Questa intervista fa parte dell’Osservatorio sulle arti infette, un progetto realizzato nell’ambito del Laboratorio avanzato di giornalismo culturale e narrazione transmediale organizzato da Altre Velocità: si tratta di una serie di conversazioni che le partecipanti al laboratorio hanno condotto con artisti, operatori e studiosi per indagare i mutamenti e le difficoltà del teatro rispetto alle conseguenze della pandemia del Covid-19.
Fiammetta Perugi si è esibita in un reading online per la rassegna “Prove Generali – Il teatro va in montagna”. Il pubblico, collegato tramite la piattaforma Zoom, ha avuto la possibilità di essere guidato attraverso la voce della narratrice dietro i passi incerti della protagonista de La carovana dei dispersi: una persona anziana malata di Alzheimer che si perde nelle vie di una città che non è più in grado di riconoscere come sua. Smarriti tra i ricordi sbiaditi e tra le voci colorate dei commercianti e dei turisti, spettatori e spettatrici hanno potuto ritrovarsi, al termine della lettura, in un momento di dialogo.
Per tenere aperto questo confronto abbiamo deciso di intervistare, insieme a Fiammetta Perugi, le organizzatrici dell’evento Stefania Tagliaferri e Verdiana Vono, rispettivamente direttrice e dramaturg della compagnia aostana Palinodie. Oltre a occuparsi della produzione e messa in scena drammaturgie originali, Tagliaferri e Vono sono ideatrici e curatrici della rassegna “Prove Generali – Il teatro va in montagna”, volta a far arrivare il teatro fra le cime. Tra i loro obiettivi c’è quello di portare la cultura a chi abita fuori dai grandi circuiti di fruizione. Ovunque, infatti, può nascere una grande storia d’amore. Perché come dicono loro, «la direzione artistica è creazione. È pensare a piccoli dettagli per rendere possibili cose difficili, come per esempio far sentire una comunità presente anche quando non lo è in carne e ossa. È mettere le persone in condizioni in cui è bello mostrare il proprio lavoro. È riflettere per dare».
“Portami a teatro e finché non si può, aspetteremo”: recita così il vostro primo post della campagna “Portami a teatro” che avete lanciato sui social. Da quali esigenze nasce questa iniziativa? Potete spiegare la vostra presa di posizione?
Stefania: «Questa campagna nasce da un’esigenza pratica: avevamo acquistato uno spazio fisico ad Aosta dove pubblicizzare gli eventi della rassegna “Prove Generali – Il teatro va in montagna”. Anche se a causa del primo lockdown non avremmo potuto fare spettacolo, avevamo pensato di utilizzare questo spazio per lasciare un messaggio alla città. Siamo state poi chiamate dall’ufficio comunale e ci è stato detto che non aveva più senso affiggere i manifesti, perché il nostro non era un lavoro ritenuto primario e non si poteva procedere. Questa esperienza ci ha molto addolorate».
Verdiana: «Un conto è metabolizzare l’impossibilità di portare avanti il progetto della rassegna, un altro è vedersi privata la capacità di rimanere in contatto con le persone. Al secondo lockdown, memori dell’esperienza precedente, ci siamo allora ritrovate a riflettere su quale fosse la cosa giusta da dire. Siamo partite dall’idea che “chiuso” non vuol dire “morto”. Se io voglio andare in un posto, il fatto che non ci si possa andare è secondario, perché il mio slancio è presente. Allora, finché non si può, aspettiamo. In questa situazione, per noi non cambia il desiderio, il fuoco che porta a voler andare a teatro e a voler fare teatro, ma semplicemente la contingenza, che impone di aspettare. Inoltre ci interessava instaurare un rapporto diretto, a tu per tu. “Portami da qualche parte” è una frase che dici a una persona che ami ed è ciò che vogliamo che gli spettatori dicano a noi».
Stefania: «In molti dei nostri modi di comunicare c’è il discorso amoroso. Il rapporto che abbiamo col teatro è viscerale, ma è anche romantico. Quindi capita che ne parliamo in questo modo, per far scoccare una freccia di Cupido. Vorremmo arrivare a chi ascolta o a chi legge facendoli sentire come se stessero ricevendo un messaggio di affetto. Vogliamo suscitare la nostalgia in chi a teatro già ci andava, ma soprattutto vogliamo raggiungere quelle persone che non hanno vicinanza con questa esperienza».
Quali sono per voi gli elementi imprescindibili perché l’esperienza del teatro possa avere luogo?
Verdiana: «Mejerchol’d diceva: “Se eliminiamo la parola, il costume, il proscenio, le quinte, la sala, finché rimane l’attore e i suoi movimenti, il teatro resta teatro”. A questa affermazione aggiungo che il teatro, soprattutto questo periodo particolare, deve costituire un’occasione di incontro. Se l’incontro avviene, non sussiste più il bisogno di condividere uno stesso spazio».
Stefania: «Per me il teatro è il pensiero di fare qualcosa che è per te. Penso alla serie I muri parlano, monologhi registrati che abbiamo prodotto durante il lockdown. Non avevano la presenza dal vivo e collettiva, non avevano un tempo, non avevano uno spazio preciso. Per me, tuttavia, erano teatro per il modo in cui sono stati ideati e proposti. Li abbiamo fortemente voluti e pensati perché anche soltanto una sola persona, ascoltandoli, potesse percepirli come un prodotto finalizzato proprio a quell’ascolto. Personalmente di questo periodo critico il fare pur di mostrarsi, comportamento proprio dell’essere artisti anche prima del Covid-19. Lo abbiamo sentito soprattutto durante il primo lockdown, quando c’era un numero incredibile di contenuti online. Noi pensiamo che sia il caso di fare e di dire quello che si sente davvero. Per me il teatro è anche questo: andare alla radice. È chiaro che questo permetta di incontrarsi».
Quindi per voi non c’è bisogno dello spazio fisico? La vostra volontà di produrre quello che sentite e la voglia di comunicarlo agli altri per incontrarli è sufficiente? Non è dipendente dal mezzo?
Verdiana: «No, è dipendente dal mezzo. È evidente che adesso stiamo sperimentando qualcosa che non si era mai sperimentato. Anche quando ci sono stati periodi di depressione culturale, non c’erano tutti questi mezzi tecnologici a rifondare l’idea dello spazio di condivisione. La presenza è la grande unicità del teatro; il problema è che quando non ci può essere, deve arrivare la volontà che ci sia. Devi costruire col tuo desiderio un ponte fino all’altra persona».
Stefania: «È molto simile a una relazione a distanza. Io non le amo, per me per stare con una persona è fondamentale condividere un tempo, uno spazio, la volontà di stare assieme, di un incontro. Però si possono trovare dei modi per continuare a essere vicini e cercare il modo di condividere il proprio amore anche se si è in due città diverse, se si è separati. Per me è comunque amore. È una relazione, ma vissuta con altri mezzi».
Per quanto riguarda il reading de La carovana dei dispersi di Fiammetta Perugi, come avete ideato questo format? Come avete pensato le modalità di interazione col pubblico?
Stefania: «La rassegna di “Prove Generali” nasce con la volontà di creare un’opportunità per gli artisti di mettersi alla prova, di fare qualche replica in più, di stare nel proprio lavoro. Noi prendiamo degli spettacoli che hanno già una storia, che non necessariamente devono essere al loro debutto. Da un lato c’è un’attenzione al percorso artistico degli artisti, che nasce dal riguardo che desideriamo avere noi quando mostriamo il nostro lavoro. Dall’altra c’è il desiderio di creare un pubblico per il teatro in Valle d’Aosta. Questo due presupposti si ritrovano anche nel reading».
Verdiana: «A me piace chiamarlo il “Club delle drammaturgie”, nel senso che è un po’ un club del libro con l’autrice presente. È stata una scommessa, qualcosa che non avevamo fatto prima e che abbiamo costruito cercando di immaginare cosa avremmo voluto se noi fossimo state le spettatrici. Il presupposto artistico è l’attenzione che noi vorremmo ai nostri lavori: come possiamo tradurla in una collaborazione? Il momento in cui è stato chiaro che qualcosa stava funzionando è stato quando, prima di connetterci, avevamo la stessa tensione di prima dell’inizio di “Prove Generali”. Era lo stesso tipo di energia. Cosa che poi è rimasta per tutta la durata dell’evento e anche dopo. Eravamo felici e stravolte».
Come vi immaginate il futuro del teatro? C’è qualcosa che deve cambiare? Cosa sperate che possa cambiare?
Fiammetta: «Io spero che a cambiare sia la tolleranza delle persone. E che l’intellettuale la smetta di essere quello che si distacca dai problemi della gente, ma diventi uno che parla dei problemi delle persone. Spero che il teatro ricominci a parlare con le persone, che non sia elitario, che ritorni alla sua funzione originaria. Ora mi sembra un po’ uno sfoggio di vanità. Mi sembra che siamo un po’ tutti a raccontarcela, anche per paura. C’è un sistema così vecchio di usi e consumi che è fuori tempo per quello che è il nostro oggi, e lo trovo anche un sistema molto chiuso. Per il mio teatro, io spero un futuro radioso, spero che non muoia presto. Quello che voglio fare è parlare con le persone, parlare di umanità».
Verdiana: «Per quanto mi riguarda, io lo vedo roseo. Perché è qualcosa di più grande di noi, che sa e ha saputo sopravvivere e vivere egregiamente anche in momenti storici più difficili e diversi. Penso però che ci sia bisogno di mettere le mani nello sporco e avere il coraggio di cambiarlo. In primis bisogna dare delle tutele vere ai lavoratori e alle lavoratrici dello spettacolo, non emergenziali, e fare sistema. Credo sia necessario sia un vero ragionamento sul significato e il ruolo del teatro. tanto a livello politico quanto sovrastrutturale».
Stefania: «Io penso che le cose cambieranno, perché alcuni e alcune di noi le stanno cambiando, ma sarà un processo lento. Ci sono già, e continueranno a esistere, isole di cambiamento. Siamo consapevoli di non essere del tutto fuori dal sistema, ma cerchiamo quando possibile di liberarcene: è necessario per esistere. La speranza è ribaltare questo sistema, scardinarlo e fondarne uno migliore. Vorrei inoltre che ci fosse una maggiore attenzione all’etica del lavoro: oltre a sperare negli aiuti insufficienti del ministero, c’è infatti bisogno che le compagnie, gli artisti e le imprese siano consapevoli del valore professionale ed economico che rappresentano. Si è per troppo tempo pensato che le cose importanti fossero le idee, ma non bastano».
Fiammetta: «Credo che ci sia un po’ un clima di paura dei singoli sia a fare le cose sia a farle nel modo che appartiene loro. Secondo me c’è bisogno di alzare un po’ l’asticella dei lavori, dello studio. Io non la trovo bassa, ma sento che è come se avessimo paura di fare le cose, o di dire le ciò che pensiamo. Ma, perché le cose cambino, c’è bisogno di fare rete».