Questa intervista fa parte dell’Osservatorio sulle arti infette, un progetto realizzato nell’ambito del Laboratorio avanzato di giornalismo culturale e narrazione transmediale organizzato da Altre Velocità: si tratta di una serie di conversazioni che le partecipanti al laboratorio hanno condotto con artisti, operatori e studiosi per indagare i mutamenti e le difficoltà del teatro rispetto alle conseguenze della pandemia del Covid-19.
Per introdurre Pietro Babina è bene non prescindere dal concetto di mesmerismo. Se per l’antica scienza medica le cause e le cure ai disturbi erano da ricercarsi nel miasma dell’universo, per Mesmer il dolore trovava la sua imputabilità al blocco di un fluido corporeo: la forza magnetica. Mesmerica si potrebbe definire, in sostanza, la teatrografia di Babina: magnetico il suo rapporto con i liquidi, scabrosa la sua ricerca sulla corporeità, franca la sua violenza quanto la sua poesia. Perché abbiamo scelto di intervistare Pietro in un momento in cui il teatro si fa a porte chiuse e davanti uno schermo? Perché disossa il blocco che ostruisce il fluido magnetico e organico del teatro attuale, facendolo emergere nella maniera in cui nasce, muore e si trasforma. Babina non ha bisogno di servirsi di nessun imbellettamento per parlare di streaming: ci introduce anzi nelle sue fondamenta artistiche e le utilizza per analizzare la situazione attuale.
[question]Qual è la condizione dei lavoratori dello spettacolo in questo periodo e come la stai vivendo?[/question]
[answer]«La situazione attuale è catastrofica: dietro le quinte ci si sta organizzando per ribadire lo status quo, mentre c’è gente che non sa come sopravvivere. Si ripetono sempre le stesse dinamiche interne: i direttori dei teatri pubblici non si stanno attivando per aiutare i lavoratori dello spettacolo, bensì per portare avanti la stessa politica autoreferenziale che hanno sempre avuto. Per giustificarsi si continua a usare la retorica degli artisti che non sono coesi tra loro, ed è anche vero, però i diritti restano sempre dei diritti. Non è giusto quindi che li si debba avere esclusivamente se si è in grado di confliggere col sistema, almeno in una società che si definisce democratica. La maggioranza degli artisti che non fanno parte delle strutture sono tagliati fuori dagli aiuti, nonostante tutti i discorsi che si sentono fare in radio o su altri media. I teatri pubblici si sono chiusi su se stessi, mentre sarebbe loro dovere, poiché usufruiscono di fondi pubblici, occuparsi di tutto ciò».[/answer]
[question]Il teatro online potrebbe essere una svolta o la consideri una soluzione temporanea?[/question]
[answer]«Il teatro è una delle più antiche pratiche dell’essere umano. Non è pensabile che l’uomo sopravviva a quanto sta accadendo e che continui a fare teatro online. Oggi gli artisti cercano in questo modo di dare solo dei “contenuti”. Se questa situazione dovesse perdurare, si verrà a creare, anche nello streaming, una spaccatura importante tra una mera resistenza di un artista chiuso dentro una stanza con una webcam contro i grossi teatri e le loro costose attrezzature. Col tempo, solo chi se lo potrà permettere potrà creare contenuti di un certo livello. Chi ha fatto streaming da casa ha lavorato low tech e gratuitamente, ma in questo modo rischia di tramutare la resistenza in svalutazione della professione artistica. Per come viene affrontato ad oggi, il teatro online può essere solo una soluzione temporanea; assomiglia a quelle foto-ricordo che gli emigranti inviano da una terra lontana: le si guarda per accertarsi che siano vivi, sempre che ancora lo siano. Lo streaming fatto in casa come sostituto del teatro non funziona, e non siamo neppure in una situazione politico-intellettuale pronta per questa svolta».[/answer]
[question]Dal punto di vista del linguaggio, nel momento in cui ti devi approcciare a un pubblico online, che cosa cambia nella progettazione e nel tipo di scrittura?[/question]
[answer]«Io vedo che non ci si pone una questione di linguaggio. Per fare un paragone con il cinema: all’inizio il regista riprendeva lo spazio come una scena teatrale, poi si è capito che il cinema, in quanto media, richiedeva di sviluppare un linguaggio specifico. Tornando al teatro online, quello che si sta facendo ora nella maggior parte dei casi non è che la trasposizione di un qualcosa che è nato per un altro ambito e per non perderlo, o per dire che non è scomparso dalla faccia della terra, lo si “riprende”. Nel progetto ECO ragionavo proprio sulle caratteristiche dell’online e su come queste abbiano specifiche richieste di linguaggio. In questo momento tutta la questione mi pare livellata alla semplice natura delle tecnologie in campo».[/answer]
[question]Parteciperai a “La Parola Soffiata”, progetto di letture sonore prodotto da Agorà. Come cambiano in questo momento, secondo te, le interazioni nei confronti del pubblico?[/question]
[answer]«Per “La Parola Soffiata” cercherò di lavorare tenendo conto particolarmente del “contenitore”: vorrei costruire qualcosa che non dia l’impressione di esser stata concepita per un altro contesto. Proverò, sperando di farcela, a sfruttare quel contenitore per la sua specifica semantica, per dare allo spettatore l’impressione di ascoltare un’opera creata per quel determinato contesto, per quel determinato media. L’importante per me è provarci, problematizzare. Se si pensa di proseguire anche dopo questo momento specifico, si deve iniziare a fare qualcosa ad hoc per lo streaming. Solo così una forzatura può trasformarsi in un’opportunità, in una scoperta. Per ora il teatro online a livello linguistico è povero, è uno scimmiottamento del televisivo. Se si volesse fare il “Netflix del teatro” (come qualcuno con faciloneria auspica), bisognerebbe comunque pensare a dei prodotti – perché tali sarebbero – specifici, e tecnologicamente parlando, di alta qualità. Il pubblico di oggi è abituato a prodotti raffinati e ben confezionati. Sarebbe impossibile tenerlo attaccato allo schermo davanti a creazioni povere sia sul piano tecnico che su quello linguistico e di invenzione».[/answer]
[question]Ancora prima della pandemia, in altri paesi europei si facevano esperimenti di teatro online. In Italia invece questo è ancora un argomento nuovo, conosciuto poco e sperimentato da una piccola parte di realtà artistiche. Secondo te dove siamo carenti e in che cosa possiamo migliorare?[/question]
[answer]«Noi non siamo indietro perché siamo dei sottosviluppati o perché non ci sono le persone intelligenti o preparate sul tema. Ci si dovrebbe interrogare sul perché un’istituzione, come per esempio quella universitaria, ancora insegni ai ragazzi come forme di avanguardia teatrale il Living Theatre o Eugenio Barba, senza togliere nulla al valore di questi artisti. Molte altre cose sono accadute da allora, per esempio gli anni novanta, quando sono state compiute molte ricerche sul rapporto tra teatro e tecnologie. Questi risultati sono andati perduti o comunque mai sufficientemente valorizzati, dando l’impressione che tutto sia avvenuto e avvenga solo all’estero.
Appariamo indietro perché le principali istituzioni non sostengono l’arte viva, quella che si confronta col linguaggio che muta, o guardano alle novità con inspiegabile diffidenza. Il teatro è specchio del mondo, quindi mi devo occupare di tutte le dinamiche che lo modificano e anche della tecnologia, perché la tecnologia fa parte del mondo oggi più che mai e devo per forza prenderla in considerazione. Oggi, come regista e ideatore di spettacoli, oltre alle maestranze che siamo ormai abituati a considerare indispensabili, avrei bisogno di avere al mio fianco un programmatore che sappia produrre software specifici, una figura indispensabile se si vuole parlare di nuove tecnologie nel teatro.
Terminato il lockdown di primavera, ho visitato gli Uffizi semivuoti dopo molto tempo. Una cosa che appare estremamente evidente, osservando la storia della pittura contenuta in quel luogo, è che gli argomenti e i contenuti sono sempre i medesimi: si ripetono quasi inalterati, è il linguaggio della pittura che si evolve. Gli artisti percepivano che la società cambiava, così come le tecniche, inseguendo i mutamenti. Cercavano altri modi per parlare, per rappresentare un medesimo argomento, che spesso veniva indicato da un committente. Quindi il problema qual è? È come “parli”. Questo è fare arte, niente di più».[/answer]
L'autore
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Si laurea al Dams con una tesi sul sacrificio dell'essere al mondo. Arde per il teatro, si interessa di subcultura punk, iconografia cristiana e ha intrapreso una collaborazione a un progetto zooantropologico.
Una risposta
Intervista coinvolgente per chi spera di ritornare a teatro come me spettatrice:il paragone con la foto ricordo di un morto mi trasmette inquietudine ma proprio per questo nulla di più calzante. Per il “tempo” che abbiamo vissuto e per il “tempo” che verrà. Una sosta “obbligata” quella stiamo vivendo. Spesso mi fa riflettere su un non spontaneo cambiamento, sul linguaggio che cambia e sulla comunicazione che-quasi incosapevolmente-si adatta, anche a nostra insaputa, a tutte le sfumature. Si adatta! A me piace leggere. A me piace l’odore della carta stampata… Dei libri… perché quell’odore mi trasmette l’emozione di chi si è dedicato a raccontarsi e a raccontare.Così come accade quando sono spettatrice “in presenza” e non “in remoto” (I nuovi vocaboli che decidono se sei “vivo” o “morto” per me) di uno spettacolo a teatro: l’odore del palcoscenico è insostituibile. E’ certo che in ogni situazione è importante “come parli”…. Ma certi linguaggi non possono cambiare insieme a tutti i loro contesti.
Lunga vita al Teatro e che si possa ritornare a riempirLi !
Questa intervista ci fa sperare… qualunque sia il linguaggio che andremo ad utilizzare.
Grazie