Quelle di Bassam Abou Diab sono testimonianze indirette, ma profondamente incisive. Al coreografo e danzatore libanese è stato di recente dedicato un focus nell’ambito della stagione capitolina di danza “Orbita”, in cui sono andati in scena due suoi spettacoli (Pina my love e Under the Flesh): storie di guerra e prigionia, trasfigurate in movimenti e parole allusivi e ironici, che fanno del corpo un vero e proprio “banco di prova” per situazione estreme.
Bassam indaga infatti delle condizioni in cui si è privati della propria libertà: il carcere, la tortura, i bombardamenti che hanno segnato e segnano sia la storia del suo paese che di tutta l’area mediorientale. Lo fa però cercando di riportare il tutto a una dimensione molto spesso intima, più biologica che biografica, alla verità custodita da ogni essere umano e dalle sue reazioni più spontanee. Lo abbiamo intervistato.
Da cosa traggono ispirazione i tuoi spettacoli?
«Ho cercato di analizzare i meccanismi di autodifesa che il corpo mette in atto quando ci si trova in situazioni di pericolo. In particolare, per Pina my love, mi sono rifatto a numerose testimonianze che mi giungevano dalle prigioni siriane, egiziane, libanesi o israeliane… Si tratta di condizioni molto pesanti in cui il corpo tende a bloccare determinate parti per proteggere tutto l’organismo, per preservare il respiro, il battito del cuore, ecc. Durante la performance cerco dunque di mettere in scena una tale dinamica, provando anche a capire quanto riesco a resistere come danzatore in questo meccanismo “innaturale”: si tratta di qualcosa che mi spinge facilmente verso i miei limiti, verso un punto di rottura con la mia fisicità, ma che allo stesso tempo mi costringe a trovare altre modalità di espressione e di movimento.
Più nello specifico, l’ispirazione per la perfomance mi è venuta quando sono venuto a sapere che un mio amico danzatore, un palestinese di Ramallah, era stato rinchiuso in prigione dalle forze israeliane senza alcun motivo concreto. Noi danzatori assegniamo un valore molto alto al corpo, al contatto fisico e alla possibilità di poterci muovere con libertà. Ma cosa succede quando veniamo privati di questa libertà? Come reagiamo a delle percosse? Che specifico “ritmo” si crea in conseguenza di un pugno o di una frustata? Si tratta di una domande che, purtroppo, hanno molto a che fare con la mia quotidianità: come cittadini e cittadine del medio oriente, quasi tutti i giorni corriamo il rischio di essere incarcerati senza motivo».
Cosa esprime il corpo in più delle parole?
«Penso che in un certo senso il corpo possa rivelarsi più onesto delle parole, più autentico. Molto banalmente, il corpo è qualcosa di cui ogni individuo fa esperienza prima delle parole, e possiede una connessione in un certo senso più profonda, più “organica”, con la vita umana. La comunicazione verbale e linguistica è qualcosa che si sviluppa in un secondo momento.
Inoltre, è vero che possiamo esprimerci attraverso le parole ma queste pongono dei limiti: le differenti lingue del mondo, le accezioni specifiche dei diversi termini che non sono sempre traducibili, ecc. Al contrario, il linguaggio del corpo è più universale e, pertanto, consente di creare dei legami più forti fra gli esseri umani. In quanto artista proveniente dal medio oriente, da quello che può essere considerato un paese arabo, utilizzare immagini e movimenti corporei mi dà l’impressione di avere una maggiore apertura verso il pubblico».
In questo senso, la musica di accompagnamento rappresenta un elemento importante dei tuoi spettacoli…
«La maggior parte dei miei lavori è profondamente influenzata dall’area geografica in cui vivo e dal contesto sociale da cui provengo. I suoni della natura così come quelli dell’ambiente urbano che ho attorno entrano spesso a far parte delle mie perfomance. Utilizzo il più delle volte strumenti musicali della tradizione araba, magari suonati in modo contemporaneo, ma sempre cercando di vedere l’elemento sonoro non come un “accompagnamento” bensì come un riferimento all’esperienza quotidiana, alla “voce” delle città e delle persone del paese in cui vivo.
Insomma, non mi interessa la prospettiva della musica in quanto musica: cerco di trattarla come se fosse un linguaggio ulteriore».
Affermi spesso che la danza per te è anche espressione politica…
«Opero in un contesto in cui la dimensione politica è qualcosa che ha un peso molto forte nelle nostre vite, le influenza e quasi le “controlla”. Come cittadino, come essere umano, sento il dovere di essere attivo e penso che reagire e confrontarsi con questa dimensione sia necessario. Ciò che posso fare è dunque ciò che so fare: danzare, occuparmi di coreografia è il mio modo di essere attivo anche politicamente. Mi consente di parlare della situazione che ho intorno, di esprimere delle opinioni a riguardo, di costruire dei ponti fra l’interno – il modo in cui io vivo e vedo la situazione politica del mio paese – e l’esterno – il pubblico, magari di un’altra nazione.
Lo vedo anche come un compito puramente informativo. Molto spesso, da fuori, si vede aolo ciò che succede in superficie, le azioni dei governi e il piano diplomatico delle relazioni fra stati, ma si presta poca attenzione al vissuto delle popolazioni. In questo senso, credo che praticare la danza, educare il proprio corpo al movimento, costituisca anche un esercizio per la mente: ti rende più aperto, più capace di comunicare all’esterno. Nella nostra situazione, ci troviamo sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte della religione, dai tabù sociali, dalla propaganda governativa, ecc. Ecco allora che un’arte come la danza può giocare un ruolo fondamentale».
In che modo?
«A Beirut organizzo corsi e laboratori di danza, in cui cerco il più possibile di invitare coreografi e artisti dall’estero. Credo che, attraverso esperienze come questa, le persone che partecipano abbiano la possibilità di aprirsi e di comprendere più profondamente la situazione politica in cui si trovano. Mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché sono generalmente più ricettivi e il contatto con la danza e l’arte ha su di loro un impatto maggiore, ma è chiaro che non pongo alcun limite di sorta.
L’obiettivo, anzi, è quello di rendere la pratica del teatro e della danza quanto più diffusi nella società, mostrare che esiste anche questo tipo di esperienza. Nella tradizione del Libano e del medio oriente in generale esistono numerosi rituali che coinvolgo il corpo e il movimento (penso, anche banalmente, alle feste di matrimonio…). Allo stesso tempo, soprattutto per via della religione, sussistono numerosi tabù sul corpo. Ecco perché penso che sia assolutamente necessaria un’educazione alla danza: uno strumento di connessione più profonda col proprio corpo, che faccia del movimento non solo un mezzo di intrattenimento ma un vero e proprio linguaggio capace di esprimere opinioni, anche in senso politico».
Il governo è attento a quanto accade in campo artistico? Cerca di esercitare un controllo?
«In Libano il governo presta pochissima attenzione alla sfera culturale. Questo è vero non solo per il teatro o la danza ma anche per lo spazio urbano, tanto per fare un esempio: abbiamo un patrimonio architettonico molto ricco che non viene adeguatamente tutelato. Allo stesso tempo, però, tenta – non so dire se in maniera conscia o inconscia – di sostenere lo sviluppo di una cultura più superficiale, di puro intrattenimento. Per me è una sorta di lavaggio del cervello, fatto anche con mezzi teatrali.
Al di là di ciò, comunque, fondi e finanziamenti scarseggiano. A questo, attualmente, va aggiunta la crisi economica che sta colpendo il paese ma in generale il sostegno che arriva dal Ministero della Cultura va tendenzialmente a beneficio di opere molto commerciali o verso progetti che presentano un alto grado di corruzione. Per chi vuole fare arte non commerciale o in maniera indipendente, dunque, è necessario lottare ogni giorno per ottenere una qualche forma di finanziamento. Questo significa molto spesso – è il mio caso – costruire relazione con istitutizioni straniere per poter sopravvivere artisticamente: lavoro da vent’anni in questo campo e ancora oggi non ricevo alcun sostegno da parte di enti libanesi».
Questo influisce anche sulle poetiche?
«Da un certo punto di vista è paradossale: come dicevo in precedenza, danza e movimento tradizionali rappresentano modalità di espressione molto diffuse fra la popolazione. Tutti sanno ballare la dabka, per esempio. Io stesso utilizzo queste forme nei miei spettacoli ma, allo stesso tempo, non esistono programmi o fondi governativi per tutelarle e conservale. Non esiste, per esempio, alcun progetto di archivio per queste tradizioni. In generale, manca proprio una visione culturale a lungo termine che rende più difficoltosa l’attività di artisti e coreografi in tutto il paese».
L'autore
-
Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.