L’intervista che segue racconta il progetto de La Soffitta “A sud del teatro”, a cura di Gerardo Guccini; il focus approfondisce tre diverse esperienze teatrali (il lavoro di Saverio La Ruina in programma dal 13 al 15 marzo, la poetica di Punta Corsara dal 9 all’11 aprile, infine il percorso di Enzo Moscato il 2 e 4 maggio) che provengono non solo geograficamente dal sud dell’Italia ma che ne incarnano la cultura e l’anima. La nostra intervista, originariamente, prevedeva un dialogo con il professor Guccini; sorprendentemente però, durante l’incontro, abbiamo avuto il piacere di poter parlare anche con Saverio La Ruina in persona. Come nasce il progetto A sud del teatro? Gerardo Guccini: Cominciamo dal titolo: A sud del teatro è un’espressione che indica un’entità radicalmente diversa rispetto all’affermare a sud dell’Italia, perché in quest’ultimo caso si parla di luoghi geografici, mentre A sud del teatro identifica un luogo culturale che non si esaurisce nella dimensione della pura collocazione spaziale. Si tratta di luoghi provvisti di una molteplicità di teatri che presentano affinità reciproche, come a indicare una costellazione, creata in grandissima parte grazie alla vita del dialetto. Non si tratta tanto di una buona lingua quotidiana radicata nelle tradizioni, ma teatralmente rappresenta, in maniera quasi immediata, la lingua dell’altro. Il dialetto parla al carattere, dice il personaggio, svela il pensiero, contiene il gesto: è quasi personaggio. Attiva una dimensione teatrale che è intrisa di valori identitari e caratteriali. Come avete scelto le personalità che danno corpo al progetto? G.G: Ricordiamo innanzitutto Saverio La Ruina, che figura nel panorama nazionale come un artista che ha fatto precipitare la narrazione nel personaggio, un procedimento non sarebbe stato possibile in assenza di un dialetto dominato e vivo, capace di aggregare dentro sé presenze identitarie. Ritroviamo simili caratteristiche anche negli altri artisti inclusi nel progetto, come Enzo Moscato, attore e autore la cui lingua si presenta come una straordinaria letteratura orale. Parliamo di un uomo coltissimo che, pur alla luce degli studi semiotici e filosofici, mantiene viva dentro di sé la sua origine napoletana. Essa è trascendente, non nel senso che va in un’altra materia, ma come individuazione di una estensione del reale tramite il linguaggio; Nel caso di Moscato questo include la realtà della morte, essa stessa parte essenziale della vita. Ciò che intercetta il dialetto e lo rende teatro è un’oralità di pregnanza letteraria e politica. A differenza di quanto accade con La Ruina, qui il dialetto è veicolo di visioni antropologiche, di una realtà che include al proprio interno il suo corrompersi e disfarsi. Altro importante realtà presente in A sud del teatro è la compagnia napoletana Punta Corsara, diretta da Emanuele Valenti, che nasce dal progetto Arrevuoto diretto a Napoli e Scampia da Marco Martinelli del Teatro delle Albe, semi-nordico che però lavora con il dialetto e ne conosce le proprietà. Qui, abbiamo un dialetto come lingua comune allo spettatore e che consente di dare vita al gioco del teatro: sollevare il riso, precipitare nella commozione, in un patto elastico e tacito. Pensiamo al napoletano, che si presenta come figura conosciuta nell’immaginario linguistico, anche se non se ne comprendono tutte le espressioni: Totò, Peppino, Eduardo, per esempio, appartengono a questa lingua di maschere perpetue. In Punta Corsara la lingua utilizzata è veicolo di autenticità, è materna, sorgiva. Non a caso, infatti, la compagnia si è avvicinata a Molière e ad Amleto con una riscrittura contemporanea, perché il dialetto permette di “rivestire” l’identità contemporanea, i fantasmi e le passioni dell’antico, che non sono più visti come parte di un mondo trascorso ma vengono ringiovaniti nell’essere detti. Il “ringiovanire” è una caratteristica portante di Punta Corsara, e ancor prima di Martinelli, che ringiovanisce Plauto, Goldoni e così via. Insomma, A sud del teatro mostra tre registri diversi ma percorsi dalla familiarità di una lingua che sa essere piena, presente. Per quel che riguarda strettamente invece gli spettacoli di Saverio La Ruina? G.G: In questi giorni abbiamo tre spettacoli. Il primo, in scena il 13 marzo, l’ultimo che ha debuttato a livello cronologico, è Masculo e fìammina ed è unito in un dittico a Dissonorata: si parla infatti della piccola umanità che parla ed esiste attraverso il dialetto. In Dissonorata, che vedremo il 15 marzo, siamo di fronte a una donna che vive una situazione di ferocia familiare che la isola, la circoscrive, impedendole una vita amorosa. Lei però reagisce con una forza incrollabile di mitezza, d’acciaio. Dissonorata è un personaggio oscuro, perché contiene immagini di indecifrabilità; spesso immagini prive della facoltà a dirsi, o possibili a dirsi ma con un fil di voce: se non le senti, quasi è meglio. La sua voce è così sottile che induce lo spettatore a pensare che questo silenzio sia la condizione prima del parlarsi. Non è un personaggio che esclude o rivendica, ma confessa la sua vita come un baco secerne un filo di seta. Non è una vittima, ma al contempo non ha alcuna caratteristica delle non-vittime: non si vendica ma resiste fedele a una identità per cui è dogma essere marginali e miti marginale e mitezza. Eppure lei rimane lì, non precipita. In Masculo e fìammina troviamo invece un personaggio notturno. È la storia di un omosessuale, di un personaggio collocato in una tomba innevata, quella della madre. Saverio La Ruina: la differenza dagli altri monologhi sta proprio nel fatto che qui il personaggio non si rivolge al pubblico, almeno non direttamente, ma cambia la prospettiva e si rivolge alla madre che gli è accanto nel palcoscenico, anche se ovviamente si recupera sempre lo sguardo del pubblico. Quando lo spazio lo permette, cerco addirittura di scomparire dalla scena per rendere l’armonia del personaggio molto più forte. Emblematicamente, è anche parte del lavoro di sottrazione che provo a fare. L’attore non si mostra, sparisce. C’è un pudore proprio di chi non è rivendicatore frontale, di chi non aggredisce. E forse così ottiene anche un ascolto maggiore. G.G.: in Polvere, invece, in scena il 14 marzo, si parla l’italiano, che si adatta bene al “cattivo”. Si tratta di un dialogo tra attore e attrice, di una storia di sopraffazione psicologica, meno riconoscibile di quella fisica e per questo ancora più potente. S.L.R.: in tutto questo, l’italiano è importante perché il mio obiettivo era sfuggire dal pericolo che il rapporto potesse essere letto come un problema di una famiglia povera e proletaria che reagisce come può, come se questo fosse frutto soltanto di una certa classe. Non è così, è un tipo di violenza raggiunge tutti, anche in altri contesti sociali. Questi protagonisti, tra l’altro, non appartengono alla fascia popolare: lui è fotografo dell’Espresso, lei un’insegnante. G.G.: infine, credo che questa violenza sia resa in italiano anche perché il dialetto qui sarebbe poco efficace. Il dialetto non può essere freddo, mentre l’italiano a volte sembra una lingua raggelata, come fosse una lingua non-madre.
Francesca Lombardi, Sofia Longhini
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.