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”Assassina”, la cruda fiaba esistenziale di Vetrano/Randisi 

di Marzio Badalì

I resti di un edificio abbandonato, ormai in disuso, o forse un’altra di quelle tante costruzioni incompiute che caratterizzano con i loro scheletri certi paesi della Sicilia. Una casa, che in fondo abbandonata non è, ricavata in quello che una volta era, o che avrebbe dovuto essere, un “cesso pubblico”, il cui azzurro dominante ricorda il fondo di una piscina in secca. Qui vive una vecchina che cerca in tutti i modi di liberarsi della sua ombra come di un vago sentore di morte, una presenza ingombrante che si prende gioco di lei, schernendola e imitandola in ogni suo gesto. Qui vive un omino, creatura semplice che sogna un mondo pieno di buon vino e si guadagna da vivere chiedendo l’elemosina. Come in una fiaba abitano entrambi la stessa casa, ma non si sono mai incontrati, non si conoscono neppure, però qualcosa li accomuna, come il grande ritratto dei genitori appeso alla parete.
Dopo il toccante successo di quella piccola poesia teatrale che fu Totò e Vicé, Enzo Vetrano e Stefano Randisi si dimostrano ancora una volta abili interpreti del linguaggio crudo e onirico di Franco Scaldati. Con Assassina, questo l’ambiguo titolo dell’opera, Vetrano e Randisi portano in scena una riflessione sulla vita e sulla morte, incarnando pienamente l’esistenzialismo surrealista del “Sarto” di Palermo, definito da Franco Quadri come «il Beckett siciliano». Lo spettacolo, una produzione ERT che ha debuttato al Teatro delle Passioni di Modena, è una nuova poesia sospesa tra realtà e sogno, in cui noi veniamo immersi come bambini in una storia in bilico tra la fascinazione fiabesca e la cruda riflessione che si cela dietro i versi di Scaldati, quella voce esterna trasposta in commenti poetici che nel testo appartiene alla figura, forse archetipica, dei Genitori, e che sulla scena è abilmente interpretata tra canto e musica da Enzo e Lorenzo Mancuso. Il grande quadro appeso sul fondo, che ricorda l’insolito dipinto seicentesco della “Donna barbuta” di Jusepe de Ribera, ritrae in realtà i Fratelli Mancuso in abiti d’epoca. Ma qualcosa accade, ben presto il quadro si anima, le figure ritratte cambiano posizione ogni volta che il dipinto riemerge dal buio e di rimando cambiano anche gli strumenti musicali che stringono tra le mani: sansula, viella, mezzo colascione, salterio ad arco, chitarra classica, saz baglama, shruti box, harmonium, armonica. Con un canto antico e lontano, vibrante dell’asprezza della lingua siciliana, i Genitori/Mancuso richiamano forze arcaiche e ctonie, evocazioni della terra di Sicilia – «St’aria notturna crea l’infiniti immagini» – immagini oscure e lucenti al tempo stesso che illuminano «la scura grutta, scura, scura illumina», quella grotta oscura, quell’antro, quella tana in cui vivono i protagonisti, rischiarata dal chiarore della luna «persa tra ruini ncielu», persa tra le rovine in cielo, che proietta immagini sul fondo, frammenti di un viaggio, strade notturne che scorrono e che lasciano pensare a una Palermo lontana, periferica, o forse a qualsiasi altra città del mondo.
Permeato da una seria riflessione che non toglie certo spazio al divertimento, Assassinapresenta, pur con incalzanti ritmi comici, la marginalità in cui vivono i due protagonisti della storia. In presenza di animali anche solo evocati dalla fantasia – reali o immaginari che siano, non ha più importanza – come la mosca, il topo, la gatta, la gallina, il pescecane e persino il coccodrillo del fiume Papireto, che riecheggia nel canto dei Fratelli Mancuso, si sviluppa il rapporto di rituale quotidianità che i personaggi instaurano con gli oggetti in scena. Conflittuale è l’interazione della vecchina con questi animali, che promette al topo «un corpu i scupa ‘mmenz’ aricchi», un colpo con il manico della scopa proprio sulla nuca, letteralmente in mezzo alle orecchie; serena e amichevole invece quella dell’omino, che augura la buonanotte persino alla mosca che tormenta il sonno della vecchina. Assassina ci parla con dolce crudezza della loro esistenza nel limen, sul confine di una casa/bagno che diventa prato. Vetrano e Randisi avanzano un’indagine sull’identità, su quel rapporto che tra verità e fantasticheria i personaggi instaurano con se stessi, con la loro solitudine di uomini-fantasmi e con gli “spirdi” (spiriti) che ciascuno di noi si porta dentro, forse del tutto inconsapevole di essere già morto o, forse, di non-essere affatto. Entrambi «cercano il luogo dove ogni cosa ha inizio», ma più ci si addentra nella conoscenza di sé più ci si avverte indefiniti: «Non so più se sono uomo o se sono donna» dice l’omino, quando per un solo breve istante accetta l’idea di abbandonare quella casa, «ma dove vado adesso?» e di conseguenza, chi sono? Sono personaggi-ombre e se si spegne la luce allora non esistono più, il corpo svanisce e resta soltanto la voce, perché nel buio più profondo persino le ombre si dissolvono. Tutto questo traspare sulla scena a partire dalla poetica di Scaldati, i cui personaggi, con l’ingenuità filosofica dei bambini, si domandano se una volta chiusi gli occhi si smette di esistere. Il rischio che si corre allora non è soltanto quello di essere intrappolati in un sogno, ma che quel sogno non sia neanche il nostro bensì quello di qualcun altro. «Se abitiamo insieme com’è che non ci conosciamo?» domanda la vecchina all’omino. Ne scaturisce un dialogo surreale ma profondamente materico grazie anche all’uso della lingua siciliana che infonde carne e sangue – corpo – ai personaggi sulla scena e che Vetrano e Randisi riescono a cucire perfettamente addosso ai loro corpi. Così “vestiti” i due attori possono anche attuare una vera e propria traduzione – musicale e non solo – della lingua di Scaldati, rendendola ora spigolosa e cruda ora più dolce e smussata, e favorendo la comprensione, grazie anche a una continua relazione col pubblico, di quella “lingua altra” che anche degli spettatori siciliani avrebbero difficoltà a comprendere pienamente. Risulta piacevole e divertente il corso accelerato di siciliano/italiano che Randisi offre alla platea prima ancora che inizi lo spettacolo, in modo da invitare gli spettatori con estrema semplicità ad addentrarsi tra le pieghe testo.
La pièce non ha la presunzione di offrire alcuna risposta sull’esistenza, ma in compenso solleva molte, moltissime domande. Le prime che invadono la mente di noi spettatori non appena si riaccendono le luci in platea sono forse le più banali e ovvie: chi è Assassina? Forse assassina è la vita, con tutte le sue difficoltà, o forse l’ombra, che ci sdoppia, disperdendo la nostra identità; assassina è l’alterità se si sospetta che i due personaggi si siano avvelenati a vicenda con il rosolio, o magari assassina è la luna, che crea quel mare profondo dentro a un secchio in cui nuotano pescecani pronti a divorarci. E poi chi è questo padrone di casa di cui si parla? Che sia un dio sadico e burlone che si diverte a giocare con i suoi inquilini e che viene a riscuotere l’affitto quando meno ce lo aspettiamo? Ma soprattutto, chi sono i due protagonisti, quella vecchina e quell’omino? Sono due “fratelli”, frutto di quegli stessi genitori che entrambi chiamano “mammà” e “papà”, seppur non si sappia chi tra i due sia l’uomo e chi la donna? O forse sono l’uno il doppio dell’altro? Magari sono entrambi la stessa persona che si conosce da sempre pur non essendosi mai incontrata. In alcune mitologie vedere il proprio doppelgänger, il proprio doppio vagante, è presagio di morte, e spesso nel folclore questa figura è incapace di proiettare ombre, proprio come quella di cui la vecchia cerca disperatamente di liberarsi sin dalla prima scena, convinta di poter star bene da sola.
Poco alla volta però, dopo le iniziali schermaglie comiche tra l’omino e la vecchina, dopo il loro continuo e dolente litigare, nell’estremo tentativo di offendersi, di ferirsi, di cacciare via l’altro lontano dal proprio spazio vitale, dalla propria casa, i due iniziano ad avvicinarsi, comprendono di essere simili in qualche modo, forse ritrovano nell’altro parte di loro stessi, come un’ombra perduta da ricucire al proprio corpo. Ma se incontrare il nostro doppio è presagio di morte, allora riconoscerlo porta all’annullamento. Conoscere il nome delle cose ci dà il potere di cancellarle, di farle sparire, di dimenticarle. Come nel film di Pasolini Che cosa sono le nuvole? in cui la verità è quella cosa che «non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più», anche la vecchina e l’omino di Assassina, una volta presa coscienza di loro stessi, svaniscono nel nulla con la stessa disarmante semplicità di quei sogni subito dimenticati non appena si aprono gli occhi. Così finisce lo spettacolo, con i due genitori che abbandonano la loro cornice, il mondo metafisico al di là del quadro, per comparire sulla scena intonando un’ultima canzone in cui «ogni ummira di vuci, / a ntirrarisinni va» (ogni ombra di voce, / va a sotterrarsi).

foto di Luca Del Pia

L'autore

  • Marzio Badalì

    Laureato in Istituzioni di regia all'Università di Bologna, si interessa di arti performative e di critica teatrale. Collabora con Emilia Romagna Teatro Fondazione, affiancando all'attività di studioso quella di dramaturg.

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