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(foto di Michela Di Savino)
(foto di Michela Di Savino)

“Ashes”, fra ascolto e contemplazione

di Francesco Brusa

Interno borghese ed esterno mondo. In Ashes, ultimo lavoro dei Muta Imago premiato con l’Ubu, non c’è soluzione di continuità fra questi due poli, fra questi due “universi immaginifici” – che sono sia quelli dei rapporti familiari e dell’inconscio dei singoli che quelli di uno scenario umano davvero onnicomprensivo (forse post-apocalittico?), ma anche parole e scampoli di testi tratti dal mondo del teatro (che è, sempre, un microcosmo). Ma, appunto, il cosmo – ovvero l’ordine, il “quadro” – non c’è, perché tutto è mescolato in un unico flusso di suoni allusioni rumori, scampoli di discorsi disposti su di un piano orizzontale e immanente all’ascolto. Marco Cavalcoli, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli, Ivan Graziano hanno di fronte ciascuno un microfono, e si trovano davanti a noi perfettamente in linea. Sono nude presenze, non personaggi, anzi quasi viatici di parole cui danno sì corpo con la propria voce ma senza incarnarle nel loro mutevole significato. La luce, calda, li illumina solo per una piccola porzione che piano piano si allarga senza mai aprirsi del tutto. A lato, Lorenzo Tomio con chitarra e sintetizzatore crea una trama sonora atmosferica che ora si adagia sui toni utilizzati dagli attori ora li esalta per contrasto.

Sembra quasi di assistere all’immagine descritta da Jonathan Gottschall nell’introduzione al suo ultimo libro, Il lato oscuro delle storie, in cui l’autore si ritrova in un pub a scrivere e riesce per un momento a “estraniarsi” dal contesto generale:

«Quella sera sono riuscito a notare la folla, non i singoli individui: la foresta, non gli alberi. Fa sentire bene noi esseri umani presupporre che il nostro comportamento sia vario, differenziato, imprevedibile. Invece non lo è affatto. È uniforme, stereotipato e prevedibile. E infatti tutte le persone al bar (a eccezione del vostro autore ormai sconsolato e alticcio) stavano facendo esattamente la stessa cosa. […] Tutti i giorni, tutto il giorno, gli individui passano attraverso raffiche di parole emesse da loro stessi e dagli altri. Gli esseri umani trascorrono tutta la loro vita facendo questo, dai primi suoni che i neonati si scambiano con le madri, fino alle ultime espressioni d’affetto pronunciate sul letto di morte. Ogni volta che le persone si riuniscono, parlano tra di loro. E quando non siamo noi stessi a conversare, per lo più guardiamo altre persone farlo su uno schermo o leggiamo le parole di altre persone su una pagina come questa o ascoltiamo parole pronunciate in un podcast o in una canzone».

Similmente, Ashes ci impone la contemplazione di un “gruppo parlante”. Una famiglia, presumibilmente, anche se l’identificazione è resa ambigua dalla frammentarietà delle frasi che si inseguono fra loro senza una logica né narrativa né descrittiva, ma solo evocativa: «Se qualcuno potesse ripetere la propria vita sapendo già quello che è successo in precedenza, è ovvio che cambierebbe qualcosa, no?», colpi forti di tosse, «Papà? Papà!», «Dove ho messo le chiavi della macchina?», citazioni da Checov… La normale e lineare dimensione del tempo, qualcosa che ci “impone” la nostra esistenza biologica di essere umani, viene così sfocata, disciolta in rivoli sonori e verbali: laddove, appunto, si fa strada anche la straniante consapevolezza che tutto ciò che diciamo e pensiamo, l’interezza del nostro sforzo di comunicazione interpersonale, possiede un significato perché inserito in una cornice di senso comune, che possiamo sì ambire a influenzare e cambiare ma che ci è in fin dei conti data dall’esterno. Tolta quest’ultima, o comunque messa in crisi da una composizione drammaturgica anti-narrativa, ecco che il nostro parlare ci appare alla stregua di un’incessante lallazione, nient’altro che cenere se confrontato su una scala di vita non-umana (come viene evocato verso il finale dello spettacolo).

Certo, complice la ripetizione nel corso della rappresentazione di determinate frasi e di alcuni ricorrenti “squarci emotivi”, Ashes può essere letto con un senso ben preciso: in controluce, si tratta infatti del racconto di una biografia fatta dall’interno – una figura paterna che, prima di morire, ripercorre dentro la propria mente in maniera confusa quello che ha vissuto. Eppure, anche assumendo questa prospettiva, è come si ci trovassimo di fronte alla negazione di quanto affermava Pasolini rispetto alla morte, paragonandola al montaggio cinematografico: ovvero un “momento necessario” in cui le tappe principali dell’esistenza trovavano finalmente collocazione e un configurazione di senso finale. Al contrario, nello sguardo di Muta Imago non c’è né riscatto né giudizio. Solo, sembrerebbe, una placida accettazione che è però al tempo stesso anche oscura e sinistra in una certa misura, poiché toglie allo spettatore ogni appiglio per immedesimarsi. «Ashes to ashes», è il coro finale che chiude lo spettacolo…

Questo conduce ai dubbi, nel senso più fecondo del termine, che lascia il lavoro di Muta Imago. Ashes ci invita ad adottare una visione “a volo d’uccello” su un’epopea famigliare “generica”, anzi quasi a uscire da noi e ad adottare una sospensione della nostra condizione contingente, uno sguardo non-umano sulla natura umana. Può l’evocazione di un semplice “interno borghese”, come si accennava all’inizio, assolvere a questa funzione e farci scorgere l’“esterno mondo”? Riesce a essere leva per una riflessione, quale sembra essere quella in cui getta il finale dello spettacolo, sull’antropocene e sul nostro futuro comune? Vero: una bella fetta di teatro ha creduto (e ha dimostrato) di sì – che nel piccolo potesse riflettersi il molto, che entro gli inconsci spazi del triangolo edipico potesse contenersi il tutto. Ma in Ashes non c’è questa volontà metonimica, non c’è alcun intento metaforico di fare di un frammento qualsiasi un riassunto definitivo e dirimente. Forse, c’è appunto questo: la volontà di mostrare come ogni possibile frammento – che sia il clamore di una grande battaglia o la banalità di una stanza di vita quotidiana – è in fondo un frammento qualsiasi, e perciò irrilevante e fondamentale al tempo stesso. A patto però che il “tempo”, il ritmo con cui ci rapportiamo alle cose, non sia quello tirannico della visione ma la profonda predisposizione all’ascolto che rimescola i sensi, e con ciò ritrova il proprio significato.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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