Il 15 febbraio ha debuttato al Teatro Comunale di Bologna Petruška di Virgilio Sieni, creazione per sei danzatori sulla celebre musica di Stravinsky. Il coreografo fiorentino nel marzo 2018 ha portato e porterà nel capoluogo emiliano altri due lavori: Il Cantico dei Cantici, all’Arena del Sole il 7 marzo, e il progetto realizzato con l’Accademia dell’arte del gesto Il mondo salvato dai Pulcinella, che verrà presentato nel Salone del Podestà a Palazzo Re Enzo il 31. Il nostro dialogo ha luogo in platea, sottovoce, mentre i danzatori si scaldano in palcoscenico prima dello spettacolo all’Arena.
Questa sera andrà in scena Il Cantico dei Cantici, che ha debuttato nel 2016 al Festival Aperto di Reggio Emilia. Non è la prima volta, tuttavia, che lei si rapporta al soggetto biblico e nel 1993 aveva presentato Cantico al Festival Oriente Occidente di Rovereto. Che cosa l’ha spinta a riconfrontarsi con lo stesso tema e che cosa l’aveva portata la prima volta verso questa fonte di ispirazione?
Il Cantico dei Cantici è una raccolta di frammenti orali attinti da voci mesopotamiche e quindi porta con sé un modo diverso e nuovo, nomade di esprimersi. Si tratta quasi di camminamenti che si rivolgono a una dimensione di tenuità, di sguardo verso l’altro, ma soprattutto a una dimensione di vicinanza e di tattilità. È un’ode che veicola un’idea di campo emotivo, magnetico, emozionale, che riguarda la vicinanza fra individui: mi interessava quindi pensare a uno spazio tattile, odoroso, che rinegozia tutte le qualità della luce. Penso al Cantico come “voce della danza” perché prolifera gesti, è come se un gesto non fosse mai determinato, finito, ma trovasse sempre delle nuove origini nel suo essere frammentato. Ho ripreso la stessa indagine per i medesimi motivi che mi ci avevano portato vent’anni fa.
A proposito della luce che ha menzionato, in scena utilizzate un tappeto circolare dorato. L’oro è presente più di una volta nel Cantico, si parla di «pendenti e spalliere d’oro», si legge «il suo corpo è oro, oro puro»…
Grazie agli artigiani fiorentini abbiamo usato nel tappeto la foglia d’oro vera e propria. L’oro è un materiale indistruttibile e mi pare che ben si addica al concetto di natura, se per natura si intende qualcosa che non è gerarchicamente dominato da una persona, ma al contrario un’entità condivisa da una moltitudine. L’oro inoltre ha la capacità di diffondere e di emanare luce, l’ho scelto anche perché mi permette di lavorare con delle gradazioni molto basse: per esempio la luce proveniente dall’alto che batte sull’oro e viene restituita come se sorgesse dal basso. Non è, però, un vero e proprio specchio, quanto più un riflesso che ricicla la luce attraverso un altro tipo di colore. Infine, l’oro è stato usato in vare civiltà nell’arte, per esempio dai bizantini, per i quali rimandava all’infinito e all’abisso, ed è qualcosa che comunque ha a che fare con l’ancestralità e con l’extra quotidiano.
La sua poetica spesso si concentra su una dimensione di corporeità essenziale o ancestrale. A livello coreografico come avviene questa ricerca?
Amo pensare il gesto come a una sequela di origini che danno vita a uno spostamento, come a un’idea del divenire. L’elemento ancestrale subentra nel momento in cui l’uomo porta l’attenzione a un contesto fatto di carne: sopraggiunge dunque una dimensione meditativa dove riemergono queste origini, avvicinandosi così a una dimensione che potremmo definire mistica, proprio perché extra quotidiana. Mi interessa indagare uno stadio in cui il danzatore, anche con difficoltà, riesce ad avvertire attraverso l’ascolto del movimento il nostro distribuirci per articolazioni, intese in questo caso come delle “bolle cosmiche” che portiamo in giro.
Passiamo invece all’azione coreografica che presenterà a Palazzo Re Enzo. Perché il mondo è salvato dai Pulcinella? Da cosa ci salvano?
In questo ballo bolognese anzitutto è evidente la citazione dal libro di Elsa Morante Il mondo salvato dai ragazzini. Pulcinella non è una maschera, ma è un’entità che ci mette in contatto con tutto quel che è altrove e ancestrale, ma è anche colui che tratta la vita come un’esplosione nella momentaneità, ci dice che la vita è presente e va vissuta nel momento. In questo senso specifico a me interessa molto la figura del Pulcinella. Il mondo è salvato dai Pulcinella perché Pulcinella riporta l’attenzione alla qualità del corpo, della carne, del gesto. Non a caso tutti gli interpreti (circa centotrenta cittadini di tutte le età, di tutte le professioni, di tutte le capacità) si stanno addestrando per portare a memoria delle azioni coreografiche; attraverso questa memoria non fanno altro che entrare in una sorta di azione meditativa del gesto, dove la ripetizione è uno scavo emotivo. Avere oltre cento persone che si stanno concentrando su un’azione significa comprendere di più l’oggi, e contrastare un presente caratterizzato dalla dispersività e raccontato spesso superficialmente, banalizzato. In questo senso i Pulcinella ci salvano.
Virgilio Sieni, Il mondo salvato dai Pulcinella
Pulcinella, però, è percepito dalla tradizione popolare soprattutto come una figura comica, anzi, tragicomica. Questo tratto è presente anche nel suo lavoro?
L’elemento comico nel Pulcinella è più che altro l’elemento giocoso. Pulcinella gioca continuamente, ma fa il gioco della vita, quindi è il condannato, ma allo stesso tempo anche il carnefice. È estremamente aperto a una visione ampia dello pneuma, a una visione quasi zen della vita, dello yin e dello yang, Pulcinella gioca per decostruire il senso della fissità, il gioco in effetti prima di tutto ci sospende dalla fissità. Il pubblico di questo ballo non vedrà uno spettacolo comico, ma persone che stanno giocando al gioco del gesto.
Ci può dire più nello specifico chi sono gli interpreti di questi progetti?
I protagonisti sono semplicemente i cittadini, e ovviamente ci sono dentro tutti i tipi di cittadini: dai danzatori, ai performer, agli architetti, ai disoccupati, ai bambini, ai pensionati, ai malati…
Un’ampia varietà dunque, non è complicato coordinare un gruppo così eterogeneo?
No, perché si tratta di comunità del gesto, io le chiamo così: sono persone che si ritrovano perché condividono il desiderio di mettersi alla prova dal punto di vista dell’attenzione portata al corpo e dunque contribuiscono a donare un senso rinnovato alla danza. La disponibilità di tempo mette insieme persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate, quindi i partecipanti non sono selezionati per capacità, ma a mio avviso è proprio questo il bello di un progetto così concepito. I gruppi che si costituiscono trovano nella dimensione della moltitudine una forma di arricchimento, un po’ come le piante, in cui vi sono tantissimi organi che si rigenerano continuamente e mantengono la pianta in vita.
di Marta Buggio
fotografia di Rocco Casaluci
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.