Immaginatevi un suono siderale con tutte le caratteristiche di un fischio ma con diversi toni più gravi perdersi tremolante nell’oscurità. Poco dopo fate entrare al centro dello spettro sonoro una voce femminile che inciampa su parole, lettere e vocali con un ritmo matematico, una successione aurea. Adesso la domanda che vi vorrei porre è questa: voi quando ascoltereste un brano del genere?
Xong non è semplicemente un catalogo di album curato dall’organizzazione culturale bolognese Xing, ma è un progetto artistico in divenire, in cui si prendono artisti con diverse estrazioni e percorsi e li si mettono di fronte allo «spazio del disco». Questo contesto, in cui agli artisti viene concesso un tempo condizionato dalla durata di un vinile (tutte tirature limitate, senza alcuna ambizione commerciale) non è certamente una novità in senso assoluto. Tuttavia, è il processo dietro questo avvicinamento che rende peculiare l’approccio di Xing e, di conseguenza, la riuscita dei congegni sonori. In una chiacchierata telefonica con Silvia Fanti, una delle fondatrici di Xing che ora dirige e coordina con Daniele Gasparinetti, è emersa l’urgenza di far confrontare gli artisti, che vengano dal mondo performativo visivo o dalla musica, con linguaggi ibridi e sperimentali in un ambiente predisposto a questo tipo di interazione. Un approccio morbido, facilitato dalla ricerca di una prossimità estetica e possibilmente anche dalla reciproca conoscenza, quasi un progetto in famiglia si potrebbe dire. Così nasce Curva Cieca Oblio ኩርቫዕውርምርሳዕ (XONG collection XX12, 2023) dall’incontro tra Muna Mussie e Massimo Carozzi, la prima attrice e performer che da diversi anni scandaglia i confini della performance dal vivo, il secondo musicista e sound designer che ha esplorato linguaggi teatrali, documentaristici e letterari, entrambi di stanza a Bologna e entrambi già con diverse collaborazioni alle spalle.
Curva Cieca Oblio ኩርቫዕውርምርሳዕ comincia con un lungo suono siderale (Cieca), prospettando un viaggio alla ricerca di segreti cosmici. I suoi angoli e spigoli vocali sembrano intendere una forma soggiacente al buio spaziale, come un’antica e dimenticata regola matematica che ne delinei ordinatamente la casualità. Gli stessi elementi formali ma dispersi e irriconoscibili, li troviamo nel lungo finale di Oblio, in cui la musica prende i colori del deserto, umanizzando ciò che prima sembrava alieno. La musica diventa ricorsiva, si mescolano voci e suoni e ritmo Tigrinya (danza tradizionale eritrea, che nello stile “quda” vede una coreografia circolare ritmata dal battere dei piedi dei danzatori), ci sono i campionamenti di una cerimonia copta che colorano di timbri caldi lo spazio sonoro, un luogo confortevole in cui stare, dove le regole sono riti e i riti generano miti. È un viaggio a ritroso, dal nero imperscrutabile del cielo fino ai suoni ancestrali che richiamano una memoria collettiva, un senso di riconoscimento rituale. Resta però valida la domanda iniziale, quando durante le nostre giornate così frenetiche e produttive, possiamo ritagliarci uno spazio per un ascolto così attivo, partecipato? Ed è su questo principio che si basa l’intero catalogo di Xong: il tempo e la relazione con esso.
Un oggetto, come un vinile, occupa uno spazio e un tempo ben precisi, che una volta acquistato si è disposti a impiegare nell’attività di ascoltarlo. Non è però questa una prospettiva retromaniaca, cioè un bisogno in parte elitista di possessione contro la frammentazione digitale (spesso gratuita almeno nell’ascolto in streaming, come nel caso di Bandcamp), ma una scelta consapevole: perché disperdere nel web un progetto già di per sé rivolto a un pubblico estremamente specializzato, quando lo si può invece impreziosire con booklet, edizioni con stampe particolari, poster personalizzati, cercando di premiare sia l’impegno economico che l’ascolto. Del rito dell’ascolto analogico oggi sopravvive certamente di una narrazione controversa. Buona parte delle maggiori innovazioni in campo musicale contemporaneo passano dalla fluidità del web, da file mp3 caricati su blog linkati in qualche thread su Reddit che rappresentano un’intera scena musicale, fino ad artisti di relativo successo tra i giovanissimi (come Cindy Lee) che pubblicano il loro album su YouTube, evitando i circuiti chiusi dello streaming commerciale. Questo atteggiamento però non è un rifuggire dal formato fisico in senso pregiudiziale. Per esempio l’attuale scena revival di dungeon synth passa attraverso il rinato mercato delle musicassette. Etichette indipendenti italiane come Heimat Der Katastrophe ne hanno fatto un elemento di riconoscibilità estetica fondamentale, in cui diventa parte integrante dell’esperienza dell’ascolto il supporto fisico, con le sue grafiche e i suoi rimandi (nel caso del dungeon synth spesso la dimensione estetica rievoca l’esperienza videoludica degli anni ’80 o ai libri game degli anni ’90). Xong è un esperimento che va in questa direzione, non pretende in alcun modo di raggiungere un pubblico amplio, ma anzi vuole valorizzare la sua fetta di appassionati con prodotti sempre nuovi e ambiziosi, con tutti i rischi del caso.
Non ha senso cercare di tracciare un genere o una scena per Xong, ma un approccio sì, e questo è l’attrazione per il fantasmagorico, la possibilità di «performare un luogo dove non c’è corpo», sempre dalle parole di Silvia Fanti. Se oggi la regola è determinare, confinare, definire i generi, gli approcci, i canoni e i sotto-canoni, costruire montagne di tag dalle quali risalire le radici dei generi, Xing preferisce decisamente agire nell’indefinito, cioè il luogo che precede il canone. Se il lavoro di Mussie e Carozzi tocca ambienti fortemente musicali prima ancora che performativi, dischi come quello di Alessandro Bosetti, FasFari (XX13, 2024) apparentemente partono dall’interpretazione vocale quasi in senso teatrale, pur rifuggendo in ogni modo dalla ricerca di significato. In una intervista rilasciata a Golem Bosetti parlando di FasFari descrive un lavoro «a-semantico» in cui ogni «piccolo frammento di senso è sempre dietro l’angolo, e qualsiasi piccolo frammento di voce, qualsiasi utterance, si porta sempre dietro un bagaglio, un piccolo zainetto di referenzialità». Proseguendo nell’analisi l’artista nota come durante l’ascolto «non riusciamo a fare a meno di chiederci: “ma cosa sta dicendo?”. Cerco di liberarmi del bagaglio, però so che non è mai completamente possibile». In ancora un altro campo dello spettro uditivo il primo disco del catalogo di Xong, il bellissimo incontro tra due realtà performative: Kinkaleri e Jacopo Benassi. Once More (XX01, 2021) è un rumore di fondo con inserti dialettici dal suono “punk”, sporco, che ricorda l’underground anni ‘90, in cui i contesti urbani si frammentano in vetri, pizzichi, echi, riverberi elettrici. Seguendo l’ordine cronologico delle uscite troviamo Lydia Mancinelli con un altro approccio ancora diverso e radicale. Il disco si apre con la sua voce che recita: «Lydia Mancinelli legge Marcello Maloberti», il tono è quello severo e autorevole della radio degli anni ‘60. «Il braccio del mare. L’uomo comanda, la donna decide. La terrà è il tavolo di Dio», senza alcuna inferenza sonora, senza alcun elemento drammaturgico se non la voce, che non flette mai, Mancinelli legge Marcello Maloberti con il piglio dell’attrice della compagnia di stanza alla stazione radiofonica, recuperando parole e sillabe come cercasse conchiglie sulla spiaggia (“Martellate. Scritti Fighi 1990-2020. Lydia Mancinelli Legge Marcello Maloberti”, XX02, 2021).
Questo spazio indefinito però raramente viene abitato dalla critica che non sia strettamente musicale. C’è un senso di categorizzazione aprioristica verso questi progetti, come se al di fuori di certi giardini semantici ci volessero peculiari specializzazioni per poter parlare di tali realtà. Alcuni dischi, in realtà fondamentali, in Italia tendenzialmente non sono nemmeno considerati musica underground in senso stretto. Un esempio è certamente Crollo Nervoso, spettacolo ormai divenuto un classico del teatro italiano e che segnò il passaggio tra gli anni ‘70 e gli ‘80 del Carrozzone, che già nel 1980 (anno d’esordio dello spettacolo) erano noti col nome di Magazzini Criminali. La pièce, per la regia di Federico Tiezzi, colpiva innanzitutto per il suo complesso scenico (frutto della collaborazione della compagnia fiorentina con Alighiero Boetti e lo Studio Alchimia di Alessandro Mendini), delimitato iconicamente da delle altissime veneziane che aprendosi o chiudendosi segnavano il passaggio da esterno a interno dei quattro quadri configurati dalla drammaturgia. Fondamentale per lo spettacolo la colonna sonora, non musica per lo spettacolo, ma fittizio nastro magnetico in cui rumori e suoni collimavano con la scena. Nel mezzo di questi scontri ballardiani emergevano Brian Eno, John Lennon, Bryan Gyson, John Hassel, David Byrne, Miles Davis, Billie Holiday, Robert Fripp. Non c’è dubbio che l’influenza di Eno e Byrne la facesse da padrona, in fondo lo stesso Sandro Lombardi ammise che molti dei brani comparsi nel disco pubblicato dalla Italian Records erano letteralmente stati «trafugati» dai due. Crollo Nervoso oggi viene spessissimo citato come album fondamentale di certa sperimentazione anni ’80, che abbraccia sì l’ambient e lo spoken word ma anche l’industrial per certi versi. In una recensione di un utente sull’aggregatore musicale Rate Your Music, Crollo Nervoso ne esce così: «Delightfully obnoxious, and just extremely fucking charming. Completely, almost comically so, littered with Brian Eno samples, it’s like if Blue Gene Tyranny and Robert Ashley became… Italian». Il teatro che attraversa l’audio è un teatro che sì perde la sua imperfezione di essere “dal vivo” ma al tempo stesso può allungare in modo indefinito la sedimentazione dei suoi linguaggi, venendo riscoperto sotto nuove sensibilità. Crollo Nervoso oggi è un classico, ma quando andò in scena non c’erano parole adeguate per definirlo in modo esaustivo.
Questi, almeno per me, sono termini in cui si muove il catalogo di Xong, sia nei momenti migliori sia in quegli esperimenti che risultano meno riusciti, che poco hanno da aggiungere a un immaginario audio che il teatro comunque sia conosce bene, anche se ne ha perso parte della memoria storica. Un lavoro che si pone nel mezzo delle cose, fuori dagli angoli che delimitano i confini formali che ci fanno sentire comodi quando approcciamo un prodotto musicale/performativo. In quel mezzo ci sta anche Oblio, la traccia che unisce le due parti così diverse di Curva Cieca Oblio ኩርቫዕውርምርሳዕ. Il pezzo è una sorta di mash-up di diversi musicisti e cantanti registrati separatamente, ricostruendoli poi successivamente facendo un lavoro di selezione e montando l’armonia (una vera e propria ricucitura, che fuori di metafora si esplica dall’uso di una macchina da cucito che si aggiunge alla trama ritmica). In questa sospensione in cui la parola “oblio” compare come melodia, lamento o ritmo, c’è di nuovo un rituale in corso. Cieca è l’origine della parola nel vuoto che precede tutto, Curva è il vuoto tra la parola e il senso che viene riconfigurato dal rito, Oblio invece è la realizzazione del rito, un canto ancestrale di accettazione dell’oblio da cui tutti veniamo e a cui tutti torneremo. Ecco, forse è questo il momento adatto per ascoltarlo.
L'autore
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Blogger, scrive di teatro per Altre Velocità e cura il blog di critica rock "Una volta ho suonato il sassofono". Ha condotto nel 2017 il podcast di musica underground Ubu Dance Party.