Fra le righe della programmazione di un festival dovrebbe leggersi il modo in cui il teatro sta provando a raccontare questi anni. Fra narcisismi sfrenati, post-realtà e una Storia spesso relegata negli interstizi, ci si chiede cosa stia facendo il teatro per produrre narrazioni alternative, nelle quali intravedere una “differenza”, una messa in discussione dello spirito dei tempi. La struttura che assume un festival, la sua “geografia”, può provare a fornire una risposta.
Ci sono festival che rispecchiano la molteplicità del presente diramandosi in mille rivoli che vanno oltre la programmazione di spettacoli, costruendo un tessuto che connette installazioni, concerti, dibattiti, proiezioni, incontri. In questo caso si chiede allo spettatore di diventare “autore” di percorsi personali dentro a programmi difficili da abbracciare nella loro totalità, invitandolo a scegliere tra più proposte. Tale orientamento sembra incoraggiare una reale emancipazione dello spettatore, ma rischia allo stesso tempo di sollevare chi dirige dalla responsabilità di fornire chiavi di lettura, lasciando troppo in mano a chi guarda, trasformando la complessità in dispersione.
L’atteggiamento dal piglio opposto è quello di festival costruiti come linee rette: non un programma reticolare ma una sola linea temporale, percorrendo la quale scorrono tutti gli spettacoli uno dopo l’altro. Qui è l’accostamento fra le opere, lo spazio intermedio fra un discorso poetico e l’altro a creare quel tessuto in cui chi guarda è chiamato a pensare e discutere. Ci pare questo un atteggiamento più diretto, probabilmente meno rischioso ma che mostra il pregio non di poco conto di giocare a carte scoperte.
Nessuna di queste due forme, quella del festival “esploso” o quella del festival lineare, può aprioristicamente dirsi migliore dell’altra. Probabilmente si tratta di accenti da mettere di volta in volta alla prova dei diversi contesti, delle aspettative e delle storie di ogni realtà. Resta però la consapevolezza che nessuna forma è neutra o “naturale”, e che dunque ogni festival, come ogni opera, dovrebbe trovare e mutare la propria forma per farla corrispondere al suo stesso discorso, per evitare che questo si cristallizzi in semplici consuetudini, per non perdere quei caratteri di fluidità e “movimento” che dovrebbero giustificare la sua stessa extra-ordinarietà. Sono pochissimi i festival italiani in cui un discorso siffatto è possibile, Dro è fra questi.
Drodesera è diventato negli anni punto di riferimento per chi si occupa di arti sceniche, avendo saputo fotografare la scena italiana e i suoi movimenti ma al contempo avendo saputo guardare in modo mai occasionale all’Europa performativa. A tale tensione, negli ultimi anni si è affiancata quella di portare a emersione l’arcipelago della performance art (ora con Live Works, prima ancora con Il Premio Internazionale della Performance). Quelle di Dro sono dunque programmazioni composte per lo più di sequenze ordinate di spettacoli, favorite dalle sale teatrali concentrate nello stesso luogo, la poliedrica ex centrale idroelettrica Fies. Qui le opere scorrono una dietro all’altra, vi si affiancano installazioni e mostre delineando un ambiente nel quale sono gli stessi artisti a raccontarsi, prevalentemente grazie agli spettacoli.
Siamo stati a Dro il 31 luglio e il 1 agosto e ci è parso di individuare chiavi di lettura in grado di descrivere alcune tensioni della scena teatrale odierna, italiana e internazionale. Da un lato osserviamo artisti europei che studiano meccanismi della relazione in cerca di un rispecchiamento con le domande degli spettatori, segno forse di un circuito internazionale tutto sommato solido e poco propenso a cercare nuove vie; dall’altro vediamo una scena italiana decisamente più inquieta, le cui domande appaiono più dense e forse meno “garantite”, al di là dei singoli esiti spettacolari. Una scena italiana che ci pare stia attraversando un ripensamento delle proprie ossessioni e funzioni, processo che però resta aperto e non impedisce proposte e discorsi sul presente.
Bernat, Quesne, Navaridas & Deutinger: il compiacimento dei meccanismi?
Roger Bernat è noto per essere stato fra i più influenti sperimentatori di una estetica relazionale a teatro, sia attraverso spettacoli partecipativi sia tramite dichiarazioni teoriche. In Numax Fagor Plus ricrea un’assemblea di lavoratori usando il pubblico come voce per una recitazione che scompare nell’anonimato dei “tutti”. Vengono rievocati episodi in cui due fabbriche chiusero e i lavoratori decisero di lottare per i propri diritti, uno risalente alla fabbrica Numax nel 1979 (raccontato in un documentario del 1980) e l’altro all’attualità, quando i lavoratori dell’azienda Fagor, nella stessa situazione precaria, ricostruirono le gesta dei loro colleghi attraverso il film. In scena si fondono dunque più piani: i dialoghi dei lavoratori del ’79, quelli dell’attualità, i commenti dei lavoratori che interpretano i loro “antenati” e così via, in un gioco di doppi vertiginoso. Su uno schermo scorrono alcuni spezzoni di filmati e i dialoghi originali si trasformano in un copione che il pubblico legge sollecitato da una performer, come fossero didascalie. Non ci sono attori ma gli spettatori stessi prendono la parola a turno, prestando la propria voce ai personaggi. Veniamo così tutti proiettati nel consesso dell’assemblea, anche se scegliamo di tacere, ascoltiamo le ragioni di chi protesta e così riviviamo momenti di costruzione di una identità collettiva. Fra illusione di vivere la democrazia sulla propria pelle e narcisismo di chi vorrebbe sempre intervenire, pare che Bernat si prenda in qualche modo gioco di noi spettatori, senza tuttavia manifestare del tutto questo intento, lasciando scorrere una vicenda che solo nel finale dichiara di volere “doppiare” la realtà, facendo rivivere al nostro dei fantasmi ma arrivando a dimostrarlo forse troppo tardi. Resta uno stimolante meccanismo, certamente divertente ma che ci pare mantenga molto di meno di quanto prometta.
In Next day di Philippe Quesne, realizzato con il centro belga Campo, ci sono 12 ragazzine e ragazzini che scorrazzano in una sorta di parco giochi creato per noi adulti, situazione che produce un immediato senso di riconoscimento e induce una “tenerezza” dello sguardo. I bambini si presentano, ci raccontano come si chiamano e qual è la loro scena preferita dello spettacolo, suonano diversi strumenti formando un’orchestrina pop-rock, sono attorniati da cubi e rettangoloni di gommapiuma di diverse dimensioni, usati per creare muri, per saltare, per dormire e per nascondersi dalla nostra vista. La rappresentazione scorre fra canzoni e “prove” da superare in forma di gioco, dal momento che i bambini e le bambine sono alunni di una «scuola di supereroi»; sul sottofondo di una musica da action movie castrofista, i supereroi indossano maschere fatte in casa, pronti a salvare il mondo dalle nostre nefandezze di adulti. Qualora si sia disposti a misurare la nostra condiscendenza verso i piccoli supereroi, qualora si voglia mettere in discussione un’indulgenza che rischia di diventare autoassolutoria, il lavoro potrebbe essere una via per porsi domande scomode e di una certa acutezza. Sembra però prevalere un registro frivolo e divertito, che in fin dei conti non induce a interrogarci sulle nostre responsabilità di adulti e si rifugia nell’ironia.
Your Majesties di Navaridas & Deutinger utilizza una forma attualmente in voga in una certa scena performativa europea, definita re-enactment (letteralmente, “ricostruzione”, “rievocazione”). Si tratta di estrapolare un contenuto dal suo contesto, rimostrandolo e così spaesandolo. È un meccanismo operativo che la stessa direzione artistica descrive nella presentazione della tematica del festival, Motherlode (“vena-madre”), accompagnata dallo slogan ripreso da Kennedy Thinghs do not happen, things are made to happen. Si legge nel catalogo del festival che «Motherlode intende farsi dispositivo generatore di connessioni dove la pratica del re-enactment non si esaurisce nell’atto di rievocare, ma genera forme temporanee di realtà, restituendo azioni, parole ed elementi dapprima destinati ad un’assenza o a una lateralità e ora resi utili ad un pensiero affettivo, ed una azione quotidiana, all’oggi. All’adesso». Nel caso di Your Majesties siamo di fronte al discorso del Nobel per la pace di Barack Obama, eseguito da un attore eterodiretto nei gesti da una performer sistemata su una piattaforma posizionata specularmente al palco, nella parte alta della tribuna. Nel mezzo stiamo noi spettatori, per i quali questa ricostruzione è eseguita, dunque nelle condizioni di assistere al graduale emergere di una radiografia della retorica di un discorso politico. L’attore, infatti, dopo alcuni minuti iniziali “normali” gradualmente contraddice con i gesti il contenuto delle parole: si svacca su una sedia, salta, balla, corre, cade ecc. In un lavoro la cui tesi si scopre dopo i minuti iniziali, supportata peraltro da due ottimi performer, ci si chiede in quale modo questo “disvelamento” possa farci fare un passo avanti rispetto alla semplice gratifica che proviamo nel sentirci “illuminati”, culturalmente appagati dal privilegio di potere osservare da dietro un meccanismo, e così deriderlo.
Fanny e Motus, Teatro Sotterraneo e Cosmesi: autobiografia di una nazione?
Un certo teatro degli ultimi anni ci pare stia provando in maniera diretta a raccontare il presente, nel tentativo di smarcarsi dall’angolo di minorità in cui ci siamo ritrovati, riprendendo in mano i fili di problemi dell’attualità per provare a interpretarli e non solo a rispecchiarli. Gli esiti non convincono sempre, a volte perché quello che si vorrebbe raccontare appare come l’oggetto di un saggio teorico, altre ancora per il problema opposto, quando ci si richiude eccessivamente in discorso intimisti. Sottilissimo è il confine fra racconto privato e discorso collettivo, e mantenere un equilibrio crediamo sia la scommessa odierna. Sembrano convincere, in ogni caso, i tentativi di mettere a fuoco uno sguardo che dichiari il proprio punto di vista personale, comprese debolezze e meschinità, ma che sappia allo stesso tempo “elevarsi” per guardare il contesto, smarcandosi dagli ombelichismi, in cerca di ragionamenti più condivisi. Una specie di strabismo che, così descritto, sembrerebbe semplice da mettere in pratica, ma che forse scaturisce da intuizioni e “occasioni” il cui verificarsi è estremamente complesso.
I Fanny&Alexander rileggono la Storia italiana con il filtro di un personaggio la cui sostanza finzionale rischia di essere messa in scacco dalla realtà. Scrooge/Zio Paperone rappresenta il denaro, l’avarizia e l’accumulazione tanto quanto i suoi “doppi” in carne e ossa Gianni Agnelli o Silvio Berlusconi, interrogandoci sui nostri caratteri identitari italiani. In scena Marco Cavalcoli e Chiara Lagani: l’uno nei panni di Zio Paperone (ma con la voce che riecheggia la parlata di Agnelli e Berlusconi), l’altra una vocalist “parlata” dalla trama e da personaggi secondari. In alto sopra agli attori sta uno schermo tondo che rimanda frammenti di cartoondisneyani, spingendoci a un’osservazione in bilico fra recitazione e immagine riprodotta. Scrooge è tappa di avvicinamento al prossimo Discorso Verde, che attendiamo nel suo compiuto manifestarsi. Qui siamo al cospetto di una presentazione del personaggio che ci pare avvenga prima del “discorso”: le due figure si stagliano su sfondo vuoto e scuro, a loro il compito di una trasfigurazione estremamente complessa e che sappia elevarsi sopra la frivolezza senza ricadere nell’attualità, mentre un dj martella segmenti elettronici evitando così di trasformare i dialoghi in “prediche”, ma al contempo diluendo ogni affermazione in un continuum dove tutto scorre.
Di natura violenta segna il ritorno di Cosmesi sulla scena performativa dopo qualche anno. Anche qui il punto di partenza è collettivo, ma lo sguardo gradualmente si approssima a un personale usato come contrappeso e verifica. Scorrono in audio le parole di H.D. Thoreau e di Unabomber, proiettate in forma di didascalia su un boccascena coperto da un velatino. Scorrono riflessioni su individualità e collettività nelle quali sembra legittima soltanto la prospettiva solitaria. Da un lato si racconta un ritirarsi nella natura, rifiutando qualsiasi forma di violenza, dall’altro, nella terza parte dello spettacolo, s’inneggia alla necessità di far esplodere episodi violenti per scuotere, per affermare valori diversi rispetto al dominio delle oligarchie del consumo. Nel mezzo sta il “discorso” di Cosmesi, portato da un’attrice di spalle (Eva Geatti) che sussurra il disagio per un abbandono, o che si agita e balla muovendosi sullo sfondo come in discoteca, mentre in primo piano udiamo proclami politici rivoluzionari. Data questa sintassi è quasi inevitabile accostare le tre opzioni, e non si può fare a meno di pensare a quanto sia a rischio di ineffettualità quella più marcatamente autobiografica. Una ferita può riguardarci tutti, se diviene occasione di allerta utile per sé e per gli altri, oppure può rischiare di apparire autoassolutoria, se il suo raggio d’azione si limita ai più prossimi, se non tenta di raggiungere chi non ne sa nulla dei nostri mali. Cosmesi sembra abitare un bilico dove sono ancora potenzialente ammesse entrambe le opzioni, ma una presa di posizione più netta permetterebbe forse diverse occasioni dialettiche.
Un punto di partenza può situarsi dunque anche nel personale o nel privato (anche nel senso di “proprietà”), cecando risonanze collettive. Sold Out di Teatro Sotterraneo è un’asta degli oggetti di scena di alcuni spettacoli della compagnia, quelli usciti dal repertorio (Post-it, La Cosa 1, Dies Irae, L’origine della specie). Un banditore ironizza causticamente sul suo e sul nostro ruolo (Stefano Cenci), due valletti diventano attori (Sara Bonaventura e Claudio Cirri) e un notaio si arroga la facoltà di intervenire (Daniele Villa): così si adattano le regole di una vera asta al rialzo giocando con le aspettative del pubblico, assegnando pezzi di scenografia o facendo rivivere alcune scene degli spettacoli. Spesso viene chiesto agli spettatori di intervenire, ci viene offerta la possibilità di diventare attori eseguendo alcune scene (la telefonata a casa di Post-it, dove occorre chiamare in vivavoce un amico ignaro di tutto per chiedergli la sua opione sulla “fine”) o partecipando ad altre, come la festa nella tenda de La Cosa 1, dove si organizza un rave in 3 metri x 3, o la sparatoria a un Hitler in culla di Dies Irae. Tutto avviene rigorosamente a pagamento secondo la formula del chi offre di più: per avere i nostri trenta secondi di celebrità, le mani alzate non mancano mai. Ma il Sotterraneo insegna che se c’è una regola vale la pena contestarla, così lievi sabotaggi s’insinuano nella forma, dalla valletta/attrice che unilateralmente fa un’offerta fuori scala per un poster, azzittendo la platea, al pupazzone/panda de L’origine della specie che compare nel finale, accompagnando gli attori su un camion dell’immondizia, tramutando il sentimento di corrosiva ilarità appena provato in improvvisa perdita. Tutto d’un tratto, ripensiamo all’estinzione evocata dagli spettacoli “venduti” e che mai più saranno replicati, ci accorgiamo di avere riso su delle macerie, facendoci beffe di una conclamata fine… Una sorta di rito di passaggio, un funerale laico celebrato per una comunità di adepti, con tanto di finale “catartico” dove si abbandona qualcosa per rinnovarsi, si cambia pelle, si guarda al futuro con quel misto di malinconia ed eccitazione da series finale di una fiction statunitense. Guidando un camion della monnezza.
Scrive Guido Crainz, nel suo Autobiografia di una nazione, che la riflessione sull’identità si produce con maggior vigore in momenti di crisi e di lacerazioni. Torneremo ancora a interrogarci su tale constatazione, a partire dal notevole MDLSX di Motus di cui abbiamo scritto. Abbiamo attraversato anni in cui la “fame di realtà” ci ha forse fatto perdere di vista quanto la trasfigurazione della forma non possa che essere parte della stessa ricerca di senso, del medesimo tentativo di riportare le arti della scena in una posizione meno defilata. Adesso sembra che si possa raccogliere qualche frutto, in esempi dove la scena teatrale guarda alla biografia e all’autobiografia sapendo di stare maneggiando una lingua che per essere credibile ha da essere menzognera. Sembriamo esserci dimenticati di questo assunto di base, al quale alcuni paiono ritornare per fare in modo che il teatro tenga il passo degli universi mediali, per ricostruire una rilevanza culturale che gli permetta di farsi intendere, per ridefinire una differenza che gli garantisca di non venirne risucchiato.
Certo è che tali discorsi non possono che prodursi insieme ad alcuni luoghi, senza la cui presenza non sarebbe semplicemente possibile la discussione che stiamo tentando. Luoghi in cui si producono le opere o si sta in residenza ai fini della ricerca; luoghi che ospitano spettacoli europei altrimenti invisibili in Italia; luoghi che permettono al teatro italiano più inquieto e meno garantito una circuitazione, vale a dire una visibilità e una sussistenza. Luoghi dell’immaginario, andrebbero chiamati. Sono pochissimi e sparsi in diverse parti d’Italia, spesso periferiche, come la Centrale Fies di Dro.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.