Lo scenario sonoro è caotico, gli scambi di battute brevi, disturbati. «Quando si ha a che fare con la traduzione – racconta il poeta statunitense John Giorno – bisogna sempre sperare per il meglio! Le parole si trasformano, entrano in altre sfere linguistiche e culturali. La poesia diventa ‘altra’ rispetto a se stessa. Dieci anni fa un amico mi ha chiesto una delle mie poesie per fare un esperimento: l’ha mandata a sette traduttori diversi per vedere cosa ne sarebbe venuto fuori. Era una poesia non troppo lunga, di circa una pagina e mezzo. E fu straordinario perché le risultanti traduzioni erano a volte estremamente diverse tra loro, pur provenendo dallo stesso testo. Beh, è così che funziona!».
Da poco, con Someone in Hell Loves You di Kinkaleri, andato in scena al Festival di Terni e a Contemporanea 13, Prato, si è vista ascoltata e accolta la contaminazione poetica di John Giorno, rivoluzionario della parola, parente prossimo della Beat Generation, e quella della danza antivirale del progetto All!. Il lavoro, tappa più recente del percorso modulare, ha spronato l’approfondimento e ha condotto a una lunga conversazione con Kinkaleri.
Nell’incontro con i versi di Burroughs, Kerouac, Giorno, avete sempre scelto di relazionarvi con i suoni e le forme di una poesia tradotta?
Marco Mazzoni: Si, nella maggior parte dei casi ci siamo trovati a lavorare con delle poesie in italiano con cui dal punto di vista linguistico e mnemonico riuscivamo a relazionarci meglio. Per i progetti sonori abbiamo anche lavorato con del materiale in inglese. Però sai, la lettera tratta di evocazioni e con il gesto l’idea fonetica viene meno perché prevale quella strutturale. Si parla direttamente con il corpo e a quel punto è più funzionale relazionarsi con la lingua di appartenenza.
Massimo Conti: Rispetto al discorso sulla facilità poi, ci sono anche altre questioni: tieni conto che il danzatore deve gestire da una parte una gabbia, dall’altra la libertà di interpretazione, dall’altra ancora il pensare a dove si trova e a cosa sta dicendo, quindi entrano in gioco una serie di elementi che devono tutelarne la consapevolezza. L’equilibrio tra le parti è molto labile. Tutta la bellezza di questa operazione è che si acquisisce un codice, ma è esattamente come quando si scrive: se la scrittura è serena, si raggiunge una libertà che esprime l’identità della grafia.
Qual è stato il rapporto tra testo poetico e corpo nella fase di creazione del codice gestuale?
Marco Mazzoni: L’alfabeto nasce a priori e risponde all’idea stessa di coreografia. Doveva essere un metodo per permettere al corpo, attraverso una regola abbastanza ferrea, di potersi muovere nello spazio producendo segni precisi. Quindi, quasi tutte le lettere si eseguono con la parte superiore del corpo e concedono di spostarsi durante l’esecuzione; altre sono state pensate perché creano dinamismo e conducono alla lettera successiva. Sono tutti ‘stratagemmi’ che ampliano le possibilità compositive della scena e che naturalmente hanno una chiara cifra stilistica. Poi, una delle domande fondamentali che ci siamo posti era quanto questo codice potesse essere ricostituito e ridefinito, per cui ci sono gesti di raccordo, movimenti aggiunti. Diciamo che quella della scrittura è la fase di confronto più importante.
Il progetto All! ha messo al centro diversi linguaggi e diverse forme sceniche, dalla coreografia pura (Fake for Gun No you) al concerto (Twothousand), mentre Someone in Hell Loves you recupera la ‘parola parlata’. Come siete arrivati a una forma di intervista che include la presentazione del vostro alfabeto e la biografia di John Giorno?
Massimo Conti: L’intervista resta un incontro tra più identità, più corpi, più biografie, ma non è mai un rapporto con la verità, o meglio, lo è quando si trasforma in letteratura. Perché proprio nel momento in cui quella parte della perfomance potrebbe diventare più naturale e naturalistica possibile, è l’idea di costruzione a farsi evidente. È come se ne avessimo costruito il racconto. Allora, qualsiasi idea di ‘spiegazione’ diventa relativa. Giorno è un personaggio talmente abituato alla relazione tra il fare e le domande che gli vengono poste, che le sue risposte spesso coincidono; quindi l’incontro tra persone ha avuto una dimensione formale e artificiale molto forte. Sono stati dei codici a legarsi tra loro.
Marco Mazzoni: Il fatto che siano state spese delle parole potrebbe offuscare l’idea di costruzione scenica che esiste anche in quello che, per certi versi, è stato uno scambio superficiale. I livelli erano vari: dalla battuta al frammento di vita, al rapporto diretto tra Giorno, la sua poesia e il suo corpo. Così si è innescata una relazione a quattro, anzi direi a cinque includendo lo scheletro che è in scena, e che nel suo essere semplicemente poggiato a terra alleggerisce un segno e può diventare commento: è un corpo che si porta dietro la sua rappresentazione. Questo per noi era l’oggetto d’analisi – la scena di per sé – non tanto il suo contenuto. E la dinamica compositiva credo sia evidente, tanto per la struttura interna di quel momento, quanto per il modo in cui viene abbandonato per passare alla performance di Giorno di It doesn’t get better.
Massimo Conti: Infatti, rispetto a questo lavoro credo che i punti più interessanti siano nei passaggi: ogni situazione è tracimata nell’altra, come in un sistema di vasi comunicanti. Si parte e si torna alla poesia, questa volta con una voce diretta, ma dall’inizio tutto è cambiato. In più, ed è una sorta di ‘novità’ all’interno di All! e del rapporto codice – letteratura, le varie parti della composizione sono anche il risultato di un lavoro sugli stereotipi coreografici, un confronto con i canoni. Ingresso, uscita, solo, duetto, terzetto. Quando siamo partiti con All! l’intenzione era quella di comunicare al pubblico una parola poetica traslata in altra forma, qui si è portato avanti anche un discorso di tipo strettamente coreografico.
Gina Monaco: Riguardo la questione del transito c’è stato un affondo progressivo. Con l’intervista frontalmente riproducevamo una situazione molto stereotipata, difficile da maneggiare, e soprattutto nella replica di Prato abbiamo strutturato ancora di più le situazioni di passaggio, inglobando Giorno in un sistema dinamico, ma anche incastonando l’intervista in una dimsi trova a doverensione più rigida, nel rispetto di regole ritmiche precise.
Che tipo di funzione ha svolto la musica in scena?
Massimo Conti: All’inizio, trasportati dall’idea di voler lavorare sui canoni e sui rapporti classici della danza, il suono è servito da sostegno melodico, da accompagnamento. Poi, pur non rinunciando a questa funzione, è stato più a ridosso dei corpi per farne sentire la musicalità. Rispetto agli altri lavori invece, sono cambiati i rapporti tra il reale e la rappresentazione. In Fake For Gun No you, per esempio, la registrazione d’esterno creava un cortocircuito con quella d’interno e c’era una confusione tra due ambienti sonori. Qui gli elementi sono gli stessi, ma sono tutti rappresentati. Il battito del cuore, i feed recordings di Cage, i brani di Miles Davis e dei Pink Floyd sono registrazioni che evocano un esterno o un interno. Le tracce di Cage sono state registrate in delle stazioni, per cui c’è il rumore del treno, le processioni, le voci di ragazzini che cantano. Mentre la composizione è live e poggia su un gioco di emersioni e scomparse sonore.
Nel caso dei concerti invece – mi riferisco a Twothousand, Threethousand, Fourthousand – che relazione si instaura tra il suono e il corpo del danzatore?
Marco Mazzoni: In quel caso il rapporto è molto più urbano, molto più punk, se vuoi. Intanto si lavora con dei musicisti e si tratta di sonorità diverse. L’unica cosa che accomuna tra loro i concerti è l’uso di un cut up di Burroughs che per noi diventa una traccia per comporre i quattro o cinque brani che costituiscono la performance. Sono lavori che includono la relazione con i musicisti, ma anche molte delle scoperte fatte durante il percorso di All!: non a caso adesso alcune parti vengono strutturate sonoramente attraverso l’utilizzo del codice, che si trasforma in qualcosa che ha a che vedere con l’idea di dizione e si esplicita in un sonoro più evidente, più spettacolare. Si tratta di nicchie di sperimentazione pura, dove i pensieri sono pochi: c’è un incontro di quattro giorni, si lavora, e poi si presenta. Ci rifacciamo di più a un’idea di improvvisazione jazz, piegata alla performance del momento, che certo può essere ripetuta anche con lo stesso musicista, ma non sarà mai uguale.
Vorrei ora parlare di un’altra delle esperienze che i Kinkaleri hanno condiviso con John Giorno, durante il Festival della Creazione Contemporanea di Terni. Pasto Pubblico. Poesia al telefono I All! ha permesso di richiamare una delle pratiche di diffusione della poesia promossa da Giorno verso la fine degli anni Sessanta: il Dial-a-poem. Cosa potete raccontarci a riguardo?
Massimo Conti: Negli anni Sessanta il Dial-a-poem ha permesso di divulgare il testo poetico sfruttando i mezzi disponibili: telefono, registrazioni. Trasportarlo nella dimensione contemporanea, per noi ha significato cogliere l’occasione per rinnovarlo e ampliarlo. Per cui l’esperienza originale viene citata, ma ha potenzialità ancora maggiori e un’ulteriore bellezza. Per esempio, è seducente che i rapporti ambientali siano mutati: vista la mobilità del mezzo ora possono entrare in connessione ambienti diversi. Chi dice la poesia può essere in qualsiasi luogo, così come chi la richiede; e il suono potrebbe sovrapporsi a quello di un supermercato o al silenzio della propria casa. Potenzialmente questa e’ una possibilità di ascolto indirizzata a tutti.
Marco Mazzoni: Poi c’è stato il rapporto uno a uno dal vivo. Il Dial-a-poem originale coinvolgeva una serie di poeti che perlopiù utilizzavano delle registrazioni, non c’era il live. Qui l’idea della divulgazione si è attuata nella relazione diretta con chi leggeva.
La parola a John Giorno*
Sull progetto Dial-a-poem, estratti di conversazione con John Giorno
Dial-a-poem: origini e sviluppi.
Era un periodo storico di grandi cambiamenti, un momento in cui la tecnologia compiva i primi passi nel mondo della poesia e dell’arte. Nel 2012 il MOMA ha realizzato una retrospettiva sul lavoro degli anni Settanta. Questo interessamento indica chiaramente l’importanza e la contemporaneità del progetto.
Il primo Dial-a-poem risale al 1968, riuniva poeti molto diversi, da quelli lirici a quelli più controversi e innovativi, e le loro opere. Due anni dopo il progetto fu ospitato al MOMA; in quel momento molte cose erano cambiate, ero più attivo sul fronte politico ed è stato coinvolto un maggior numero di poeti radicali, senza escludere quelli più conservatori e classici. Per la retrospettiva del 2012 però, ho dovuto rimuoverli dalla mostra perché considerati critici in un momento in cui Occupy Wall Street faceva ribollire la città. C’erano anche esponenti della Weather Underground Organization, miei amici, che avevano gli stessi obiettivi del movimento di Zuccotti Park.
Non mi è mai capitato di rifarlo. Quando me l’ha chiesto il MOMA l’ho riproposto, ma era diventato un frammento di storia, non più un lavoro in divenire. Una specie di archivio di documentazione di trent’anni di poesia. Ora fa parte della nostra cultura, ma allora, era la prima volta che il telefono veniva usato come mezzo di comunicazione di massa. Ho avuto la fortuna di avere l’idea di mettere insieme il telefono, la giusta promozione e dei contenuti ricchi di significato. Sono bastati quegli elementi per attirare milioni di persone e aprire nuove strade.
L’Era 2.0
Per me è una gioia. Internet è il proseguimento, in un certo senso, della mia operazione. Siamo in un’epoca d’oro della comunicazione e abbiamo infiniti strumenti e un bacino di utenza incredibilmente vasto con cui condividere i nostri pensieri e le nostre ispirazioni. Certo è un luogo dove gira di tutto, anche poesia infima e arte inutile, ma è comunque un luogo magico.
A cura di Francesca Bini con la collaborazione di Michelle Davis
fotografia di Ilaria Costanzo
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.