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Archeologia e frammentazione. Intervista alla compagnia Amed Şheir Tiyatrosu 

di Francesco Brusa

In mezzo a una serie di piccoli negozi, al piano sotterraneo di un centro commerciale nella periferia di Diyarbakır, c’è una sala con un palchetto in legno e meno di un centinaio di posti a sedere. È qui che avviene la messa in scena degli spettacoli di Amed Şheir Tiyatrosu, per anni compagnia municipale della città che si trova ora senza alcun finanziamento pubblico in seguito all’esautorazione del governo comunale dovuta al conflitto fra militari turchi e guerriglieri curdi del 2015/2016.
Il loro è un teatro orientato verso i classici, che si propone appunto di adattare opere della tradizione occidentale al contesto locale. Fare ciò significa però anche riscoprire e valorizzare tecniche di narrazione orale che si sviluppano da secoli nell’area, come quella del dengbêj, arrivando così a creare nuovi linguaggi scenici. Abbiamo parlato con Nazim Hikmet Çalişkan e Mehmet Emin Yalçınkaya – professori, registi e attori attivi nella struttura – per capire meglio le motivazioni che animano la loro pratica scenica.

Siete attivi da molti anni nella città di Diyarbakır. Come si è evoluta la situazione teatrale?

È evidente che qui a Diyarbakır, così come in tutto il Kurdistan, le evoluzioni teatrali procedono in parallelo a quelle politiche. La fondazione delle prime strutture teatrali della città è iniziata attorno al 1985, quando c’era un nutrito gruppo di persone che si era ritrovata qua dopo aver ricevuto un’educazione teatrale magari anche nell’ovest della Turchia. Era un periodo di grande fermento, in cui si stava creando un elevato potenziale culturale nell’area. Sono stati istituti quattro teatri “privati”, rimasti in attività fino al 1994. Dopodiché è subentrato un governo municipale di stampo più conservatore e queste realtà sono state chiuse per alcuni anni, finché verso la fine degli anni ‘90 ha vinto le elezioni comunali il partito curdo dell’AD. Il teatro ha cominciato allora ad essere finanziato con soldi pubblici ed è nato appunto il Teatro Municipale di Diyarbakır. Non solo, poco più tardi nel 2003 abbiamo potuto mettere in scena uno spettacolo in lingua curda. Piano piano abbiamo affiancato al nostro repertorio “classico” in turco sempre più opere in curdo, fino a che cinque anni più tardi recitavamo solo nella nostra lingua. Anche questo è stato un periodo di forte dinamismo: abbiamo istituito un festival che richiamava parecchi artisti da varie zone del paese e abbiamo avviato alcune collaborazioni internazionali.
Infine, in seguito al conflitto e ai bombardamenti, l’anno scorso il governo municipale è stato arbitrariamente esautorato dal governo centrale e tutti i nostri contratti si sono cancellati e i finanziamenti sono bloccati. Tuttavia, continuiamo comunque con la nostra attività.

Come è avvenuto il passaggio alla recitazione in lingua curda?

Per noi recitare in lingua curda significa tante cose, implica diverse operazioni su vari livelli. Sostanzialmente, non esiste una tradizione teatrale curda e non ci sono dei testi di riferimento. Abbiamo dunque capito che in qualche modo il nostro compito è appunto “creare” questa tradizione. A tal proposito abbiamo indetto ogni anno delle competizioni aperte a chiunque avesse opere testuali in curdo da proporre. Non necessariamente drammaturgie, anche racconti che noi poi avremmo riadattato in scena.
È però vero che esistono storie, personaggi e mitologie riconducibili a un’identità curda che si ritrovano in maniera frammentata dentro altre tradizioni. È l’effetto di più di 100 anni di assimilazione culturale portata avanti dallo stato turco nonché del fatto che il nostro popolo si ritrova diviso in quattro territori, fra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Utilizzare la lingua curda significa dunque anche questo: raccogliere, mettere insieme, fare insomma un’opera di “archeologia” rispetto ai vari filoni in cui si ritrova disgregato un patrimonio artistico e culturale che sentiamo come comune.
Infine proviamo ad adattare classici del teatro, da Aristofane a Shakespeare, al contesto in cui viviamo. Non è semplicemente un’opera di traduzione: consideriamo l’opera teatrale come un frutto, per cui la lingua in cui è scritta rappresenta la buccia esterna mentre esiste un “nocciolo” di sedimentazioni estetiche e culturali che va anch’esso tradotto e traslato.

Cosa comporta a livello tecnico-formale? Esistono anche delle peculiari pratiche sceniche curde?

Dobbiamo forse precisare una cosa: ci riferiamo a una “cultura curda” ma è si tratta comunque di un concetto astratto. Attribuire una specifica nazionalità a una cultura, o a un certo tipo di teatro, si può fare fino a un certo punto dopodiché rischia di diventare un’affermazione “fascista”. In fondo il teatro greco delle origini faceva ampio uso di storie e personaggi della civiltà mesopotamica, in fondo quando reciti e scrivi sei sempre influenzato da svariate tradizioni e immaginari. Più nello specifico, come accennavamo, nell’area in cui operiamo esistono tracce di almeno quattro culture diverse: curdi, siriani, arabi, armeni… Una forma di narrazione o rappresentazione condivisa è certamente quella del dengbêj. Si tratta di un tipo di racconto cantato in qualche modo simile alla rapsodia greca, di cui spesso facciamo uso nei nostri spettacoli. Abbiamo per esempio messo in scena Amleto e Nozze di sangue attraverso la tecnica del dengbêj, che hanno riscosso un buon successo di pubblico.
La popolarità del dengbêj nella zona è, ancora una volta, significativa dal punto di vista politico. È evidente che questo metodo di narrazione è proprio di una cultura orale, come lo è la cultura in cui ci troviamo immersi qua in Kurdistan poiché non abbiamo una nazione. Viceversa, conservare la “memoria culturale” attraverso forme scritte è possibile solo in presenza di istituzioni, dunque di uno Stato. Ecco perché il dengbêj ha svolto e continua a svolgere la funzione di “ponte” e archivio culturale fra le popolazioni curde di Turchia, Sira, Iraq e Iran. Se la creazione di qualcosa di definibile come “teatro curdo” è possibile non si può prescindere da questo elemento, anche solo per l’influenza che esso ha sullo spettatore.

In che senso?

Ripetiamo che la modalità di fruizione culturale in cui siamo immersi, per lo meno quella relativa all’identità curda, è una modalità orale. Gli spettatori che assistono ai nostri spettacoli sono abituati a questo tipo di narrazione. Utilizziamo dunque il dengbêj spesso come prologo o come finale, per tirare le fila della storia che si sviluppa in scena e per far sì che tale storia possa essere seguita senza problemi. Oppure ce ne serviamo per aggiungere delle informazioni che contestualizzino le vicende. È però vero che ciò vale soprattutto per un pubblico più adulto, mentre la familiarità col dengbêj si sta perdendo fra i giovani. Ci piace dunque pensare che il teatro possa essere un mezzo per conservare e avvicinare a tale tecnica di narrazione.
Detto questo, i nostri spettacoli si rivolgono soprattutto a un pubblico popolare. Perciò utilizziamo un metodo di rappresentazione abbastanza classico e senza troppa sperimentazione, anche se ultimamente abbiamo iniziato a condurre laboratori e workshop in cui proviamo a prenderci maggiori libertà a livello di linguaggi. In generale lavoriamo a partire da una struttura scenica messa a punto dal nostro regista dentro a cui gli attori improvvisano nel corso delle prove sino ad arrivare a una forma definitiva. In tal senso crediamo che la capacità di improvvisazione sia una competenza imprescindibile per qualsiasi attore di buon livello.

Parliamo delle difficoltà attuali, dopo il cambio di governo municipale. Il pubblico è diminuito? Come fate fronte ai problemi finanziari?

Il numero di spettatori è diminuito ma continuiamo ad avere comunque un pubblico di “affezionati” che ci segue. In generale è evidente che gli ultimi sviluppi politici hanno instaurato un clima di paura per cui tanti, anche fra chi magari vorrebbe farci da sponsor o darci un piccolo sostegno economico, si trovano ora in difficoltà di supportarci. Ti faccio un esempio: c’era una ditta che durante gli anni scorsi si era offerta per finanziare il nostro festival ma noi ci siamo sempre rifiutati, usufruendo del contributo comunale. Ora che i fondi sono bloccati ci siamo rivolti a loro, che hanno però detto di no per timore di ripercussioni. È qualcosa che adesso accade dappertutto in Turchia: fornire aperto sostegno a iniziative curde è sempre più pericoloso.
Tuttavia c’è una forte differenza a livello di classe sociale. Chi è un po’ più ricco, gli imprenditori e i proprietari di aziende, nonché chi magari aveva un ruolo da impiegato pubblico durante il precedente governo comunale è ora maggiormente controllato e ricattabile. Chi invece sta più “in basso” non smette di schierarsi con noi e aiutarci per quanto è nelle sue forze.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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