È difficile come quando raccontando di un luogo conosciuto lo si scopre irriducibile a qualsiasi tipo di sintesi e si ha paura di tralasciarne dettagli fondamentali.
Eppure da qualche parte bisogna cominciare. Una strada primo o poi la dobbiamo imboccare. Noi abbiamo scelto quella che porta dritti al cuore performativo del festival: gli spettacoli di danza e di teatro. Un festival che lega lo spazio del teatro a quello della casa, luogo eletto a metafora e guida concettuale di quest’edizione della manifestazione. Del resto entrambi custodiscono corpi, storie, memorie e se tenuti chiusi, entrambi, imputridiscono. «È forse un invito gridato ad aprire le porte» scrive la curatrice Piersandra Di Matteo spiegando la scelta del termine “Home”. Così in questi dieci giorni anche il teatro sembra aprire le sue porte per riscoprirsi “casa” dal quale guardare il fenomeno della migrazione e dell’accoglienza e nel quale, al contempo, fare abitare i corpi – corpi che, a loro volta, sono già “casa”.
Così dalla danza ivoriana di Nadia Beugré che rompe i confini tra artista e spettatore, all’opera prima di Dorothée Munyaneza, passando per il racconto del corpo mutilato di Fatoumata Bagayoko e per le voci delle donne in rivolta del concerto Burning Lexicon, approdiamo infine alla tempesta conradiana di Cantieri Meticci. Proviamo a restituire questo “viaggio” nelle terre di Home attraverso un polittico di sguardi che parla di spazio, memoria, corpo, voce e mare.
#1 Lo spazio – Quartier libre di Nadia Beugrè
Ai nostri occhi si palesano due palchi di medie dimensioni; ai lati due imponenti installazioni realizzate con bottiglie di plastica trasparente e tutt’attorno il vuoto. Nessun posto a sedere per il pubblico. Quartier libre, spettacolo di danza della coreografa ivoriana Nadia Beugré, che sabato 2 marzo è andato in scena in debutto nazionale al DamsLab, inaugurando la serie di spettacoli del festival Home – Atlas of Transitions, è in primo luogo una sfida alla sedentarietà dello spettatore. In questo clima di movimento sospeso, la Beugré entra in scena quasi per caso, infiltrandosi in mezzo al pubblico mentre, con voce roca e graffiata, intona una canzone di Myriam Makeba. Presto il canto si trasforma in un gesticolare mozzato che aggredisce lo spazio intorno: lo stesso che noi occupiamo e che siamo chiamati ad abitare insieme a lei, riformulando costantemente le nostre posizioni fisiche e mentali. La danza di Nadia Beugré si fonda sulla presenza del corpo, si compone di gesti risoluti e concreti che fanno risuonare, nello spazio che circola tra gli spettatori, la realtà della sua carne e dei suoi affetti. Questi, cercati negli interstizi che separano le ossa e le vertebre – secondo i movimenti delle danze tradizionali ivoriane – vengono estratti dalle viscere della carne con la forza di una scavatrice, per affiorare lentamente sul corpo della danzatrice e “alla mente” degli spettatori. Le mani, le gambe e la schiena – a tratti “calde” e morbide, a tratti violente e icastiche – ci parlano infatti di pudore, rabbia, determinazione, sentimenti che celano la sinistra presenza di tabù culturali che da sempre violano e vincolano il corpo. Ancorarsi alla fattezza della carne, al suo peso specifico, significa allora, per Nadia Beugré, sfidare lo stato apparente delle cose e i suoi stessi limiti, per comprendere dove possa risiedere lo spazio concreto della libertà. La danzatrice giunge così a sottoporre il suo corpo a prove fisiche, anche cruente, che temprano la sua resistenza, la sua forza di definizione di spazi “altri” generati dall’attrito, dallo scontro, con sé stessi e con il reale. Come nel caso delle monumentali installazioni di bottiglie: il fragore della plastica che si frange schiantandosi a terra sotto il peso del corpo di Nadia è la messa a nudo della forza e della fragilità umana, come anche della corruzione e della bulimia prodotto dal metabolismo accelerato del consumismo odierno. La libertà è qualcosa che si ottiene lottando, divincolandosi tra resistenze. Va strappata al mondo, e non può mai essere data una volta per tutte: nasce solo dalla costante ridefinizione del limite.
Vittoria Majorana
#2 La memoria – Samedi Détente di Dorothée Munyaneza.
«Et vous, où étiez-vous le 6 avril 1994?». Si conclude con una domanda lo spettacolo Samedi Détente, e con esso il commosso viaggio nei ricordi della sua ideatrice e protagonista Dorothée Munyaneza. Dov’eravamo noi la mattina del 6 aprile 1994, quando – con il pretesto di vendicare l’assassinio del presidente Habyarimana, in Rwanda cominciò il massacro della popolazione Tutsi? Dov’era il resto dell’umanità, muta e sorda davanti a un genocidio che in poco più di quattro mesi portò alla morte di quasi un milione di persone?
Domenica 3 marzo la cantante, coreografa e autrice rwandese ha portato in Italia la sua opera prima, Samedi Détente, lavoro del 2014 che è andato in scena a Teatri di Vita in lingua francese con sovratitoli in italiano. In scena, accanto a lei, la coreografa e danzatrice ivoriana Nadia Beugré e il compositore francese Alain Mahé.
Il titolo, Samedi Détente, fa riferimento a un programma radiofonico che Dorothée Munyaneza ascoltava da bambina in Rwanda: come in Hate Radio di Milo Rau – spettacolo del 2011 che racconta il ruolo svolto dall’emittente ruandese RTLM nella creazione del clima di tensione e odio razziale che portò al genocidio – la radio si rivela ancora una volta un importante mezzo attraverso il quale raccontare la recente e drammatica storia di questo paese. Musica, canto e danza si alternano e si fondono infatti al racconto tragico di quei cento giorni del 1994 vissuti sulla propria pelle: l’assassinio degli amici più cari, la fuga, la paura costante della morte e dell’abbandono, ma anche l’abbraccio e l’amore di una madre ritrovata. Il racconto personale di Dorothée, che l’anno del genocidio aveva solo tredici anni, si completa di dati, numeri, fatti storici e citazioni enunciate da Alain Mahé.
L’intera opera si alimenta di contrasti. La lunga sequenza ambientata in una stazione radiofonica, che si ricollega direttamente al titolo – Nadia Beugré, nei panni di un’improvvisata speaker, racconta l’origine della danza “Zouglou” e invita la protagonista a ballare con lei – è in antitesi con l’atmosfera tragica raggiunta. Ancora più evidente è il contrasto di Dorothée con il compositore Alain Mahé: una donna nera, originaria del Rwanda, e un uomo bianco, francese. Questi contrasti non hanno fine in sé stessi, assumono un ruolo fondamentale nell’accusa diretta rivolta dallo spettacolo a tutti coloro che, durante il genocidio in Rwanda, hanno preferito non intervenire, ignorare e voltarsi dall’altra parte. Accusa che non si risolve nella “tradizionale” antitesi Africa-Occidente: non solo gli Stati europei e occidentali, anche i vicini Stati africani sono stati sordi al grido d’aiuto dei rwandesi, impegnati nel battersi per altre battaglie sociali.
È un racconto performativo che ha sì valore di testimonianza, ma allo stesso tempo – e Dorothée Munyaneza ci tiene a precisarlo nell’incontro con gli spettatori successivo allo spettacolo – non si tratta di un’opera storica quanto di un invito a capire, a informarsi, a cercare la verità e soprattutto a non voltare le spalle di fronte a un massacro.
Valeria Venturelli
#3 Il corpo – Fatou t’as tout fait di Fatoumata Bagayoko
Il corpo prova dolore. Se gli fosse possibile rispondere, il suono che uscirebbe dalle sue viscere sarebbe un grido. Ma esso tace combattendo un nemico invisibile, tangibile e silenzioso. Il corpo trema, si torce, si dimena.
Attesa.
Paura.
Il corpo è fragile. Coperto dalla pelle sottile e subito dopo – sangue. Il corpo si gonfia, corre, resiste. Cade intrappolato. Le braccia afferrano qualcosa – lo spazio. Ma esso non rifiata. Il corpo cede. Sanguina. Si copre, si scopre. Si copre di nuovo, di rosso. Si ferma e si intimidisce. Scivola e cade nel sangue. Il corpo si rialza, prende la forza e cade.
Prende la forza.
E cade.
E l’anima? «L’anima vaga, sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana a sé stessa estranea, inafferrabile, ora certa, ora incerta della propria esistenza, mentre il corpo c’è e c’è e c’è e non trova riparo».
Fatoumata Bagayoko è una danzatrice maliana che ha studiato tra Mali, Senegal e Burkina Faso approfondendo sia la danza contemporanea che quella tradizionale. Nel 2015 durante un progetto di formazione sviluppa il suo primo solo, Fatou t’as tout fait, nel quale l’artista racconta la violenza e il peso della “grande cicatrice” che reca sul corpo: la mutilazione genitale, pratica di iniziazione perpetrata in nome di un’antica tradizione patriarcale, che segna con dolore e ingiustizia i corpi degli adolescenti del Mali come di altri paesi africani.
Jovana Malinarić
#4 La voce – Burning Lexicon: concerto per voci di donne
Il giorno dopo l’8 marzo al DamsLab si incontravano due cori di donne in occasione di Burning Lexicon: concerto per voci di donne, penultimo appuntamento del festival.
Le chemin des femmes, è un coro di donne provenienti da varie parti del mondo. Nasce nel 2008 a Modena in seguito a un laboratorio di Canto Sensibile all’interno di un progetto della Casa delle donne contro la violenza. Fondato e diretto da Meike Clarelli, ricercatrice vocale, cantante e insegnante di Canto Sensibile, il coro ha tra gli obiettivi quello di restituire, attraverso il lavoro sui canti e sulla ricerca vocale in coro, il valore delle donne. Invece Le Core – Voci Indisciplinate è un laboratorio di musica d’insieme e un coro di voci di donne. Il coro è aperto a tutte. I due gruppi si ispirano a figure del passato e del contemporaneo molto influenti, da Meredith Monk alle Farawalla.
C’era moltissima gente sabato alla Soffitta ed è stato difficoltoso osservare i due gruppi nel mentre di una creazione collettiva. È stato però possibile ascoltare le loro voci unite e in rivolta. Ciò che hanno cantato e detto, ha stimolato i sensi, risvegliato qualcosa di ignoto nella persona che cantava e quella che ascoltava – come se fosse un testimone attivo – non c’era bisogno di guardare.
Il coinvolgimento è stato recepito soprattutto a livello sensibile-emotivo piuttosto che intellettuale, infatti queste donne promuovono la resistenza civile con il mezzo della voce utilizzando ritmi ghanesi e polifonie georgiane, frammenti pop e esperimenti contemporanei. I loro materiali sono potenti e trascinanti: proprio come il corteo del giorno precedente per le strade di Bologna. Numerose polifonie designano i pensieri e le coscienze delle donne presenti, come nel famoso canto “Tango della femminista” in cui voci diverse supportano una solista che cambia di volta in volta. È un gruppo con identità ed età molto differenti tra loro, queste diversità emergono trovando un punto d’incontro nelle intonazioni e intenzioni di tutte.
Quando si fa e si dice qualcosa di concreto una composizione prende forma, che si tratti di vocalità o moralità, tutto parte dalle intenzioni. Non c’è nulla di pensato razionalmente in un lavoro simile.
Quello che conta è essere lì e lasciarsi andare, trovare ciò che non possiamo controllare e conservarlo; o ascoltare qualcosa di sconosciuto e nuovo che emerge dalle reazioni delle persone coinvolte.
Le quattro registrazioni audio sono state effettuate durante il concerto Burning Lexicon la sera del 9 marzo presso il DamsLab.
Martina Saulle
#5 Il mare – Il negro del narciso di Cantieri Meticci
«Quando penso al mistero della notte, immagino il mistero del tuo corpo. Nelle infinite concavità del tuo corpo esistono infiniti regni di oscurità».
È l’attore Younes El Bouzari a sussurrare queste parole mentre inginocchiato davanti a noi con una mano ci indica una luminosa cartina dell’Africa. Lui veste i panni di uno dei marinai inglesi della ciurma del Narciso, la quale ha appena segregato in stiva il “negro” Jimmy White, perché malato e considerato pericoloso. Noi spettatori siamo stipati insieme a lui nella coperta del veliero aspettando la bufera che tra poco si scatenerà. È circa la metà dello spettacolo e El Bouzari snocciola – come solo un marinaio in preda a visioni febbricitanti potrebbe fare – l’antica paura dell’uomo bianco nei confronti dell’uomo “negro”, mostrandoci come quella «macchia nera e informe» del corpo africano sia stata per lungo tempo portatrice di profondi incubi. È opaco e troppo imperscrutabile, quel corpo, per capire cosa nasconde al suo interno: malattia, contagio o morte?
Il negro del Narciso, spettacolo della compagnia Cantieri Meticci, presentato il 9 e il 10 marzo in chiusura del festival al Teatro San Martino, porta in scena, direttamente dalle pagine dell’omonimo racconto di Joseph Conrad, una storia intrisa di razzismo e di soprusi che accompagnano la nostra “civiltà del progresso” sin dai suoi albori. Una riscrittura in chiave contemporanea, quella dell’attore e regista dello spettacolo Pietro Floridia, che porta a rileggere, anche criticamente, la letteratura marinaresca di Conrad, secondo tempi e spazi nuovi, sconfinando, da un lato, in una narrazione corale e, dall’altro, nell’allestimento di una scenografia completamente immersiva. Otto attori per otto “stanze”. Queste, che ad apertura spettacolo si presentano come un’unica grande installazione labirintica – un vero e proprio prologo per immagini onirico e perturbante – vengono trasformate nella cangiante ossatura architettonica del Narciso, il veliero nel quale ci troviamo immersi. La drammaturgia di Floridia, scandita in capitoli, affida poi a ogni attore – l’uno molto diverso dall’altro per provenienza ma anche per inclinazione ai toni del racconto – il compito di estrapolare dal contesto letterario un tema che riesca a incorniciare passo dopo passo la costruzione del mito della razza e della violenza sociale, legandola anche ai risvolti più contemporanei.
Dopo un intenso pellegrinaggio nelle terre del vissuto e del reale, si conclude così il festival Home. Atlas of Transitions: con uno sconfinamento nell’onirico che dirotta il nostro sguardo di spettatori in un altrove letterario fatto di realtà e finzione, passato e presente, ma anche di velieri, fantasmi e rifugiati politici.
Vittoria Majorana
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.