Dove potrà mai stare un posto sicuro in mezzo a tanti orrori? L’orrore di un mare, il Mediterraneo, che oramai è diventato una fossa comune. L’orrore della guardia costiera libica che arriva persino a sparare su chi prova a salvare naufraghi. L’orrore delle troppe imbarcazioni da salvare, che costringe a lasciarne non poche al loro atroce destino. L’orrore di un massaggio cardiaco che non riesce e fa restare tra le pieghe delle mani della volontaria che lo esegue i brandelli della pelle ustionata di un bel corpo di ragazza oramai cadavere. L’orrore del tanfo di escrementi, benzina, sangue, mare e sudore che impregna tutto sulla nave di soccorso. L’orrore del giornalista a caccia di sensazioni forti a condimento del suo solito reportage che insiste nel farsi raccontare di torture seppur mai avvenute. L’orrore dell’assuefazione al fatto di per sé intollerabile, ma troppe volte ascoltato, di violenze e stupri subiti dalle migranti ma anche dai migranti. L’orrore dello spaesamento, del pericolo del crollo interiore che sempre incalzano ogni membro dell’equipaggio dei soccorritori quotidianamente esposti a fatiche stroncanti, paure, dolori, traumi psichici. L’orrore del vivere all’ininterrotta ricerca di migranti a rischio annegamento, ma anche in fuga da una oramai quasi dimenticata vita “normale”. L’orrore di ascoltare strazianti richieste di aiuto che attraversano l’etere prima dell’affondamento e dovere rispondere che è altrove, a Malta, che ci si deve rivolgere. L’orrore della abietta opinione per la quale “se ne annegano sempre troppo pochi”. L’orrore delle calunnie contro le navi di soccorso tacciate di essere conniventi coi trafficanti di esseri umani. L’”orrore” della rarità di scambi di parole tra soccorritori e soccorsi, tra quali anche se risuona improvvisamente un “grazie di avermi salvato la vita!” il destinatario resta più pensoso che soddisfatto di sé.
Sì, decisamente il posto sicuro in A place of safety di Kepler-452 è come il porto sicuro che le attuali persecutorie misure governative rendono miraggio sempre più lontano: non si sa dove trovarlo, si finisce per disperare persino che esista da qualche parte. Eppure, poi, d’improvviso, sia pur per un breve e precario momento euforico, di gioia piena, ce lo si ritroverà proprio dove non ce lo si aspettava: prima dell’attracco tanto atteso, ma oramai presagito poco o nulla accogliente, e dopo gli abissi di dolore e morte appena provati. È infatti sul ponte della stessa Sea Watch 5 in vista dell’approdo che, complici una chitarra e un chitarrista entrambi lì per caso, si scatena una pazza festa dove nel ballo tutti si ritrovano, diversi, estranei eppur assieme come difficilmente lo si può essere altrimenti. Eccolo il posto sicuro dove nonostante tutto si può sentire con certezza che un’umanità in un qualche strano modo può esistere.
La pièce – prodotta da Emilia-Romagna Teatro e dal teatro Metastasio di Prato in collaborazione con Sea Watch ed Emergency, regia di Kepler-452 ossia di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi (anche attore in scena) – si avvale, come d’abitudine nei lavori della compagnia, del protagonismo degli stessi testimoni della realtà rievocata, in questo caso le attività di soccorso in mare dei migranti. Sulla scena sono dunque in otto: il capo missione, il fisico portoghese Miguel; il figlio di immigrati messicani ora residente a Houston, Josè, il più estroverso e chiassoso; Giorgia, giurista e portavoce di Sea Watch; Floriana, infermiera formatasi in pronto soccorso; il più anziano Flavio, ingegnere e ufficiale di Marina, con ben ventidue operazioni di salvataggio nel suo curriculum. Tutti si alternano, si raccolgono, si intersecano sulla scena assieme allo stesso Nicola Borghesi, su uno sfondo quanto mai sobrio ed efficace nel rievocare dettagli della stessa barca tra i quali primeggiano onnipresenti salvagente arancioni, ulteriori protagonisti sia pur inanimati di tutto lo spettacolo (le scene sono a cura di Alberto Fabietto, mentre musiche e movimenti di Massimo Carozzi e Marta Ciappina). La narrazione delle storie, dei ricordi, delle impressioni da parte dei membri dell’equipaggio, in una mescolanza di lingue e punti di vista diversificati catturano l’attenzione dello spettatore anche se già a conoscenza della tematica rappresentata. Ai testimoni in scena non è dunque richiesto tanto di recitare, quanto di ricordare, rievocare, confessarsi nel modo più intimo e diretto come in una intervista dove l’interlocutore è lo stesso pubblico, sollecitato nel recepire e far suo il contenuto del racconto.

L’impronta resta in ogni caso quella giornalistica. Tutto nasce infatti dall’esperienza di permanenza prolungata sulla Sea Watch 5 fatta da Baraldi e Borghesi, che ne ha poi scritto per Il Fatto Quotidiano. Lo spettatore si trova così difronte ad una sorta di reportage che si fa teatro. Gesto che lo stesso Borghesi tramite alcune battute ironiche fa segno di ritenere alternativo rispetto a uno scontato “fare Shakespeare” secondo i canoni del mestiere. Passaggio che di per sé meriterebbe tutta una discussione a parte. Resta che l’importante in A place of safety è che il messaggio arrivi. E i riscontri di pubblico e critica gli danno certo ragione. Né si può negare che la causa meriti comunque più clamore che mai. La pièce in questione può essere assunta infatti come una sorta di minimo e implicito manifesto contro le criminali e devastanti politiche di immigrazione attualmente in vigore. Non solo le politiche volute da quelli che, terrorizzati dal divenire del mondo, prima di vedere svanire i privilegi goduti dal sempre più vetusto occidente, vogliono vendere cara la pelle come a “Fort Alamo”, sterminando alla cieca (anche con l’uso del Mediterraneo come arma) il nuovo che in ogni caso avanza, ma anche le politiche di quelli che fanno di tutto per arginare o al meglio “integrare” i flussi degli stranieri poveri, mentre stendono tappeti ovunque arrivano stranieri ricchi, quegli oligarchi pieni di esorbitanti capitali, loro sì pericolosi disintegratori di ogni realtà sociale esistente. Evviva dunque a Sea Watch, a Emergency, e a Kepler-452 che ne fa irrompere personaggi, immagini e voci anche in teatro!
Così si conferma se ce ne fosse bisogno il successo ottenuto da Kepler-425 del precedente Il capitale. Un libro che non abbiamo mai letto, vincitore del premio Ubu, rappresentato numerose volte in Italia e all’estero, già a suo tempo recensito anche in Altre Velocità. Lì il tema era la realtà della Gkn fabbrica di Campi Bisenzio (Firenze) di un collettivo di operai, inizialmente più di 400, dall’estate del 2019 quanto mai attivi nell’occupazione della propria fabbrica e nel rispondere alle torbide e contraddittorie manovre volte al loro licenziamento. Una lotta a tutt’oggi niente affatto conclusa la cui fama e qualità politica sono cresciute insieme coinvolgendo non solo altre realtà operaie, ma anche ricercatori universitari di varie discipline, noti intellettuali e artisti a livello europeo, fino a prefigurare una nuova esperienza di lavoro cooperativo. Kepler-452 può così vantare di avere saputo cogliere e promuovere con le proprie iniziative due tra le più significative esperienze politiche alternative a quel puro trafficare con potere e istituzioni che fa il mestiere dei politicanti. Fermo restando che qualche sporadico spettatore, forse pure fuori tempo massimo, possa sognare che argomenti simili diventino materia anche di un teatro “meno ibrido” di quel documentarismo praticato sia pur al meglio dai due nostri Baraldi e Borghesi. Già da tempo, il filosofo francese Alain Badiou nel suo Rapsodia per il teatro parlava di «un “teatro” della fine del teatro»: che la presa in prestito di linguaggi da una qualche tradizione “di mestiere” consolidato o da un reportage, per quanto brillante, rischi di confermare una tale tendenza?