Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa e di un ciclo di interviste e reportage dedicati all’Ucraina, la cui introduzione è possibile leggere qui.
Nel periodo di poco successivo al crollo dell’Unione Sovietica a Kharkov (la seconda città dell’Ucraina) viene fondata Новая Сцена – “Nuova Scena”, una realtà che resiste tutt’oggi pur con molti cambiamenti. Tra festival, laboratori, concorsi e una produzione pressoché continua di spettacoli, la struttura è riuscita a riunire compagnie e registi indipendenti della città, spesso avviando collaborazioni anche con artisti stranieri.
Abbiamo incontrato il regista Николай Осипов (Nikolai Osipov) e l’attrice Ольга Солонецкая (Olga Solonezkaja), provando a capire assieme a loro come si è evoluto nel corso del tempo il loro approccio scenico e quali sfide hanno dovuto di volta in volta affrontare per mantenere attiva la sala, con un occhio di riguardo anche ai recenti conflitti di Crimea e Donbass.
Nuova scena” è stata fondata nel 1991, durante i primi momenti di indipendenza del paese. Cosa vi ha spinti a creare un’associazione di questo tipo?
Quelli del crollo dell’URSS erano tempi molto instabili e non era assolutamente chiaro per quanto la nostra associazione avrebbe potuto resistere in un contesto simile. Il nostro intento era quello di raccogliere e unire tutte le forze artistiche presenti non solo nella nostra città ma anche dall’estero (abbiamo avuto ospiti dalla Germania, dall’Austria, dagli Stati Uniti…). Perciò per prima cosa abbiamo dato vita a dei festival multidisciplinari (“Cult Moderna” era uno di questi), che comprendevano teatro, musica, pittura, fotografia e persino “design d’avanguardia”. Devo dire che c’era un interesse diffuso verso ogni campo artistico, si percepiva che i tempi stavano cambiando e si voleva seguire l’evoluzione dell’arte. Eravamo più poveri di ora, ma anche più attivi a livello artistico. Al contrario oggi mi pare che domini il modello del business, ci si focalizza solo su come vendere o comprare determinati prodotti…
Dopo un po’ abbiamo infatti notato come la partecipazione ai nostri festival stesse scemando. Ci siamo dunque concentrati sul contesto culturale di Karkhov, capendo che forse era necessario dare una maggiore continuità alle nostre azioni ed essere più incisivi nell’ambiente cittadino. Ci siamo accorti cioè che tutte le istituzioni culturali – musei, teatri, sale da concerto – erano parecchio conservatrici. Abbiamo allora dato vita a progetti più piccoli dei festival ma maggiormente disseminati nell’arco della stagione e abbiamo cercato di collaborare il più possibile con realtà già esistenti, come per esempio le accademie musicali, per avviare concorsi o eventi di varia natura. Oppure ci siamo anche occupati di istituire delle master-class su varie discipline teatrali, invitando artisti ed esperti dall’estero (ne abbiamo avuta una sulla danza contemporanea con coreografi dall’Olanda, per esempio), o ancora allestendo delle “maratone”, vale a dire lunghe serie (anche 30-40 giorni) di programmazione continua di spettacoli.
Penso che siamo davvero riusciti ad “accendere” tanti momenti di creatività. Per il nostro anniversario organizzeremo una retrospettiva, anche per tentare un bilancio di questo lungo ciclo.
Immagino che in tutto questo tempo anche il vostro approccio al teatro si sia evoluto…
Certamente abbiamo sempre cercato di interpretare il momento storico in cui ci trovavamo e di “adattare” ad esso le nostre azioni. Come dicevo in precedenza, il contesto culturale è molto cambiato rispetto al periodo appena successivo all’indipendenza. Lo si percepisce anche a livello di educazione del pubblico: se prima bene o male tutti avevano presente le storie originali dei grandi classici del teatro, ora questa conoscenza di base sta scomparendo. È chiaro che ciò influenza il tuo lavoro sul testo, ci sono molti meno elementi che puoi dare per scontati.
Oltre a questo, è mutata l’atmosfera generale delle società. Anche per via dei conflitti in corso, nel nostro territorio è ora un periodo difficile. Prima c’era una maggiore esigenza di performance “aggressive”, che scuotessero le persone tirandole fuori dalla loro “bolla di comfort anestetizzante”. Adesso no, adesso sono i rapporti inter-individuali ad essere diventati più tesi e violenti, c’è molto disorientamento rispetto alla propria identità e rispetto a cosa si vuole fare con la propria vita. Ecco che allora quello che cerchiamo di offrire ora col teatro è la condivisione di uno “spazio” in cui ci ciascuno può prendere consapevolezza di se stesso innanzitutto come persona. La società sta diventando sempre più frenetica, anche per via delle evoluzioni tecnologiche, e sempre più concentrata sul commercio. Nessun rimpianto, occorre capire il tempo presente e provare a reagirvi. Come dicevo, la nostra risposta è quella di fare del teatro un momento in cui riuscire ancora a focalizzarsi e discutere di qualcosa di non transitorio, di eterno. Amore, Morte, Politica… alla fine sono questi gli argomenti di cui la scena si occupa da sempre.
Avete accennato ai conflitti di Crimea e Donbass. Stanno influenzando direttamente il vostro modo di procedere?
Non ci interessa produrre un teatro sociale che prenda una posizione netta, che dica chiaramente cosa sia giusto e cosa sia sbagliato Ci sembra disonesto nei confronti dello spettatore. Personalmente, proviamo empatia verso tutt’e due i fronti: è sempre una tragedia quando dei giovani forti e attivi sono costretti a morire ogni giorno. È un’intera generazione che sta scomparendo. L’unica flebile speranza è che il teatro possa metterci l’uno di fronte all’altro e ci faccia capire meglio cosa sta succedendo, seppur in maniera indiretta e allusiva.
Esistono già i media a fornire informazioni e opinioni franche su tali eventi. Noi, come artisti, non possiamo non reagire ma allo stesso tempo non dovremmo neanche snaturare il nostro ruolo. Pensiamo allora che il miglior modo per affrontare il problema sia mostralo attraverso prospettive differenti da quelle comuni, vale a dire creare uno spazio per un’osservazione più lucida.
Se parliamo di influenze a livello più pratico, i conflitti in Crimea e Donbass hanno creato un certo movimento di persone, non da ultimi di attori e registi teatrali. Conosco alcuni attori che si sono trasferiti in Donbass, perché non volevano vivere sotto la bandiera ucraina, e stanno proseguendo il loro percorso teatrale in quell’area, a detta loro in maniera più soddisfacente di prima. Da parte nostra cerchiamo di collaborare ai progetti che si propongono di portare aiuti umanitari alle vittime del conflitto, spesso dedichiamo parte del ricavato dei nostri spettacoli a iniziative di questo tipo.
Spostandoci più sul piano estetico, come preparate usualmente gli spettacoli? Qual è il metodo di lavoro attoriale che utilizzate?
In qualche modo, ci appoggiamo molto all’improvvisazione. Vogliamo cioè di lasciare gli attori il più possibile liberi di esprimere se stessi e il loro personale approccio alla scena. Ovviamente c’è tutta una serie di elementi della performance che vanno preparati minuziosamente – luci, scenografia, ritmo e andamento generale – ma, ecco, cerchiamo di costruire una struttura stabile su cui gli attori possano muoversi senza troppi vincoli.
È chiaro comunque che anche l’improvvisazione ha bisogno di momenti propedeutici. Facciamo in modo che gli attori acquisiscano una profonda consapevolezza dei temi che verranno trattati nello spettacolo, sul senso di quest’ultimo, dopodiché mettiamo a punto differenti toni e registri recitativi lasciandogli scegliere quello che sentono più adatto. Detto questo, ogni performance fa poi storia a sé. A volte siamo purtroppo costretti a mettere in scena anche in modi che non ci convincono del tutto ma che magari risultano maggiormente accattivanti per il pubblico. Non abbiamo alcun tipo di sponsor e questo ci serve per sopravvivere come struttura.
C’è però stata da poco una riforma della cultura in Ucraina. Pensate che non porterà a risultati significativi? Com’è la situazione generale dei rapporti fra teatro e governo?
In generale, il teatro è molto dipendente dalla situazione politica e amministrativa. Purtroppo risulta impossibile non venire a compromessi per continuare a produrre, il teatro ha comunque dei costi da sostenere e servono soldi anche solo per materiali e attrezzature “primitive” per la messa in scena. È giusto che sia il governo a finanziare in parte l’ambiente teatrale ma a patto che tale relazione sia gestita da persone competenti e realmente interessate alla cultura. Il governo deve cioè essere consapevole del perché il paese ha bisogno di teatro e crediamo che in generale i governi ucraini che si sono succeduti non abbiano affatto dimostrato di possedere tale consapevolezza.
Il problema è poi che non esistono, come succede in varie nazioni, sistemi di finanziamento diversi dall’aiuto diretto dello stato. Si capisce allora come ci sia il rischio che quest’ultimo eserciti un controllo sulla creazione scenica, imponendo determinati temi o proibendone altri. Nello specifico, a Kharkov sono presenti molte strutture: sette teatri statali più alcune realtà indipendenti. Al teatro drammatico Alexander Pushkin ha lavorato lo stesso direttore per 35 anni, occupando anche la posizione di regista! Prima era veramente difficile essere licenziati dagli stabili statali. Ora, invece, con la riforma si va nella direzione opposta, con contratti che vanno dagli uno ai tre anni. Non sappiamo quanto questo potrà essere positivo: immagino che molti si sposteranno in ruoli che non gli competono alla scadenza del loro contratto, per non perdere il proprio posto nella struttura, e ciò potrebbe creare forte instabilità nell’ambiente.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.