quella concessaci da Hangar, sopratutto credo per noi giornalisti e critici, per staccare dalle logiche saturanti dei festival estivi. In quei giorni con Roberto Canavesi (teatroteatro.it) e Lucia Medri (Teatro e Critica), abbiamo condiviso sguardi, pensieri e domande, che ho voluto far decantare per poterci dedicare qualche riflessione oltre gli entusiasmi del momento. Più che raccontarvi per filo e per segno il festival (per quello vi rimando ai due esaustivi articoli di Roberto e Lucia) vorrei provare a tirare qualche filo e mettere in prospettiva l’azione politica di Hangar Teatri, che da una parte li avvicina ad altre realtà giovani come “Tutta la vita davanti” (festival di teatro emergente a La Spezia diretto da Alice Sinigaglia dentro la programmazione di Fuori Luogo), dall’altra evidenzia un nuovo paradigma, che si costituisce come risposta a un sistema avverso alla proliferazione culturale, ovvero: se non ti puoi ribellare allora evolvi.

Nuovi pubblici cercasi

La premialità ormai viene sempre più intesa come una degenerazione di processi competitivi fini a se stessi e non propedeutici all’affioramento di nuovi linguaggi. Questo è un dato di fatto che abbiamo raccolto qui su Altre Velocità declinato da diversi punti di vista, quello dei registi e degli attori, dei drammaturghi e perfino degli organizzatori di festival. Il premio ormai ha un valore sempre più irrisorio per gli artisti, le repliche sempre troppo poche, i cachet insufficienti, certo per alcuni premi storici c’è almeno il blasone, ma nelle programmazioni dei teatri gli spazi sono sempre pochi e tendenzialmente vanno in diminuzione. Ciò che definisce invece l’azione di realtà come Hangar è la consapevolezza della propria posizione periferica, sia nell’economia urbana della città che in quella culturale dell’opinione pubblica. Hangar sorge dove prima c’era una vecchia carrozzeria in via Luigi Pecenco 10, vicino all’Università di Trieste, poco fuori dal centro e circondato da un grande complesso condominiale che si staglia quasi a coprire il cielo. Non esattamente un posto dove capiti passeggiando alla ricerca di un aperitivo a buon prezzo. Come si costruisce un pubblico, una rilevanza, partendo da un luogo così a margine di qualsiasi racconto, financo politico?

Non è una situazione unica, ho citato prima Gli Scarti a La Spezia con il Dialma ma potrei citare anche Teatro Magro a Mantova, sono proprio questi luoghi che non hanno la possibilità di potersi fregiare della centralità e della storicità di un teatro comunale, che al loro interno fanno saltare tutti gli idiomi e le etichette a cui ci stiamo mortalmente abituando, cercando di adattarsi piuttosto che morire. In un teatro strettamente detto spesso gli operatori devono scontrarsi con l’idea pregressa di teatro che porta con sé il pubblico, mentre in un vecchio hangar, senza tutta la convenzionalità che un’istituzione produce a suo discapito, il tuo pubblico è già più incline a lasciarsi stupire. Il problema è crearlo quel pubblico.

Due mutui accesi per rilevare un vecchia officina, otto anni di lavoro in cui chiunque impara a fare un po’ di tutto e nel frattempo si specializza anche (amministrazione, distribuzione, laboratori teatrali, corsi di yoga, scrittura dei bandi, ecc.), a pochi numeri civici di distanza da Hangar ci sono gli uffici del teatro, ragazzi da tutta Italia accumunati da un percorso universitario a Trieste culminato nell’esperienza del CUT e poi proseguito contro ogni logica economica e razionale. Il primo pubblico sono sempre gli altri teatranti in mutuo soccorso, alcuni dei quali negli anni diventano altro ma comunque infetti dal vizio del teatro. Da lì i parenti, i conoscenti, gli amici. Non è facile, anche se fuori dalle sue mura intrise di storia e pregiudizi, il teatro è comunque visto come una attività complessa e legata a eventi speciali, non esiste nell’immaginario collettivo un teatro quotidiano, dove magari ci passi se non hai niente da fare. L’apertura verso l’ordinario di luoghi come Hangar la s’intravede già arrivando lì davanti, spazi accoglienti, aperti, luminosi, dove le attività possono essere persino slegate dalla messa in scena la sera, ma non per questo il teatro viene snaturato per farci altro (di solito aperitivi, sempre sulla linea che l’unica economia sostenibile in Italia sia quella gastronomica).

Sono sicuro che vorreste leggere adesso che dei 100 posti a sedere di Hangar non ce ne fosse mai neanche uno mezzo vuoto durante i giorni del festival. Non è stato così, e non lo è neanche per la metà dei posti nella sede di Teatro Magro, o i 150 del Dialma durante l’ultima edizione di “Tutta la vita davanti”. Ma qualcosa si muove, qualcosa evolve. Non è facile vederlo quando lo stai vivendo, diventa invece lapalissiano una volta che guardi il disegnino della scimmia che si alza sul libro. Il primo segno evidente di cambiamento? La qualità media degli spettacoli, decisamente più alta e più ambiziosa di molti festival di punta del Grand Tour estivo, perché non si limitano al cercare il pacchetto “all-inclusive”, ma si lascia grande spazio a prodotti al limite non sempre finiti, ma accumunati dall’ambizione di fare qualcosa che lasci il segno nello spettatore.

(foto di Giuseppe Di Lorenzo)

È una questione di entusiasmo

Se non c’è un premio, cosa ti da un festival in cambio della tua performance? Chiaramente ciò che può far crescere queste realtà è solo la rete che riescono a costruire tra di loro, quello che un tempo si chiamava circuito alternativo, o underground. La tua forza spesso è nella lunghezza della rubrica, i contatti possibili, gli amici degli amici. Ma per attirare pubblico e giornalisti invece ti serve autorevolezza, e quella la puoi acquisire solo attraverso la qualità.

In cosa consiste la qualità in uno spettacolo di teatro giovane, emergente? Di certo non nella precisione o nella completezza di un progetto, neanche nella stratificazione dei messaggi e dei linguaggi e sicuramente non nella profondità dei temi affrontati, ma nell’ambizione. Forse proprio l’ambizione dei giovani potrebbe essere una chiave per accendere l’entusiasmo del pubblico, quella verticalità inaspettata che non va scambiata per novità o rivoluzione. Avere entusiasmo per qualcosa – come indica anche l’etimologia della parola – significa celebrare, rendere omaggio, venerare quel concetto, quell’idea specifica – come venerare una divinità per l’appunto. Un corrispettivo nella filosofia indiana è il concetto di Shringāra, ovvero di amore romantico per l’estetica, per la bellezza. Nella filosofia indiana Shringāra è considerato uno dei otto rasa, ovvero le otto emozioni estetiche fondamentali, e in particolare questa è legata all’attrazione fisica e all’estasi dell’incontro amoroso. Essere entusiasti del teatro ci porta ad adorarlo, e di conseguenza a venerarlo col rito della presenza. Per quanto sia scontato e banale affermare che per far venire i giovani a teatro c’è bisogno che si possano riconoscere in esso attraverso giovani come loro, ciò non basta evidentemente a programmarli.

Dei sei spettacoli di “Come pesci volanti” uno solo era una coreografia (con brevissimi elementi drammaturgici), un altro era uno studio ancora molto grezzo, due esplicitavano la propria nevrosi nel testo, gli altri due invece giocavano su un piano poetico più evocativo. Ognuno di essi ha rischiato di sbilanciarsi per raggiungere il risultato di un racconto efficace, è anche chi alla fine non è riuscito a confezionare un prodotto pulito e preciso, ha comunque sempre trovato punti di luce, di entusiasmo, che valicavano i limiti formali e espressivi della pièce.

Un esempio di un lavoro ambizioso ma poco bilanciato è stato Chameleons, prodotto da Ersiliadanza, coreografato e interpretato da Laura Corradi, Midori Watanabe, Gessica Perusi, Alberto Munrin e Tommaso Cera, con le luci di Alberta Finocchiaro. Sebbene la bravura degli interpreti, Chameleons tende a perdersi in troppe digressioni, lanciando moltissime sfide allo spettatore, ma lasciando poco spazio ad alcuni segmenti che meriterebbero ben più attenzione. Ciò che funziona meglio della coreografia è il finale, spesso la parte più delicata nel complesso gioco d’incastri di uno spettacolo. Il finale di Chameleons apre a un’interpretazione molto raffinata del senso stesso di praticare un’arte (in questo caso la danza), la reiterazione dei movimenti diventa quasi una lezione, quella lezione muta rigidamente con toni sempre più militareschi, le azioni sempre più drammatiche, determinanti. «Go!» e l’interprete comincia una serie di movimenti «Change!» adesso deve cambiare pattern, adattarsi «Stay!» il danzatore o la danzatrice si fermano così come sono in quel momento «Catch me!» il maestro prende una ricorsa e va catturato in volo. Non importa che tu sia perfetto o tu possa sbagliare: ripetere, ripetere, ripetere. La tradizione diventa dogma e così perde la sua capacità di innovarsi e cambiare. Ecco, se ognuna delle scene proposte da questa messa in scena avessero avuto questo spazio vitale, questo tempo di gestazione, Chameleons avrebbe raggiunto con maggior precisione il suo scopo.

Mi piace sottolineare che Chameleons a discapito del suo essere uno spettacolo ancora con un ampio margine di miglioramento, è comunque un lavoro mosso da un’ambizione prossemica e visiva che supera di gran lunga i limiti tecnici imposti dalla condizione economica e precaria di una compagnia giovane. Spesso, troppo spesso, nei festival si preferisce selezionare uno spettacolo ben confezionato a uno ancora in divenire, solo perché si suppone che sia sempre meglio avere un lavoro concluso a un lavoro in fase di montaggio. Ma è un errore grossolano, mai come oggi c’è la necessità di dare spazi agli artisti di sbagliare e calibrarsi, e perché no: perfino di fallire, magari presentando un lavoro che non ha picchi, che non ha intuizioni, che è frutto solo della frustrazione, così da poterlo esternare da sé e spurgarlo. I festival dovrebbero essere occasione d’incontro, di festa, e non di competizione spietata. E quando il pubblico percepisce questa apertura, in cui non è lui giudicato per la sua preparazione culturale né ipotetico giudice di un giovane artista, allora ecco che si crea quello spazio in cui l’entusiasmo può propagarsi.

Gli spettacoli

Come Chameleons anche Gassa D’amante di Labirion Officine Trasversali esprimeva una visione complessa ma nel loro caso anche criptica, raggiungendo anche lui dei picchi di poesia estatici alternati a pura confusione. Va premesso che Gassa D’amante è stato presentato in qualità di primo studio, e metteva in scena un macchinoso viaggio spazio-temporale di natura poetica che in alcuni momenti vedeva ben sei attori in scena. Sofia Guidi e Valerio Leoni hanno insieme combinato gli elementi di regia e drammaturgici, in scena Silvia Guidi, Juliana Azevedo, Mattia Parrella, Davide Schmutz, João Silva (lo so, sono cinque ma io nel taccuino ne ho contati sei!). La costruzione scenica di un pontile che gioca con la prospettiva è un elemento di fascinazione già di per sé, così come certe soluzioni di prossemica che sembravano evocare composizioni pittoriche novecentesche, tagli di luce, voci gutturali, ogni elemento preso singolarmente poteva anche raccontare una storia, peccato che tutti assieme non riuscivano a trovare la giusta armonia. Nei dialoghi inquietanti e serrati sul pontile c’era la carica angosciosa di Ibsen, mentre la scenografia evocava l’inquietudine cosmica di Hidetaka Miyazaki (penso ovviamente al villaggio dei pescatori di Bloodborne), era come assistere all’evocazione di un posto ancestrale che è impresso nella nostra memoria senza sapere bene perché. Ciò di cui ha bisogno la compagnia è far respirare le loro idee e le scene, ma questo lo sanno benissimo, perché appena usciti dalla rappresentazione erano pronti (carta e penna!) a cogliere gli stimoli degli spettatori. Sicuramente Gassa D’amante, sempre che si chiamerà ancora così, sarà uno di quegli spettacoli che attenderò con maggior curiosità per la prossima stagione.

Due lavori invece fortemente legati tra di loro dalle tematiche affrontate sono stati Fragileresistente de Il turno di notte e Preferisco il rumore del mare di Balt Collettivo. Il capitalismo e le sue malattie sono il centro gravitazionale attorno al quale sono stati immaginate parole e azioni di questi due spettacoli. Fragileresistente racconta una storia intima declinata in tante piccole storie, il rapporto tra un padre (Tommaso Russi) e un figlio (Silvia Pallotti) dentro una sfera di cristallo che nei suoi momenti migliori ricama una realtà incredibilmente prossima e quotidiana (i cortei del 25 aprile, le gite forzate al mare) delle altre inciampa su se stesso cadendo in posizioni retoriche e leziose (le citazioni di Mark Fisher – sì, sempre quelle, e un uso un po’ forzato della parola «cazzo» che ricorda i doppiaggi delle serie TV pomeridiane su Rete 4). Ma se togliamo quei pochi momenti forzati, Fragileresistente è uno spettacolo prezioso, dove ci si confronta con la depressione con una spontaneità che delle volte fa venire la pelle d’oca, e dove l’ombra lunga dei padri di lacaniana memoria viene accuratamente dismessa a favore di un realismo persino crudo nella sua presa di coscienza. La depressione diventa un centro gravitazionale che paralizza i corpi, Pallotti si sdraia per terra, si stende sul divano, nella scena più memorabile dello spettacolo viene inghiottita dal divano stesso come fosse un oggetto inanimato, senza porre alcuna resistenza. Russi nel cercare di reagire a questa arrendevolezza esprime una terribile incomprensione verso i suoi figli, calibrando ironia e tragedia con mestiere. Ciò che affiora è un’inerzia sofferente, che potrebbe provocare rabbia nello spettatore per la sua arrendevolezza, ma che certamente viene espressa con sincerità e consapevolezza scenica.

Preferisco il rumore del mare è una coproduzione tra Balt Collettivo e Teatro della Caduta con il sostegno di Matutateatro, Officina Papage, CURA (Centro Umbro Residenza Artistica) e Z.I.A. (Zona Indipendente Artistica), ma è sopratutto l’incredibile chimica in scena di Alessandro Balestrieri e Eleonora Paris, capaci di interpretare le parole del testo di Francesca Mignemi come fossero cucite su di loro. Le due storie parallele di questo spettacolo rappresentano due mondi verosimili, nel primo Balestrieri è un giovane italiano che emigra a Londra («capitale dell’ateismo») per seguire il sogno capitalista di accumulo (sembra la parodia dell’utente medio di r/Fire), Paris una giovane che ha perso ogni speranza per il suo futuro e quello del mondo, ormai disoccupata riempie le sue giornate con i sensi di colpa che il sistema ha installato nel suo inconscio. Nella seconda storia i due sono connotati allo stesso modo da due cerate verde scuro e girano incessantemente attorno a un cerchio riflettente, illuminati dall’alto da un faro che ne delimita il claustrofobico spazio scenico. In questo secondo quadro c’è Beckett che incontra Ballard nella distopia, Paris è un inflessibile supervisore che il mostra al nuovo arrivato come applicarsi in un lavoro dove non si produce assolutamente nulla. Queste due “relazioni”, hanno il solo scopo di condurre lo spettatore verso un meccanismo di riconoscimento dell’alienazione, niente di originale di per sé, ma il crollo nervoso dei due attori in scena funge da ponte catartico per superare i limiti di un immaginario già ampiamente colonizzato da tutti i media. Paris fa sempre da contraltare a Balestrieri e viceversa, nella distopia lei cela nella sua apparente fiducia nel funzionamento del sistema un vuoto incandescente, mentre nel quadro realistico abbraccia il vuoto per reclamare la propria libertà.

I due lavori dove la cifra poetica era più spiccata e determinante drammaturgicamente sono stati Affogo e María. Affogo è uno spettacolo scritto e diretto da Dino Leopardo con Mario Russo protagonista supportato da Alfredo Tortorelli e prodotto da Gommalacca Teatro. Da due anni questo lavoro riceve plausi e riconoscimenti, non ultimo il secondo posto durante l’ultima edizione di In-Box vinta da Luisa Borini con Molto dolore per nulla. La narrazione, anche se frammentata, rappresenta comunque una storia al contrario degli spettacoli precedenti, quella di Nicholas (Mario Russo), la sua infanzia con due zii grotteschi e a tratti mostruosi, un fratellino timido e sgraziato (Alfredo Tortorelli), e una paperella, suo confessore e testimone. La qualità di questo spettacolo non è tanto nell’intreccio (un Moloch familiare sulla scia dei primi film di Harmony Korine) quanto nella sua messa in scena. Assistiamo a una autoanalisi in cui non è prevista la cura, che si fonda su un gioco di profondità ben calibrato: il proscenio è il luogo dove racconto e quarta parete tendono a confondersi, dietro di esso un telo a simulare la grana dei ricordi dove la memoria diventa azione scenica. Anche attraverso l’uso delle luci si creano spazi e luoghi, in principio vaporosi, come nebbia, più avanti sempre più schiariti (anche se sempre piuttosto allucinogeni). C’è ovviamente chi potrebbe intravedere nell’operazione di Affogo una urgenza esclusivamente estetizzante, dai dettagli della scenografia (in particolare l’uso creativo di una vasca da bagno luogo deputato ai maggiori monologhi del protagonista) fino all’interpretazione stessa di Russo, con repentini cambi di registro vocale, linguistico e timbrico, cadenzati da un ritmo coreografico impeccabile. Personalmente trovo invece che l’estetica di Affogo sia parte necessaria di un processo di catarsi molto forte, certamente segnato generazionalmente da alcuni paradigmi stilistici degli anni ’90-’00, ma che ne reinterpreta le inquietudini soggiacenti a quella generazione con efficacia e uno stile fortemente riconoscibile e non derivativo.

A chiudere i tre giorni di festival lo spettacolo prodotto da Hangar Teatri, ovvero María, in cui debutta come regista l’attrice Elena Delithanassis in scena assieme a Marco Palazzoni e Isabella Polisena. Lo spettacolo prende ispirazione da uno dei Dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez, “Sono venuta solo per telefonare”, e si sviluppa, come nel caso di Affogo, più attraverso l’azione che assecondando un intreccio comunque avvincente e di estrema complessità morale. María (Elena Delithanassis) ci viene presentata come un’ex-ballerina ora compagna e assistente del Mago Saturno (Marco Palazzoni) che all’inizio della pièce si ritrova costretta a chiedere un passaggio in autobus per raggiungere il marito che l’aspetta per un nuovo spettacolo. Purtroppo María quella sera non raggiungerà il suo amato Saturno, ma verrà rinchiusa in un ospedale psichiatrico, schiava delle angherie e dei soprusi sessuali di una infermiera fascista (una straordinaria Isabella Polisena, la cui sola presenza scenica metteva soggezione e inquietudine). Le vicende che s’innescano giocano su piani prossemici che scaturiscono nella danza come nel circo, ed è evidente sia l’influenza del teatro dell’Est Europa (nella crudeltà delle maschere dei protagonisti) che la poesia malinconica degli amori impossibili nella letteratura sudamericana. Sì è vero, lo chiamavano “realismo magico”, ma è solo uno dei registri di questa messa in scena, che ruota caleidoscopicamente attorno all’ingiustizia più assoluta e gratuita, rischiando anche di saturare lo spazio per altre interpretazioni, più speranzose e possibiliste. Con la dismissione del franchismo anche l’ospedale psichiatrico diventa un inutile emblema del passato. María può accettare il suo passato senza che ne infici la sua possibilità di costruirsi un futuro. Hangar mette in scena una storia con tutte le qualità di un sogno, acquietando le immagini più forti senza edulcorarle e immergendoci in un rito poetico in cui allo spettatore viene dato il compito di trovare le rime col presente.

Evolvi o muori

I nostri pesci volanti, cioè: i nostri artisti, diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, hanno lasciato alle profondità le poetiche trasversali, i manifesti o le prossimità stilistiche, abbracciando la frammentazione e la bassa risoluzione dei nostri tempi. Non c’è mai in questi festival un fil rouge che non sia quello dell’età e del principio di cogliere nel particolare qualcosa di più ampio, senza avere mai la pretesa di universalizzare. C’è una grande consapevolezza non solo dei propri limiti, ma sopratutto del qui ed ora, dell’importanza del presente a discapito delle visioni sul futuro (sempre più sovrapponibile proprio al presente in questa Apocalisse Tascabile). Se festival e premi non li rappresentano più allora eccoli a costruirsi da soli le occasioni d’incontro e di crescita di cui sentono il bisogno. Se il pubblico, intesto come organismo politico, si defila dal suo compito istituzionale, non c’è altra soluzione che creare degli spazi dove quelle istanze possano trovare spazio per avanzare. Matteo Pecorini a Firenze sta mettendo sù una folle compagnia di giro tra le RSA della provincia, fuori da ogni logica distributiva riconosciuta. Teatro Magro a Mantova applica i propri principi poetici nelle carceri come negli ARCI, provando a costruire una rete che ha mille centri, nessuno dei quali è un teatro strettamente detto. “Tutta la vita davanti” avviene interamente al Dialma di La Spezia, un’ex complesso scolastico ora polo multifunzionale atipico. Hangar Teatri sorge dove prima c’era un’officina, dentro un quartiere e un complesso condominiale verticale, andando verso il pubblico e non aspettandosi che il pubblico vada verso di lui. Come ricorda spesso Massimiliano Civica, regista e direttore del Teatro Metastasio di Prato: «Tutti gli spettatori sono cittadini, ma non tutti i cittadini sono spettatori». Allo stesso tempo, anzi proprio per questo, sebbene il teatro sia il luogo deputato allo spettacolo, sarebbe bello che tutti i luoghi pubblici possano per necessità diventare teatro.

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