Questo articolo fa parte della rubrica “Nostra patria è il mondo intero. Segnali di ri-generazione (o degenerazione)”, che guarda alle realtà cresciute nel nostro secolo, artisti trentenni e quarantenni di cui ci interessa comprendere meglio gli elementi di cambiamento e di rottura. E soprattutto le contraddizioni che rappresentano.
Interrogare le intersezioni fra teatro e autobiografia è come porre una domanda diretta alla sostanza stessa del teatro; eppure, il margine fra vita e arte ci pare oggi particolarmente denso di possibilità, capace forse di diventare esso stesso “discorso” da condividere, domanda di lavoro ma anche racconto aperto, onesto, che si consegna con semplicità a chi guarda o ascolta. La scorsa estate Drodesera Festival ha costruito parte della sua programmazione invitando lavori che affrontano questioni affini, in particolare due spettacoli dai tratti autobiografici del franco-marocchino Mohamed El Kathib e del libanese Rabih Mroué. Prima di discutere di Finir en beautée e di Riding on a cloud proviamo però a rimettere in circolo alcune domande attorno al legame fra creazione artistica e autobiografia.
Non da ieri si parla di attori in prima persona, una formula coniata da Bernard Dort alle fine degli anni ’70 e ripresa per esempio da Marco De Marinis in un saggio contenuto nel volume Il teatro dopo l’età d’oro. La base di lavoro dell’attore si sarebbe spostata dalla letteratura alla biografia, dal personaggio alla vita quotidiana nelle sue mille sfaccettature. Questo spostamento ha un andamento tutto teatrale nello sviluppo dei linguaggi del novecento, tornando per esempio all’evoluzione della recitazione, dal come se di Stanislavskij al corpo-memoria di Grotowski, attraversando in Italia almeno le ricerche fra incorporazione della tradizione e proposizioni autoriali di Leo De Berardinis e Carmelo Bene fino alla disgregazione della rappresentazione, all’esserci dei primi Teatri Novanta; dall’altro lato, però, tale spostamento non può che essere letto alla luce dei sommovimenti delle arti in generale, in particolare pensando alla letteratura, all’ibridazione fra generi e “punti di vista” che ha preso il nome di non-fiction, o di autofiction per restare in un ambito meno giornalistico. Sulla questione si può leggere l’ormai “classico” saggio di Carlo Mazza Galanti su Minimaetmoralia, una disamina di procedimenti formali improntati a un «egostismo autobiografico» in cerca però di un nuovo senso, di smarginamenti non autocompiaciuti e capaci di produrre nuove forme, nuovi dispositivi di conoscenza.
Certamente il teatro è stato attraversato da tutto questo, a volte anticipando i tempi. Pensiamo, in Italia, all’autobiografia collettiva in forma di invettiva di Babilonia Teatri, ai ritratti performativi generazionali di Sotterraneo, al carotaggio dell’immaginario contemporaneo di certi lavori di Cosmesi; l’autobiografia è divenuta strumento della scrittura scenica come via per la credibilità, cercando di passare dall’io al noi come nel caso del Teatro delle Ariette, o al contrario strutturando il racconto di sé nella negazione della propria biografia, in vista di slanci immaginali («Vorrei essere ancora meno di quello che vi aspettate», diceva Armando Punzo nel suo Pinocchio, 2008). O ancora via d’accesso apparentemente non mediata all’emotività e alla commozione, con tutti i rischi del caso, per esempio nei lavori di Pippo Delbono.
Spostando lo sguardo sul panorama internazionale, almeno quello che siamo riusciti a intercettare in questi anni in Italia e in qualche festival straniero, la sensazione è di essere in presenza di un ragionamento già di per sé contaminato, dove le forme della rappresentazione teatrale tradizionali (il personaggio, la drammaturgia ecc) hanno da tempo ceduto il passo a racconti performativi impastati di diversi procedimenti: dalla diaristica al giornalismo, dal cinema al video usato in funzione drammaturgica. In questo senso l’autobiografia è diventata un naturale procedimento, uno strumento al servizio del racconto, un “patto” (Lejeune) stipulato fra attore e spettatore; autobiografia dunque come “lente”, punto di osservazione la cui sostanza si presenta immediatamente come non neutra, “non innocente”, ma che al contrario ci invita a una disamina di ciò che si sta guardando. Come Walter Siti nell’ormai celebre incipit di Troppi Paradisi («Mi chiamo Walter Siti, come tutti», 2006), in molti lavori teatrali recenti per prima cosa è necessario non dare per scontata l’identità del performer o dell’attore: «Questa storia è autobiografica, quindi nulla è reale. Si tratta di una storia reale raccontata da menzogne», si ascoltava per esempio nel bellissimo The Story of My Life di Macarena Recuerda Shepherd, uno spettacolo passato qualche anno fa al Festival di Terni e non adeguatamente emerso nelle cronache italiane; ma molti altri possono essere gli esempi, dalla storia collettiva e personale che incrocia nei cileni La Resentida all’Egitto post-rivoluzionario raccontato dai personaggi Ahmed El Attar o alla Tunisia del presente ritratta dal collettivo Corps Citoyen, esempi di un teatro fortemente autobiografico (al punto che attore diventa anche sinonimo di “persona che protesta” nelle primavere arabe) ma che al contempo impone di discutere radicalmente i contorni dell’identità di chi parla sulla scena. Chi sta parlando, là sul palco? E come si è guadagnato il “diritto” di occupare quel luogo? Si sono vissuti direttamente i fatti di cui si sta parlando? E altre domande simili, qui volutamente estratte da lavori di compagnie in parte esterne al grande circuito dei festival internazionali e alla loro codificazioni. Perché, senza dubbio, tale modo autobiografico sta già correndo il rischio di diventare stilema, in una sovrapposizione di piani e identità che rischia di divenire “cifra” di comodo, linguaggio riconosciuto nel circuito del teatro europeo. Vale dunque la pena chiedersi: quando e come tale sovrapposizione produce un nuovo senso a livello teatrale e performativo?
Alla scorsa edizione del festival di Dro, titolata World Breakers e recante in copertina un gruppetto di ragazzi un po’ punk un po’ emo, accattivanti ma al tempo stesso disturbanti, giovani e non rassicuranti, una delle serate del primo weekend ha intercettato tale domanda, facendo in qualche modo il punto, fotografando uno stato dell’arte. Dopo l’inteso, stralunato, iperrealistico La mélancolie des dragons di Philippe Quesne, la serata procedeva con due lavori dal taglio direttamente auotobiografico. In Finir en beauté di Mohamed El Khatib, autore e attore definito la «rivelazione del festival di Avignone 2015», assistiamo a un racconto di un uomo che sta in piedi di fronte a noi, ci parla come se fossimo nel suo salotto e narra gli ultimi giorni di vita di sua madre, colpita da una malattia non curabile. Udiamo la voce della donna quando apprende dai medici che le cure sono solo palliative, mentre in uno schermo sul fondo si nota l’assenza di qualunque immagine, uno schermo nero che evita di rappresentare. Le considerazioni durante gli accadimenti si alternano alla presenza e al parlare “qui e ora” del performer, in un tessuto di frammenti dove tutto si sovrappone: l’uomo di fronte alla morte, il figlio con la madre, l’artista alla prese con l’elaborazione artistica e del lutto. Nonostante il ricercato distacco, appena ascoltiamo la melodia della cerimonia funebre siamo trasportati di fronte al mistero di una fine. L’autobiografia diventa qui strategia per approssimarsi a una credibilità ma nel nel contempo serve paradossalmente per sottrarsi dalla narrazione. Non importa più che cosa abbia provato El Khatib, al centro c’è il mistero che ci riguarda tutti, pur raggiunto attraverso una sola persona, una visione, un racconto autobiografico.
«Questa è la mia storia vera, eppure questi non sono i miei pensieri». In Riding on a cloud di Rabih Mroué la scena è pressoché spoglia, occupata da un tavolino e da uno schermo sul fondo. Un uomo siede al tavolo, le sue azioni consistono nel togliere un dvd dalla sua custodia, premere il tasto play di un lettore, al termine espellere il dvd e inserirne uno nuovo. E così via finché non avrà terminato la pila di custodie ordinatamente riposte su un lato. Quell’uomo è Yasser Mroué, fratello del noto regista, videoartista, performer, cineasta libanese. Mroué ha chiesto al fratello di recitare se stesso, raccontando la sua storia. S’inizia con frammenti di video che riportano all’infanzia, alla scuola materna (vediamo i registri di classe e i numeri dei voti). Quelle che sembrano due figurine scorrono sullo schermo, sono in realtà fotografie d’epoca: l’uomo si è sposato. Capiamo che nel suo corpo qualcosa non va, i suoi movimenti sono impacciati, un braccio pare inerte. Ai frammenti si alternano riflessioni in tempo reale, nell’idea che la memoria sia un archivio da riattivare. Lentamente la vicenda si svela, Yasser racconta dell’assassinio di suo nonno e di un proiettile che nello stesso giorno lo ha raggiunto mentre era in strada, paralizzando una parte del suo corpo. Le riprese video sono diventate supporti per tenere in vita il ricordo; l’attore riflette sulla Storia, su «i prima e i dopo» (il Muro di Berlino, la Primavera Araba, la ritirata di Israele dal Libano). Dai frammenti, dai lacerti, gradualmente il ricordo si allarga, fino ad abbracciare pezzetti di storia collettiva, quella di un paese e con le sue ferite, i cecchini, le proteste, le guerre, la repressione.
Lo statuto della realtà, il suo “indebolimento” per via di un’esperienza sempre più mediata è al centro dei lavori dell’artista libanese. Nel 2010 in Italia si era già visto Photoromance, spettacolo nel quale con la sua compagna Lina Saneh ricostruiva “una giornata particolare” nel suo paese paragonandola a una frammento di vita nel regime fascista italiano, lavoro coprodotto dal Festival delle Colline Torinesi (realtà che aveva ospitato i suoi spettacoli già dal 2007) e visto da chi scrive al festival di Santarcangelo. I suoi lavori recenti discutono tali nodi, come la lecture/performance The Pixalated Revolution(2012), dove si analizza il gradiente di “rappresentazione” dei conflitti a fuoco nella guerra siriana, presentata anche come installazione a Documenta di Kassel. In questo caso si invitavano gli avventori a scorrere dei piccoli flipbook con immagini di guerra, ottenuti con fotografie di frame di video di Youtube. Le pagine lasciavano però delle tracce sulle dita, di fatto “sporcando le mani” a chiunque.
Il taglio autobiografico di Mroué pone alcune dirette domande al teatro, pensando a una “disinvoltura” del racconto che in realtà i teatranti raggiungono solo liberandosi di un bagaglio di tecniche apprese. Questo anche in virtù di una tradizione araba nella quale è il narratore colui che racconta per intero la realtà, mentre l’attore ne potrebbe dare solo una versione “mutilata” (lo raccontava in una nota a fondo pagina Tahar Lamri in questa intervista). Il lavoro di Mroué, dunque, non può essere del tutto inserito in uno sviluppo diacronico delle arti sceniche, come avevamo accennato all’inizio di questo articolo. Il suo percorso mostra di dare per assodate certe acquisizioni delle arti contemporanee, come la coincidenza di piani fra autore ed esecutore, l’indebolimento di qualunque istanza di rappresentazione, la “fame di realtà” che eleva a materiale creativo dati biografici o autobiografici ecc. Nonostante questo il suo punto d’arrivo sembra recuperare tensioni e obiettivi prettamente teatrali, quelli di tutti i maestri riformatori della scena del ‘900, nella loro tensione a rintracciare sulla scena non il personaggio, non l’attore ma l’uomo e dunque e la vita. Quelle tensioni che portarono spesso a una “fuoriuscita” dal teatro si riconnettono dunque ai ritrovamenti dell’arte contemporanea, o almeno ad alcune sue istanze qui declinate nel lavoro di Rabih Mroué. Sarebbe dunque molto utile che il teatro ne tenesse conto, dandole per acquisite una volta per tutte. Almeno quel parlare di sé come preludio per arrivare a un “noi”, nel caso specifico usando il privato solo come varco d’accesso, come soglia per arrivare a discorsi pubblici, leggi la Storia; la fuga da ogni autocompiacimento, facendo attenzione a non caricare la narrazione di dettagli morbosi compassionevoli e narcisistici, sicuro ostacolo se si ambisce a raccontare la storia collettiva; infine la componente di autoriflessività del linguaggio, ormai diventata conditio sine qua non per tentare un discorso teatrale credibile, ma che allo stesso tempo non si risolve nel mero racconto dello smontaggio dei propri mezzi.
foto di Sommerszene e Bernhard Mueller
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.