Vi chiederei, per iniziare, una breve presentazione dello spettacolo [Gæp] Cos’è un gap? In che occasione nasce, come si sviluppa, come si inserisce nella linea artistica di Ateliersi.
Fiorenza Menni: Questo lavoro nasce in seguito a un input di Elena Di Gioia, che era rimasta molto colpita dalla presenza in scena di nostro figlio Marco Mochi Sismondi in Isola e sogna, uno spettacolo del 2015 sul linguaggio di Giusi Nicolini. Oltre ai musicisti, in scena con noi c’erano anche Marco e Giorgia, entrambi di nove anni. Elena ci ha proposto di lavorare sul tema della Resistenza in occasione della Festa della Liberazione coinvolgendo Marco, e noi abbiamo accettato. La prima sfida è stata quella di immaginare una drammaturgia che evitasse la retorica in cui si rischia di cadere nell’affrontare l’argomento e allo stesso tempo fosse in armonia con la libertà di un ragazzo.
Andrea Mochi Sismondi: Per questo, dal punto di vista drammaturgico ci è sembrato interessante partire da Il sentiero dei nidi di ragno, in cui Italo Calvino utilizza lo sguardo di un ragazzino – il monello Pin – per raccontare la Resistenza evitando due possibili retoriche: da un lato la versione agiografica dell’epopea resistenziale che la vedeva condotta solo da persone animate da una chiara e programmatica visione politica, dall’altro quella denigratrice che già nell’immediato dopoguerra prendeva piede. Per Calvino la composizione letteraria condotta attraverso il filtro degli occhi di un ragazzo è stata una chiave per rielaborare la sua esperienza personale di abbandono dell’antifascismo passivo e “borghese” per abbracciare l’antifascismo militante nella più traumatica realtà della montagna. Guardare alla dimensione umana della Resistenza attraverso gli occhi di un ragazzino è stato per noi lo strumento per affrontare il tema nella maniera più aderente all’esperienza reale di Marco. Con queste premesse, la scelta drammaturgica del gioco ci è sembrata la chiave giusta per mettere in contatto i contenuti sia con Marco, che con il pubblico, evitando qualsiasi eccesso retorico. Quello del gioco è infatti un contesto che un ragazzino conosce bene e all’interno del quale si può muovere con agio, e allo stesso tempo si tratta di una maniera per tenere lo spettatore incollato a frasi e immagini a lui comprensibili e da lui stesso riproposte nella dinamica ludica.
La scelta di coinvolgere un attore così giovane si accompagna ad un messaggio particolare?
Fiorenza: Sicuramente è una scelta legata al pensiero commovente che i partigiani stiano morendo per la loro età avanzata, in vita ci sono rimasti solo pochissimi di quelli che erano i giovani di allora. I racconti delle loro vite sono avvincenti, anche perché si tratta dello sguardo di ragazzi, lo sono proprio in virtù dello spirito che avevano al tempo dei fatti. Mio padre, il nonno di Marco, è stato partigiano da giovanissimo. La decisione è stata avvicinare questi racconti alla mente di un ragazzino, una persona all’inizio del percorso di costruzione di un suo proprio immaginario etico e politico. È proprio questa fascia di età – quella dei nipoti e pronipoti – che può accogliere storie vere sulle quali poter costruire un immaginario autonomo.
Andrea: il percorso è legato al nostro modo di costruire gli spettacoli, per noi ha senso lavorare in teatro se le opere che creiamo sono risultati di pezzi di vita vissuta in situazioni straordinarie. Per questo, così come è stato in Isola e sogna – in cui Marco è arrivato in scena dopo una residenza a Lampedusa, dopo aver visto il molo, gli scafi, le persone – anche la sua presenza in [Gæp] Cos’è un gap? rappresenta il risultato di un pezzo di vita condivisa. Il fatto che lui fosse con noi durante il processo di costruzione dello spettacolo ha dato senso al nostro fare.
Lo spettacolo si divide in due parti: un primo quadro narrativo, sulla scena vi è una famiglia che vive il clima drammatico della guerra, attraverso la messa in scena della paura generata dai bombardamenti e un secondo quadro, interamente dedicato a una particolare versione del gioco della tombola. A che cosa è dovuta tale strutturazione?
Fiorenza: la prima parte è necessaria per porre gli spettatori di fronte alla questione della Guerra di Liberazione, per farlo abbiamo costruito l’immagine di un quotidiano vicino a quella della famiglia di Italo Calvino (molto diversa da quella di Pin…). I genitori erano un agronomo e una botanica, la casa di fatto era uno studio, con un tavolo centrale sempre colmo di libri. Abbiamo voluto creare l’immagine di una famiglia che vive in città, perché i GAP agivano principalmente nei contesti urbani e per il rapporto che legava gli studenti gappisti alle abitazioni degli intellettuali dove venivano spesso prodotti quei volantini di propaganda clandestina che nel nostro spettacolo diventano le cartelle della tombola. L’attrice Eugenia Del Bue incarna proprio una di quelle staffette che nascondevano con frutta e ortaggi i volantini che portano nelle borse. Si tratta di dettagli del quotidiano dei partigiani che abbiamo condiviso con Marco e che abbiamo voluto inserire nello spettacolo.
Andrea: nella descrizione della Resistenza in città abbiamo voluto rendere la necessità dell’essere mimetici, irriconoscibili. In questo senso, riferimenti importanti sono stati Uomini e no di Elio Vittorini, alcuni personaggi di Roma città aperta e tante memorie di gappisti, staffette e combattenti partigiani.
L’effetto di questa scelta è duplice: da un lato genera angoscia il fatto che parole tanto crude e dolorose siano inserite in un meccanismo di gioco spettacolare. Dall’altro l’attenzione al gioco può far passare in secondo piano il significato delle parole, assorbendo chi guarda completamente nella partita…
Fiorenza: lo spettacolo è pensato in senso duplice, con l’interrogativo e l’apertura rispetto alla disponibilità o meno del pubblico di arrivare in fondo al gioco. Si tratta di una duplicità che ricerchiamo sempre, lavorando sulla realtà e su tematiche che sono importanti nell’attualità, perché le prospettive su uno stesso fatto sono sempre molteplici. È necessario per noi trovare una forma drammaturgica nella quale possiamo riconoscerci, ma allo stesso tempo muoverci in una dimensione di scomodità che mantenga vivo il dialogo. Il linguaggio drammaturgico serve proprio a questo. Durante l’ideazione dello spettacolo abbiamo scelto alcune direzioni, consapevoli del fatto che nel momento in cui questo sarebbe stato consegnato nelle mani del pubblico avrebbe assunto e avrebbe mostrato aspetti diversi, attraverso le azioni reali del gioco.
Andrea: nei nostri lavori c’è sempre il desiderio di evitare l’univocità della visione, la volontà di affrontare gli argomenti attraverso linguaggi inusuali, per creare uno spazio di movimento e autonomia.
Fiorenza: vogliamo evitare che “fili tutto liscio” e lineare, in questo spettacolo per esempio una persona potrebbe vincere il gioco pronunciando ad alta voce la frase “cento fascisti kaput”.
Andrea: decontestualizzare le parole e inserirle poi in un meccanismo di ripetizione permette loro di risuonare in modo netto: si trasformano in immagini elementari e semplici, rafforzate dai rimandi tra palco e platea nella loro intensità e nel loro significato.
Perché l’esigenza di pensare di coinvolgere il pubblico attivamente? Perché la scelta del gioco ed in particolare della tombola?
Fiorenza: la risposta può essere molto semplice: è un gioco che Marco ama molto, siamo partiti da questo elemento biografico per poi spostare il focus sul pubblico.
Andrea: è un gioco molto conosciuto, è popolare, viene usato spesso in occasione delle riunioni di comunità di diverso tipo e funge da ponte tra le generazioni. Ci sembrava interessante articolare i due poli dello spettacolo – quello legato alle vicende resistenziali e quello ludico – su due registri estremamente diversi. I racconti della Resistenza, poi sono costellati di momenti fondanti di pienezza e di gioia, di adesione al senso della vita. Ad esempio, nella raccolta di lettere Io sono l’ultimo sono raccontati dei momenti vivissimi dell’esperienza resistenziale, identificati dai partigiani come fondanti del valore che davano – e hanno poi continuato a dare – alla vita. C’erano dei momenti, anche durante i bombardamenti, in cui ci si ritrovava insieme e l’impeto vitale era spesso portato all’estremo dalla guerra. Ci interessava, dunque, introdurre un registro contrastante rispetto alla compattezza narrativa della sequenza iniziale, un registro necessario emotivamente per creare un aggancio con lo svolgimento ludico dello spettacolo, con quella parte dove il reale e il finzionale sono meno riconoscibili.
Qual è il futuro dello spettacolo? È destinato a rimanere legato al 25 aprile o verrà portato in scena in altre occasioni?
Andrea: abbiamo in programma già alcune date: le prossime sono il 13 luglio al Parco storico di Montesole, il 15 agosto al Teatro delle Ariette e il 12 settembre alle Serre dei Giardini Margherita in occasione dell’apertura del festival Resilienze.
Emma Pavan
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.