Un teatro che si occupa del presente può essere ancora “teatro” in senso stretto, vale a dire una pratica scenica che in una certa misura ha a che fare con corpi, rappresentazioni e drammaturgie? Nella loro algida semplicità, i lavori dell’artista bielorusso Arkadi Zaides conducono al centro di questo interrogativo: performance – o per meglio descrivere, momenti di frontalità dialogica – che ricercano un quid teatrale nella materia più inerte che forse si possa immaginare, archivi, dati, statistiche, referti, processi informatici, testimonianze svuotate della loro origine umana. La stagione di danza “Orbita” diretta dalla compagnia romana Spellbound gli ha recentemente dedicato una tre giorni, fra il Teatro Biblioteca Quarticciolo, Teatro Palladium e Spazio Rossellini, in cui si è potuto assistere alla prova aperta dello spettacolo di prossimo debutto Cloud, alla conferenza recitata Talos e al rituale digitale Necropolis.
Siamo appunto di fronte a una sfida, e a una contraddizione, costanti: da una parte l’idea, o comunque il tentativo, per cui il teatro possa fungere quasi da “retina” per intercettare dinamiche e meccanismi che eccedono la cornice rappresentativa (e, in un certo senso, anche il linguaggio teatrale stesso); dall’altra, però, la consapevolezza che fra questi due poli non c’è – forse non c’è ancora – una sintesi possibile, che nell’urto deliberato di codici talmente differenti fra loro permarrà sempre un qualcosa di irrisolto, un elemento che, più che eccedere, si sottrae alla scena e la invalida parzialmente. In effetti, il modo in cui è stata organizzata la tre giorni di “Orbita” aiuta a meglio entrare dentro una tale discrepanza: ogni spettacolo è seguito da una conversazione con l’artista in quello che sembra a essere un vero e proprio prolungamento di quanto si è visto sul palco, un necessario puntellamento di quelle precisazioni e riflessioni che le performance, per loro stessa costituzione, non hanno potuto contenere (le discussioni sono state condotte da Andrea Pocosgnich e Piersandra Di Matteo). Cloud è una doppia allusione, che fa riferimento sia alla nuvola radioattiva prodotta dall’esplosione del reattore 4 di Cernobyl’ e allo spazio di archiviazione di dati informatici sulla rete. Ci sono dunque una serie, anzi un nugolo per mantenere il senso della metafora, di temi che collimano l’uno sull’altro: l’impalpabilità delle perdite nocive della centrale sovietica unite all’immaterialità dei flussi di informazioni sconnessa cui siamo sottoposti quotidianamente; gli effetti che possono avere sull’individuo sistemi che vanno oltre la sua capacità di comprensione, come appunto lo sfruttamento dell’energia nucleare da un lato e gli ultimi sviluppi dell’intelligenza artificiale dall’altro; la difficoltà di relazione che dunque si instaurano fra le società umane e i loro prodotti più eterei, incorporei. Dal canto suo,Talos, invece che immergersi dentro ciò che non è visibile, astrae e generalizza: affronta l’argomento delle migrazioni e dei confini (nella loro natura più cruenta fatta di respingimenti e violenze) sul livello apparentemente asettico dei dati e delle rappresentazioni grafiche; le frontiere sono semplici linee su uno schermo, le persone che le attraversano dei puntini che si muovono e che vengono raccontati col tono e con gli stilemi di una conferenza, di una convention promozionale; d’altronde, non è teatro, trasfigurazione o metafora ma cronaca: oltre a essere un personaggio mitologico, “Talos” è anche un progetto reale di pattugliamento e messa in sicurezza dello spazio europeo, poi non realizzato, che prevedeva l’impiego massiccio di tecnologia di alto livello e robot-guardie per controllare i confini. In questo senso, Necropolis è un’esplorazione immaginifica delle conseguenze di un tale sistema di controllo, vale a dire una vera e propria mappatura (realizzata attraverso una cartografia virtuale e itinerante) dei e delle migranti che hanno trovato la morte dopo aver fatto il loro ingresso nella “Fortezza Europa”; nessun corpo, nessun attore o attrice sul palco, di fatto neanche un palco a reggere lo spettacolo: solo il girovagare numerico attraverso cifre e nomi che non hanno né voce né volto, una enciclopedia del dolore fatta di storie che si riassumono in tre righe come uno stringato referto medico – perché così stringate sono le informazioni effettivamente reperibili su queste persone e così stringato è forse lo spazio di commemorazione e riconoscimento che le nostre società offrono loro.
La struttura scenografica è in pratica la medesima per tutte e tre le performance: uno schermo, o comunque una videoproiezione, a occupare tutto lo spazio di sfondo della scena e un corpo attoriale che vi agisce davanti (in Necropolis, per la precisione, le figure umane sono due e per quasi tutta la durata dello spettacolo agiscono molto poco, se non operando seduti al computer). La dialettica che si crea è appunto quella di un’influenza reciproca, per quanto sottile e molto spesso non-lineare, fra l’immagine digitale e la tridimensionalità fisica dei performer, fra la rappresentazione grafica di realtà fatte di dati e informazioni e l’imprevedibile movimento degli arti e della carne che vengono “colpiti” da questi dati e da queste informazioni. Ma non c’è lotta o contrapposizione, non c’è un dramma in senso stretto. Virtuale e corporeo costituiscono due momenti dello stesso discorso, due articolazioni linguistiche in parte discrepanti eppure convergenti. Il teatro di Arkadi Zaides non si fa mondo o (micro-)cosmo, ma habitat: un ambiente in cui non si sviluppano storie o parabole personali (forse nemmeno riflessioni concettuali vere e proprie), ma più semplicemente si svolge un processo di adattamento continuo fra attore e immagini, fra spettatore e codici scenici, fra testi e contesti. Da questo punto di vista, la diagnosi dell’artista bielorusso è estremamente precisa e pertinente: seguendo Bruno Latour, occorre pensare le società contemporanee nel solco della caduta di Prometeo, laddove alla creazione eroica si sostituisce ormai il lavorio più dimesso della progettazione e della filosofia del design. «Non c’è mai una tabula rasa, vecchio mito dell’Occidente, sulla quale costruire, poiché qualsiasi ipotesi di progetto si innesta in una qualche questione che, anticipandola, ne rende ragione», riassume Gianfranco Marrone su Doppiozero. «L’arte del design, più che Prometeo, usa allora il modello di Dedalo, scaltro progettista del celebre labirinto che abbandona la linea retta della conoscenza, e con essa il mito del progresso fine a se stesso, per mettere in opera gli stratagemmi necessari per salvarsi e salvare, rimediazioni continue sotto il segno della métis dell’antica Grecia, quella del celeberrimo multiforme ingegno di un tipo come Ulisse. A essere importanti, a qualsiasi livello (empirico come epistemologico), non saranno dunque gli oggetti in sé, le tecnologie nella loro bruta materialità o nel loro funzionamento meccanico, ma le loro relazioni, le intercessioni che permettono di passare dagli uni alle altre e viceversa, le interferenze che reindirizzano tutto questo». Coerentemente, il teatro di Arkadi Zaides prova a collocarsi nel solco di queste interferenze, dentro a una mediazione costante fra tecnologia e pratica scenica che non possiede un punto di soluzione ma è, al contrario, un intreccio inestricabile che come tale dev’essere compreso (per quanto la sua comprensione sfugga e, dunque, possa forse solo essere abitato, come accennavamo).
Viene da chiedersi allora che cosa resti del teatro e della sua natura conflittuale in una concezione siffatta. Sicuramente resta uno spaesamento spettatoriale, esile ma efficace. Nel loro procedere piano e dialogico, gli spettacoli dell’artista bielorusso è come se spostassero di continuo l’asse del discorso: possono sembrare a tutta prima un teatro documentale, ma allargando il campo della visione si scorge un disegno coreografico; ci sono elementi di sperimentazione linguistica che giocano con tecnologie “vecchie” e “nuove” (proiezioni, ricostruzioni grafiche, intelligenza artificiale), ma la tecnologia risulta infine quasi sempre un mezzo per dire altro, per reindirizzare la nostra attenzione da una prospettiva inedita; si trattano tematiche socialmente rilevanti e piene di dolore, ma al tempo stesso non c’è quasi mai patetismo, trasporto morale o denuncia (se non indiretta) e, anzi, l’immedesimazione tende ad avvenire su un piano astratto e asettico (in questo senso, il finale di Necropolis sembra davvero deviare e “tradire” la sua poetica usuale, facendo sprofondare la performance dentro un registro inaspettato ed esageratamente enfatico). Qui sta anche il valore politico del teatro-non-teatro di Arkadi Zaides: di fronte a eventi che sono conseguenze di sistemi ingiusti e violenti (la sorveglianza dei confini, la prevaricazione coloniale da parte di cittadini israeliani nei confronti del popolo palestinese in Archive, l’inottemperanza governativa durante la tragedia di Cernobyl’), la messa in scena non fa mai appello all’empatia o ai sentimenti del pubblico, non c’è mai alcun ricatto di natura emotiva né un’esplicita condanna da parte dell’autore – eppure il suo posizionamento è sempre chiaro, cristallino. E, a questo posizionamento, è sottintesa un’ulteriore domanda, di carattere al contempo etico e linguistico: come può un’“pratica della prossimità”, quale è quella teatrale (un’arte cioè che avviene in presenza, e che chiama in causa i sensi della vicinanza), confrontarsi con un “sapere della distanza”, una conoscenza cioè composta esclusivamente da big data, cifre e numeri, radiazioni impercettibili, immagini digitali e asettici resoconti quantitativi – senza passare peraltro dalla storia singola e dall’individuo, provando a costruire una comunità senza personaggi (o anche persone)? Domanda che, al di là della pratica scenica, ha a che fare con noi, e con la realtà in cui siamo immersi: eccedente, smaterializzata, ipertrofica, anestetizzante per paradosso (proprio perché fatta di molteplici stimoli). Arkadi Zaides non fa altro che rimodularla, riassemblarla secondo diverse configurazioni, mostrandone i meccanismi nascosti e gli snodi potenziali, che sono infine gli snodi possibili della percezione e del giudizio, del luogo – virtuale e concreto insieme, come una sala teatrale – da cui non cessiamo di esercitare il nostro sguardo.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.