Perché sono lì? Che cosa fanno quei due omini col volto sbiancato da un trucco polveroso, gli occhi fuori dalle orbite, due tastiere da computer appese al collo? Se lo chiedono di continuo, dall’inizio dello spettacolo: «Perché siamo qui?» E non è una banale domanda metateatrale, ma una questione esistenziale presa molto sul serio. Bouvard e Pécouchet scivolano fuori dall’ultimo e incompiuto romanzo di Flaubert e riemergono su un palcoscenico quasi intatti. Non sono più i copisti che frugano tra montagne di libri in cerca di risposte, ma due compulsivi internet-addicted che chiedono al grande Google di cercare con loro nei meandri dello scibile collezionato tra Wikipedia e pochi altri siti internet di immediato uso e consumo. Esiste Dio? Esiste l’infinito? Che cos’è l’amore? E la morte? Cucite una dietro l’altra in una drammaturgia prolifica di argomenti, i punti interrogativi sono la guida di queste due menti che abitano in un punto imprecisato del sottosuolo. La loro relazione si consuma in agguerriti battibecchi sull’ontologia di ogni cosa, ma soprattutto è una gara di fiducia e affetto reciproco.
Si può dire che assomiglino a Hamm e Clov, a Vladimiro ed Estragone, ma sono animati da tutt’altra materia. I nostri due personaggi sono prolissi, collezionisti nati. Accumulano ricerche, le conservano: Bouvard registra in video ogni discussione, così da conservare e monitorare gli step del loro percorso di conoscenza; quando si perdono riavvolgono il nastro e lo schermo al centro della scena rivela l’archivio delle loro discussioni e ci porta sempre più avanti, dal 2012 al 2020 al 2060, presumibilmente i nostri stessi presenti. Da un video all’altro qualcosa cambia, e una volta che è stata confermata l’inesistenza di Dio, dopo una rapida scorsa alle teorie di Einestein, sorge la proposta di Pécuchet: «Non rimane che il suicidio». Ecco che scatta una crisi diversa dalle altre. Bouvard non ammette la sua paura e si rifugia nella chat di Facebook dove ha un solo contatto-amico. Avviene qualcosa di simile a una confessione pubblica sull’insicurezza di quest’uomo, che solo qui si può aprire sinceramente per ragionare lucidamente mediante un avatar di se stesso con l’avatar di Pécuchet. Superato il panico, due cappi cadono dall’alto, la testa si immerge nel nodo scorsoio, ma l’atto mortale non si compie. Accanto a loro dall’inizio della scena stanno due figure mute (lui a suonare il pianoforte, lei a mimare pensieri) che improvvisamente intervengono facendo ripartire il video-archivio: la scena a cui abbiamo appena assistito dal vivo esisteva già in chissà quale anno passato, ripresa più e più volte. Scopriamo allora di essere nel mezzo di un ciclo infinito di scoperte e smentite, e i nostri protagonisti altro non sono che dei recidivi, che affiorano ogni volta dalla stessa superficie dello stesso dibattito sulle stesse domande sugli stessi argomenti.
Atto finale – Flaubert di Mario Perrotta (regista e attore in scena nel ruolo di Pécuchet con Bouvard interpretato da Lorenzo Ansaloni) è la descrizione iperbolica e grottesca di un’attitudine contemporanea: un’interfaccia media per noi la relazione con altre persone e con la realtà; non serve abitare il mondo per conoscerlo, è sufficiente studiare i link tra un oggetto e l’altro per verificare se una cosa è vera o per incrementare la propria esperienza personale. Durante lo spettacolo si ride, i due attori forzano senza pudore i limiti intellettuali di questi soggetti, l’evidente inadeguatezza che li ha portati lontani dalla società da cui ancora giocano a nascondersi. Solo a tratti i tempi si dilatano e il ritmo si spezza, interrompendo una più ingegnosa frenesia di parole o la nevrosi degli sguardi insonni.
Ma da questo sigillato bunker ecco che uno spiraglio si apre, senza contraddire il nichilismo di cui i due personaggi sono animati: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,/ silenziosa luna?» non è solo la citazione del poeta del pessimismo cosmico, ma anche la visione improvvisa e luminosa del fuori. Questo esistente sarà anche pregno di stupidità e miseria, ma forse è ancora importante sbirciare fuori dalla finestra, sembra sussurrare Perrotta in un attimo, per non perdere di vista ciò che ci circonda, per non rinunciare a coltivare in mezzo agli altri le proprie domande. O per ricordarsi, almeno, che è possibile farlo.
Atto finale – Flaubert (2011) è il terzo capitolo della Trilogia sull’individuo sociale insieme a I cavalieri – Aristofane cabaret (2010) e Il Misantropo (2009) da Moliére; per la sua Trilogia Mario Perrotta ha meritato il Premio Speciale Ubu 2011.
di Serena Terranova
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.