Una negazione che infine afferma. Sul palco del Fabbrichino di Prato il testo di Checov è assente, a parte alcuni brevi accenni, ma il ritratto iconico del grande drammaturgo russo troneggia sullo sfondo, quasi minaccioso, in penombra. Il dramma delle tre sorelle Olga, Masha e Irina – che nello spettacolo con la regia di Enrico Baraldi Non tre sorelle-Ни три сестри viene più che annullato “messo in litote”, diminuito, spinto su uno sfondo che si vorrebbe soppresso ma che nondimeno persiste – è il dramma di Anfisa Lazebna, Yuliia Mykhalchuk e Nataliia Mykhalchuk, attrici e profughe ucraine che, per via della guerra in corso, non ne vogliono più sapere della “grande cultura russa”.
Eppure, questo spettacolo non nasce il 24 febbraio assieme all’invasione di Putin. Si tratta di un progetto di messa in scena che già aveva preso piede più di due anni fa e venne interrotto a causa della sopraggiunta emergenza pandemica. Lo raccontano, sempre sul palco, Susanna Acchiardi e Alice Conti che, al contrario delle “tre sorelle”, facevano parte del gruppo di lavoro originario. E, al contrario delle “tre sorelle”, avevano proprio voglia di “fare Checov”, di interpretare un classico. Ma intanto il mondo attorno è cambiato.
Le culture minori
C’è dunque l’esplicitazione di una doppia difficoltà. “Questo Checov non s’ha da fare”, verrebbe da dire: prima il Covid-19, poi il fatto che il ruolo della Russia e della sua eredità culturale è evidentemente cambiato nel nostro immaginario… Ma le intenzioni e i desideri iniziali non vengono completamente scartati, rimangono anzi come segno, calco, di ciò che non è potuto essere e (chissà) di quello che potrebbe essere in futuro. Non tre sorelle-Ни три сестри, che vede tra l’altro l’assistenza alla regia di Ermelinda Nasuto (anche dramaturg) e alla scrittura di Francesco Alberici, decide dunque di aggiungere un “non” al progetto originario e di raccontare il percorso di come si è arrivati a non mettere in scena il testo.
Sono le attrici stesse a farlo, mischiano verità e finzione, recitazione e biografia, freddezza conflittuale e accessi di sentimento. La scena, per come la si vede appena “alzato il sipario”, presenta essenziali rimandi al classico checoviano: un lungo praticabile costellato di tazze e tazzine da the, pronte per l’ingresso del samovar, e una tastiera elettronica, eco del pianoforte che nel testo originale viene suonato dalla malmaritata Mascha. Anche le tre attrici ucraine – che si sono unite al progetto di Baraldi attraverso il progetto “Stage4Ukraine” di Matteo Spiazzi – indossano costumi di scena, ma solo per poco. In breve, infatti, dismettono i panni del loro personaggio per intrecciarli con quelli della storia che le ha portate dall’Ucraina all’Italia: c’è il racconto della giornata che precede l’invasione, passata a provare in teatro a Kyiv fra incredulità, ironia e inquietudine; c’è l’incertezza delle prime settimane e la decisione di lasciare il paese; ci sono accenni e aneddoti a cosa è successo una volta fuggite e al rapporto che si è creato fra loro. Il tutto senza “drammatizzazione”, se non quella che già le vicende stesse recano con sé, e anzi con una leggerezza del dirsi che ha il sapore di malinconica consapevolezza ma anche di rabbia, forse in alcuni istanti di impotenza.
E c’è Checov, o per meglio dire ciò che Checov rappresenta in questo momento ovvero la Russia. «Come posso pronunciare la battuta “A Mosca! A Mosca!”?», si chiede una delle attrici. E prosegue: «L’unica città in cui vorrei tornare è Kyiv». Si crea un dibattito inscenato (una sorta di contest)in cui le protagoniste, anche quelle italiane, prendono a turno parola davanti a due microfoni per dire perché Checov sì o perché no. «Perché è un classico», «Perché secondo me è noioso», e così via. C’è una battuta che, nella sua crudezza, forse risuona più di altre: «Perché se metto su Instagram che ho recitato Checov qua in Italia, verrò criticata e mi sarà poi difficile lavorare in Ucraina». Non è solo un problema di sentire soggettivo, benché ampiamente condiviso. È anche una questione di contesto, sociale e politico, che va a toccare l’essenza profonda dell’arte scenica: quanto può dirsi e volersi distante il teatro – ritenuto, secondo retorica, una “arte universale” – da ciò che lo circonda, anche dalla più stretta attualità? Quanto dovrebbe, e non dovrebbe, lasciarsi influenzare dai dibattiti e dagli avvenimenti del presente? Domande che potrebbero suonare oziose e magari ambigue, eppure urgenti, se si pensa alle polemiche che pochi giorni dopo le serate pratesi di Non tre sorelle-Ни три сестри hanno interessato la prima della Scala a Milano col Boris Godunov…
Il conflitto in Ucraina è un conflitto che, più di altri, possiede una forte dimensione culturale. Da una parte, fra propaganda imperialista e cascami post-ideologici, il regime di Putin insiste infatti sull’inesistenza di una “identità ucraina” e anzi cerca di “russificare” i territori occupati militarmente a partire dall’imposizione linguistica e di una riscrittura della storia recente (e non). Dall’altra, la questione di una specifica cultura nazionale ha sempre rappresentato un interrogativo aperto per le comunità fra Lviv e Donetsk, che è passato attraverso repressioni brutali (come il cosiddetto “rinascimento fucilato” degli anni ‘20-’30 del secolo scorso), dibattiti intellettuali di riscoperta di una tradizione spesso negata (si veda per esempio la parabola del dissidente Ivan Dzjuba) fino alle accelerazioni, per certi versi ambigue ma assolutamente inevitabili e necessarie, del presente. «Per l’Ucraina la scelta è fra la non esistenza e un’esistenza che ti uccide, e tutto quanto ha a che fare con la nostra letteratura sfigata è semplicemente il pianto di una persona inchiodata al terreno dalla trave di un palazzo dopo un terremoto», diceva con poetico pessimismo la scrittrice Oksana Zabužko nel suo Sesso ucraino: istruzioni per l’uso, una delle opere più famose e dirompenti sull’identità culturale della repubblica post-sovietica…
Si tratta allora non solo di tenere presente il contesto in cui e da cui si parla, ma anche di adottare un punto di vista il più possibile interno e “subalterno” (nel senso positivo del termine) alle vicende. In questo senso, Non tre sorelle-Ни три сестри è anche un racconto che progressivamente “stringe” dall’afflato collettivo iniziale, che in fondo parlava dell’intero progetto e di tutta la compagnia attoriale, alla prospettiva delle tre attrici ucraine, per forza di cose protagoniste “assolute” della pièce che si chiude infatti con un dialogo teatrale delle tre, in ucraino e russo, sulla guerra del Donbass. Nonostante Susanna Acchiardi e Alice Conti dichiarino che avrebbero voluto mettere in scena il testo originale, non c’è vero e proprio conflitto: anzi, le due performer italiane più che contraddire accompagnano le loro omologhe ucraine, ora facendo da voce narrante ora “mettendo in sordina” lo specifico dei propri personaggi. In mezzo, Checov viene allontanato, discusso, vilipeso come icona: il suo ritratto imbrattato di vernice spray, le tazzine da the frantumate con una mazza gialla. Che sia in realtà un modo, antifrastico, per “salvarlo”? A proposito delle discussioni spesso molto accese (e molto spesso strumentalizzate in chiave anti-ucraina nel nostro paese) su quale debba essere l’attitudine dello stato e della comunità invasi verso la cultura e la lingua dell’aggressore, la ricercatrice femminista Irina Zherebkina ha affermato in un articolo: «Nella cultura russa, come in ogni cultura imperiale, oltre alla “grande” cultura dei “vincitori” c’è anche un tipo di cultura non trionfalista, non “grande”; in altre parole, c’è una cultura minore in senso deleuziano. […] Per sconfiggere il fascismo, l’Ucraina non dovrebbe battersi per diventare una Grande Cultura, il centro della cultura europea, dal momento che quello della Grande Cultura è un progetto imperiale che porta sempre con sé i germi del fascismo. La strategia veramente emancipatoria è la strategia decoloniale del divenire minori, eludendo le fantasie di grandezza coloniale». Torniamo quindi al “non” del titolo dello spettacolo, da intendersi forse più come litote che come annullamento, cancellazione: un modo, benché obliquo, per far diventare quello di Checov un teatro minore?
Classici al contrario
A un certo punto le pagine del copione vengono tritate in un distruggi documenti, in quella che è forse la scena più “precisa” e riassuntiva di Non tre sorelle-Ни три сестри. I rimasugli cartacei, estratti, sono poi sparati in aria da un ventilatore a simulare fiocchi invernali che rimandano alla battuta più famosa del testo originale: «Guarda la neve che cade. Qual è il senso?». Si tratta di una scena “riassuntiva” perché, nel suo essere esplicitamente artefatta (di una maniera peraltro artigianale e quasi giocosa), non solo continua a dissacrare e a mettere fra parentesi Checov, ma ha la capacità di spostare la domanda di senso dai grandi interrogativi mondani alla pratica teatrale. E nella sua evidente finzione, che abbandona ogni pretesa di naturalismo, risulta indubbiamente molto più vera, perché rispondente al sentire di chi sta sul palco.
Partendo da un “grande” classico, Non tre sorelle-Ни три сестри costruisce allora il contrario di un classico: uno spettacolo specifico, radicato, che vive del momento storico in cui viene messo in scena e che non ambisce a creare “memoria” ma, anzi, pare quasi mostrarci l’impossibilità di ogni sedimentazione emotiva, qui e ora. La neve che cade in fondo lascia spesso un manto bianco sulle strade, i brandelli di un copione invece spariscono presto dal palco: sta allo spettatore ricomporne l’ordine, misurare la distanza fra la realtà di ciò che ha visto e le rappresentazioni che di volta in volta se ne danno.
foto di Luca Del Pia
L'autore
-
Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.