altrevelocita-logo-nero
foto di Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

Alla larga da me. Compagnia Licia Lanera incontra due testi di Antonio Tarantino

di Damiano Pellegrino

Per quasi tutta la durata dello spettacolo Love me. Due pezzi di Antonio Tarantino della Compagnia Licia Lanera, prodotto da ERT – Emilia Romagna Teatro nell’ambito della stagione 2022/23, in programma a cavallo tra novembre e dicembre per dodici giorni di fila nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna e con in scena proprio la regista e interprete di Bari insieme a Suleiman Osuman, sei lettere a caratteri cubitali campeggiano davanti alla platea. LOVE ME. Amami. Ama me. Ma nei due testi di Antonio Tarantino, rispettivamente La scena e Medea, i rapporti umani sembrano calare a picco, essere ridotti a uno stato di estrema confusione e quiescenza.

Le due vicende a cui assistiamo si svolgono in città imprecisate, Kabul, Sarajevo, New York o Corinto, e in un tempo ignoto, in cui le leggi dell’amore e della natura giacciono sommerse. L’impressione più viva è che non sia affatto la parola amore a scorrere lungo queste due micro drammaturgie ma il lampo violento e impietoso della persecuzione. La regia di questo lavoro, credo, ha il merito di tenere bene in mente un’osservazione proposta da Elena De Angeli in un vecchio articolo del 2000, presente in un approfondimento dedicato alle nuove scritture capaci di meditare sul reale. A proposito della parola di Tarantino a teatro, l’autrice sottolinea come essa, in fondo, abbia la capacità di portarci sui marciapiedi della città, nell’inferno delle istituzioni globali, negli anfratti della diversità respinta, nella conflittualità solidale della miseria.

Se in questa società del nuovo millennio, immaginata da Tarantino, possono sussistere dei rapporti di reciprocità tra umani, essi si sorreggono unicamente attraverso capi d’accusa, sospetti, stereotipi persecutori, scambi ostili che tendono a moltiplicarsi e infine insulti e atti di violenza fisica che hanno per oggetto gli uomini stessi. E i protagonisti delle due storie, entrambi interpretati da Licia Lanera e i quali si dividono idealmente e simmetricamente l’intero spettacolo, affogano contro le proprie paure e contraddizioni, assediati come sono, e s’inceppano con i loro discorsi, laddove il destino sembra gravare sulle loro teste e andare a infrangersi, infine, verso il basso e in una direzione tossica e ineluttabile ma ugualmente mitica e imprevedibile.

In questo spettacolo nessuno finirà per farsi amare – che guaio – e, così, nella scena finale il gesso bianco mostrerà formalmente soltanto due delle sei lettere: ME. «Altro che amore. Parliamo di bidoni, fregature», dirà a un certo punto la stessa Medea, che nella riscrittura dilatata, insolente e sfacciata dell’autore torinese è ritratta in prigione ma determinata ad abiurare tutto il suo passato. «Non ho figli, mai avuto figli in vita mia. I bambini sono infetti come tutti noi. Puzzano». A quale scena, allora, dobbiamo credere? Se Medea non è più disegnata come un’assassina, a quale teatro dobbiamo dare retta? Mentre da una parte lo spazio attorno al corpo di Medea si rimpicciolisce con un muro di specchi che riflettono la figura in mille parti, dall’altra la sua versione dei fatti prende corpo e si solidifica, sputando fuori una voce impastata e molle, ma ostinata, imbizzarrita e necessaria ci sembra di capire. Nel primo dei due pezzi, La scena, un inedito di Antonio Tarantino mai rappresentato prima d’ora, invece, violenza e sovreccitazione sono suggerite nella scrittura da un paesaggio metropolitano intasato e mortificato, costituito da una coda di automobili incolonnate, canzonette, tv via cavo accese che moltiplicano immagini soporifere, semafori rossi a cui non è conveniente arrestarsi. Qui la circostanza è un incontro fatale e sbagliato tra un omino baffetti neri e accento del nord al volante con a seguito la fidanzata e un lavavetri nero. Incontro a cui è possibile non incorrere qualora si decida di tenere il pedale abbassato sull’acceleratore, infischiandosene delle regole stradali. Ma a questo incrocio la velocità s’incrina e il veicolo si ferma, dando seguito a un parapiglia che coinvolge anche un altro automobilista fanatico e riottoso, a metà tra un Enfribogart e un Perrimeson, che finirà per scappare con la fidanzata di quell’altro. Gli ingorghi e le strade trafficate diventano i nuovi set in cui inscenare piccoli atti di guerriglia suburbana, pullulanti di un nazionalismo perverso e violento contro lo straniero e in cui qualsiasi forma di pietà tra pari è negata perché pericolosa. Piuttosto che risalire alle cause naturali di una disgregazione dei rapporti umani che sembra essere in atto, l’affanno da parte del protagonista nella prima scrittura, La scena, è quello di rincorrere e agguantare nel corso della sua confidenza l’immagine di questo disastro civile, la scena più bella, che nel teatro di Lanera finisce per essere espansa, aumentata, moltiplicata come su uno specchio, e infine esausta. La scena più bella non è una soltanto o non esiste proprio. La scena più bella di questo spettacolo, forse, la cattura e la custodisce soltanto Suleiman Osuman, figura emblematica che condivide per tutto il tempo il palco insieme all’interprete quasi in silenzio e si gode dalla poltrona il repentino sciogliersi di queste due figure. È lui che conserva dentro di se la scena più bella di queste due micro storie. L’immagine espiata che noi spettatori non scopriremo mai e che il teatro è abile a fare sparire.

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.