Casa di bambola di Ibsen, portata in scena al Teatro Duse mercoledì 28 febbraio dal Teatro Manzoni Pistoia, ha certamente un finale inaspettato. Sul palco, il regista Roberto Valerio nei panni di Torvald e Valentina Sperlì in quelli di Nora, accompagnati da Michele Nani, Massimo Grigò e Carlotta Viscovo. Il capolavoro di Ibsen, al suo debutto fortemente criticato ed etichettato come esempio di “femminismo estremo”, narra il dramma più profondamente interiore di Nora, moglie del ricco avvocato Torvald Helmer, madre di tre figli, esempio perfetto di figura femminile ottocentesca che s’inscrive e si identifica negli unici ruoli che la società le può riconoscere in quanto donna: quello di moglie e quello di madre. Ma quando le perturbazioni dal mondo esterno entrano prepotentemente in casa sconvolgendo il nucleo familiare, anche Nora apre gli occhi e in un’illuminante epifania, sconvolgente non solo per il personaggio ma anche per il pubblico dell’epoca, capisce di non essere stata nient’altro che una bambola, una marionetta nelle mani del marito, un’inconsapevole vittima delle asfissianti leggi morali vittoriane che le hanno sempre impedito di amare e di essere libera. Così Nora esce dalla casa, abbandonando per sempre il marito e i figli, per mettersi in cerca della sua vera identità. Roberto Valerio compie un chiaro tentativo di rivisitazione di Ibsen. Eliminati tutti gli “abbellimenti borghesi”, il dramma è ridotto alla sua essenzialità: lo dimostra la scenografia stessa, spoglia e asettica, che vede sullo sfondo una grande casa dall’aspetto onirico e deformato. I personaggi sembrano muoversi tra sonno e veglia, la realtà si fonde con le paure più profonde della protagonista. Più volte la figura di Krogstad, il procuratore che minaccia Nora, appare come uno spettro, come un incubo che prende vita sulla scena sotto forma di allucinazione. E ancora, nella celebre scena della tarantella la “bambola” del titolo prende vita, Nora diventa una vera e propria marionetta manovrata dal marito, in un momento sospeso nel tempo, un incubo tanto per i personaggi quanto per gli spettatori che assistono a questo non necessario ed estremamente didascalico teatrino alla We both reached for the gun di Chicago ma non altrettanto godibile. Ciò che non convince è proprio la resa dei personaggi: in un dramma moderno ottocentesco, che dovrebbe esplorare prima di tutto il pensiero dei suoi protagonisti, l’eccessiva enfasi gestuale, i cambiamenti di registro nella voce e le pose irrealistiche vanificano qualsiasi tentativo di analisi psicologica, rendendo i personaggi delle caricature, per non dire delle macchiette. Diventa così difficile, se non impossibile, riconoscersi in quelli che sono molto più simili a caratteri stereotipati che a persone. All’uscita dal teatro rimangono il senso d’angoscia trasmesso dal dramma, l’amarezza data dalla messa in scena e un dubbio dato dal finale “sospeso”. Ma, soprattutto, la voglia di riprendere in mano le opere di Ibsen.
Valeria Venturelli
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.