Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa
David Schwartz è uno dei promotori del progetto Platforma de teatru politic, che si propone di fare teatro da una prospettiva dichiaratamente politica e dichiaratamente “di sinistra” attraverso spettacoli che analizzano temi ed episodi generalmente marginalizzati dal discorso pubblico rumeno, come quelli relativi alla situazione e alla storia delle “minoranze” (comunità LGBT, donne, minatori, migranti…). Si tratta di un approccio impegnato, che intende non solo generare dibattiti (ogni performance è seguita da una discussione aperta) sulle problematiche di volta di volta evidenziate ma anche coinvolgere i loro protagonisti nel processo creativo, avviando operazioni di ricerca storica e raccolta di testimonianze sul campo. Sotto il cappello del progetto otto spettacoli sono già stati presentati o sono in lavorazione, ciascuno di essi riguardante una specifica e controversa tematica della storia rumena più o meno recente. Abbiamo tentato di estrapolare una domanda per ogni performance da porre a David Schwartz, nella speranza di fornire spunti di risposta alla questione più generale “che cosa dovrebbe essere oggi un teatro politico”?
Come si inserisce il vostro lavoro nel contesto rumeno? Qual è il vostro rapporto con il testo e come concepite il lavoro d’attore?
Tradizionalmente, il teatro rumeno è stato caratterizzato da un uso massiccio del corpo e dalla presenza quasi esclusiva di spettacoli basati sul movimento. Tuttavia l’attore era difficilmente trattato come un performer o come un corpo pensante. Al contrario, era nella maggior parte dei casi un burattino nelle mani del regista. Direi che le nuove generazioni hanno sviluppato una sorta di “allergia” a questo tipo di teatro e si sono concentrate molto di più sul testo. Noi stessi siamo principalmente focalizzati sul processo di scrittura, anche se credo che qualcosa di quella tradizione vada recuperato in quanto le azioni e i gesti dei corpo possono veicolare un forte messaggio politico. Ma c’è un altro elemento che spinge la scena rumena a occuparsi della scrittura: la mancanza di testi originali autoctoni e la generale marginalizzazione dei drammaturghi locali, specialmente di chi si occupa di problemi sociali e politici contemporanei. È per questo che durante gli ultimi anni gli sforzi sono andanti verso il tentativo di creare una “nuova tradizione” che sia radicata nel contesto locale. Il collettivo DramAcum è stato certamente fra i primi a iniziare tale processo di recupero della drammaturgia attorno ai primi dei 2000. Se vuoi raccontare le storie e le lotte relative alla tua città e al tuo paese è difficile farlo attraverso testi che arrivano dall’ovest europeo.
Born in the wrong place (Nati nel posto sbagliato) (2013)
scritto e diretto da Alice Monica Marinescu e David Schwartz
Born in the wrong place
La performance Born in the wrong place intreccia il racconto delle esperienze di cinque richiedenti asilo con frammenti estrapolati dalla Guida per ottenere la cittadinanza rumena per cittadini stranieri. Attraverso tale meccanismo si intende problematizzare e discutere questioni di cruciale importanza nel contesto globale contemporaneo, quali le politiche di contrasto dei flussi migratori attualmente messe in pratica nella loro contraddizione col bisogno di forza lavoro esterna necessaria allo sviluppo dell’economia capitalista, la richiesta di asilo, il diritto alla mobilità come diritto fondamentale degli individui e la strumentalizzazione dello “straniero” come capro espiatorio di questioni sociali ed economiche.
Il teatro può giocare un ruolo importante nel rafforzare il senso di comunità? Se sì, quale?
Certamente la pratica teatrale può contribuire nella costruzione di un senso forte di comunità, ma sono scettico sul fatto che questo possa avvenire automaticamente in ogni occasione. Nel caso di questa performance, ci eravamo prefissati due obiettivi principali. Innanzitutto, volevamo rafforzare e aiutare la comunità dei rifugiati, non solo attraverso lo spettacolo e le relative discussioni ma anche tramite l’istituzione di uno sportello di consulenza legale e pratica per le loro richieste d’asilo. Inoltre era nostra intenzione contrastare la propaganda di stampo razzista generalmente perpetrata dai media, costruendo e promuovendo una prospettiva diversa che mettesse in luce cosa significhi essere un migrante nell’attuale contesto rumeno e a quali battaglie si va incontro. Soprattutto su questo secondo punto eravamo non del tutto soddisfatti dei risultati ottenuti: la retorica xenofobica e anti-islamica è cresciuta sempre di più con la recente crisi migratoria e sta avendo un impatto enorme sulla società (si sono recentemente verificati diversi casi di attacchi contro immigrati di matrice razzista). Ci siamo dunque resi conto che era necessario integrare l’approccio artistico con uno più direttamente politico, vale a dire partecipare a manifestazioni e proteste in favore dei diritti dei migranti, produrre una vera e propria documentazione giornalistica sugli abusi da parte delle autorità etc. Oltre alle performance, dovevamo implicarci anche su altri livelli.
Heated minds (Teste calde) (2010)
scritto da Mihaela Michailov, diretto da David Schwartz
Heated minds (ph Monica Marinescu)
La performance Heated minds intende recuperare un pezzo di storia vissuta dalle prospettive degli attori sociali coinvolti negli eventi e “riattivarlo” all’interno della coscienza pubblica. La verità di tali eventi è rappresentata dalla somma di una molteplicità di punti di vista contraddittori, che rende dunque impossibile ridurla a una prospettiva unica. Lo spettacolo si focalizza sugli eventi accaduti a Bucarest dal 13 al 15 giugno 1990 ed è il risultato di un processo di documentazione operato basato su più metodi: interviste con i testimoni, resoconti giornalistici, report di differenti istituzioni e organizzazioni, discussioni, dibattiti pubblici, laboratori etc.
C’è spazio in teatro per qualcosa che può essere definito “verità”?
Ovviamente non esiste niente che possa ambire al titolo di “verità oggettiva”. Quello che abbiamo tentato di realizzare con questo lavoro è stata piuttosto un’operazione di “contro-propaganda” che fornisse più sfumature ed elementi di quanti ne offre generalmente la cosiddetta propaganda ufficiale. Abbiamo tentato cioè di abbozzare un’inedita cornice interpretativa con la quale leggere gli eventi storici, che non ambisce a essere oggettiva ma soggettivamente politica. Direi che è una cornice “critica” che intende offrire una miriade di prospettive soggettive differenti fra loro ma allo stesso tempo anche una chiave di lettura che permetta di orientarsi all’interno di tale molteplicità, nonché di interpretare in maniera più efficace la realtà e gli accadimenti storici. È in virtù di tale chiave di lettura che scegliamo di raccontare alcuni episodi piuttosto che altri: ogni processo di narrazione della storia è fazioso, tutto dipende dalla cornice interpretativa di partenza. E, vorrei sottolineare, questo non era per niente ovvio quando abbiamo iniziato a lavorare allo spettacolo: Heated Minds è uno dei nostri primi progetti relativi alla storia rumena e l’intento principale che lo animava era semplicemente la volontà di fornire una versione dei fatti alternativa a quella ufficiale. In qualche modo, dunque, abbiamo sì cercato di raggiungere una verità (più) oggettiva. Solo durante il processo di documentazione ci siamo accorti che avevamo bisogno di una prospettiva differente non solo sui fatti analizzati ma anche su noi stessi e sul nostro metodo di ricerca. Per questo, abbiamo tentato di superare i comuni cliché e prendere come obiettivo il raggiungimento di una “complessità” storica attraverso molteplici prospettive invece di una supposta oggettività della stessa.
Underground. Jiu Valley after 1989 (Sottoterra. La Jiu Valley dopo il 1989) (2012)
scritto da Mihaela Michailov, diretto da David Schwartz
Underground. The Jiu Valley after 1989
Underground. The Jiu Valley after 1989 è uno spettacolo che intende documentare la situazione dei minatori nell’epoca post-socialista a livello economico, lavorativo e di vita quotidiana. Il progetto porta sul palco una ricostruzione di racconti ed eventi che costituiscono la storia delle comunità dei minatori della Jiu Valley, che si trovano ancora perennemente in bilico fra sopravvivenza, emigrazione, scomparsa e ripresa. L’obiettivo è quello di rivalutare la cultura e le istanze di una delle categorie sociali spesso ignorata dal teatro rumeno dell’era post-socialista: la classe operaia.
Il teatro è una pratica intrinsecamente “borghese” oppure è possibile fare un teatro genuinamente popolare, un teatro per le masse?
Un teatro popolare può certamente esistere e, dal mio punto di vista, la sua possibilità dipende largamente dall’argomento che si sceglie per la propria performance. È ovvio che alcune tematiche interessano una fetta più ampia di persone rispetto ad altre, ma questo non è tutto. Ciò che secondo me è necessario è rompere con gli stereotipi cui veniamo sempre più abituati dai prodotti televisivi e dall’industria dell’intrattenimento. È importante dunque andare più in là per intercettare i reali bisogni e le reali lotte delle persone. Non è un processo facile, anche perché implica un lavoro su se stessi. Occorre infatti riuscire ad avvicinarsi personalmente, con le proprie emozioni, alle persone cui ci si intende rivolgere con la propria performance: significa provare a coinvolgerle nel processo artistico, discutere con loro e prestare attenzione massima alle loro reazioni successivamente allo spettacolo. Anche quando lavoriamo con attori professionisti, costruiamo delle “performance-conferenze” propedeutiche, in cui chiediamo a chi è “oggetto” dello spettacolo di dare un giudizio su come i protagonisti e le vicende vengono rappresentati. Ciò ti consente di capire quanto la direzione in cui stai andando sia fruttuosa o meno e ti rende maggiormente consapevole rispetto all’identità del tuo pubblico e delle battaglie che esso sta combattendo. La scommessa è che agendo su una molteplicità di piani allo stesso tempo, grazie all’intenso scambio di idee che questo comporta, si creino e si sviluppino solidarietà inaspettate: se mostri uno spettacolo sui minatori della Jiu Valley a una comunità di persone che stanno subendo uno sfratto, difficilmente otterrai attenzione o interesse. Se invece fai lo stesso dopo aver intessuto relazioni basate sul teatro, magari con una collaborazione di lungo termine, ecco che si creerà empatia poiché attraverso il processo artistico rendi evidente come i loro problemi e bisogni siano collegati in quanto causati dallo stesso sistema politico generale.
After Trajan and Decebalus (Dopo Traiano e Decebalo) (2013)
di e con Paul Dunca e Mihaela Michailov
Illustrazione per After Trajan and Decebalus
Com’era possibile condurre uno stile di vita “omosessuale” in Romania prima del 1989? Come funzionava il sistema repressivo e quali rituali di socializzazione venivano messi in pratica? Quali sono state le conseguenze dell’articolo 200, che prevedeva la punizione degli intercorsi sessuali fra persone dello stesso sesso con un periodo in prigione da 1 a 5 anni? Come sono proseguiti gli attacchi alla libertà di autodeterminazione individuale dopo il 1989? After Trajan and Decebalus è un frammento della storia invisibile della comunità omosessuale rumena prima e dopo il periodo socialista. I paradossi della propaganda hanno funzionato alla perfezione. Nonostante fosse ufficialmente proibita, è sempre esistita una “vita gay” in Romania.
Qual è la relazione fra teatro e identità? Pensi il teatro rafforzi le identità personali e collettive o piuttosto è un mezzo che le pone costantemente in crisi?
Direi che possono verificarsi tutt’e due i casi, dipende verso chi ti stai rivolgendo. In particolar modo con questa performance, era di enorme importanza che i membri della comunità LGBT presenti fra il pubblico si sentissero in connessione profonda con quanto accadeva sul palco. Allo stesso tempo, altri spettatori che al contrario non sono per nulla al corrente delle tematiche trattate o che le conoscono attraverso prospettive differenti da quelle che utilizziamo possono rimanere scioccati o quantomeno sorpresi da ciò a cui assistono. Per questi ultimi dunque l’attività scenica gioca senza dubbio un ruolo dirompente per quello che riguarda il modo di concepire l’identità, la storia e via discorrendo. Pertanto io direi che il teatro ha sia un potere “traumatizzante” che uno “curativo”. Ancora, dipende tutto da chi sta guardando e dal grado di coinvolgimento rispetto a ciò che avviene in scena. Gli stesso concetti di “dirompente” e “provocatorio” sono concetti relativi: anche sotto l’aspetto formale ed estetico, un elemento dello spettacolo può essere sperimentale e innovativo per alcune persone, probabilmente quelle maggiormente abituate ad andare a teatro, mentre per altre che provengono da contesti sociali e culturali diversi può rivelarsi completamente incomprensibile. Una conseguenza possibile di tutto ciò è il fallimento nel creare un linguaggio condiviso con il proprio pubblico. Perciò nel momento in cui si cerca di essere provocatori è cruciale tenere sempre a mente il contesto generale in cui si opera e il tipo di spettatore a cui ci si vuole rivolgere. Chi voglio turbare? E chi invece intendo supportare? In conclusione si tratta ancora una volta di una questione di classe.
Closer than close (Più prossimo della vicinanza) (2014)
collettivo artistico: Paul Dunca, Pompiliu Sterian, Renee Necleevici, Iudith Ardeleanu, Carmen Coțofană, David Schwartz, Dorotea Weissbuch, Eva Szemler, Alice Monica Marinescu, Marius Armașu, Mihaela Bîrlegi, Margareta Eschenazy, Rodica Dumitrache, Cristina Focșa, Ilie Zan, Cătălin Rulea, Ani One, Gabriela Anghel, Mihaela Michailov, Steliana Anghel, Katia Pascariu
Closer than close (fermo immagine dal video trailer)
Closer than close è una performance con non-attori in cui alcuni membri della casa di riposo Moses Rosen, facenti parte sia dei residenti che del personale, salgono sul palco per raccontare la loro vita quotidiana insieme, ricreando i piccoli rituali, le danze e le reminiscenze che la compongono. Si tratta di esplorare la forza e la debolezza delle loro relazioni, di capire cosa li tiene insieme e cosa imparano costantemente l’uno dall’altro. Closer than close descrive la vita di tutti i giorni in una casa di riposo.
Post scriptum (2013)
collettivo artistico: Judith Ardeleanu, Marius Armașu, Margareta Eschenazy, Lidia Fonea, Sybille Silvian, Pompiliu Sterian, Eva Szemler Lendvay, Dorotea Weissbuch. Paul Dunca, Alice Monica Marinescu, Mihaela Michailov, Katia Pascariu, David Schwartz, Jak Neumann
Scrivere una lettera rappresenta un atto politico e culturale che costituisce la testimonianza di una comunicazione a metà fra personale e sociale. In Post scriptum i residenti della casa di riposo Moses Rosen parlano di chi ha scritto la prima lettera che hanno ricevuto in vita loro, di come è avvenuto il “rituale” di lettura, dei destinatari a cui hanno inviato lettere d’amore e di cosa scriverebbero in un’ipotetica lettera a un politico. “Post scriptum” mette in scena un rituale sociale che sta sempre più scomparendo.
Qual è il rapporto fra teatro e rito? Sono due facce della stessa medaglia?
Queste due performance sono il risultato di una relazione che dura ormai da 6 anni con i membri residenti della casa di riposo Moses Rosen di Bucarest. Durante un lasso di tempo così lungo è evidente che tale relazione si è evoluta in un rapporto personale di amicizia così come l’aspetto artistico è diventato via via più prossimo a una sorta di rituale sociale. Abbiamo iniziato con l’intento di mettere in scena uno spettacolo alla casa di riposo ma siamo finiti a frequentare il posto ogni settimana, anche solo per leggere e discutere insieme un articolo, per guardare un film o per celebrare il compleanno di qualcuno. Mi viene da dire dunque che quanto più si sviluppa e si definisce il processo di creare un senso di comunità attraverso il teatro tanto più l’attività scenica tende ad assumere forme molteplici e diverse, a volte sorprendentemente semplici e “quotidiane”. Ed è proprio tale fenomeno che abbiamo cercato di mostrare con le performance pubbliche, vale a dire il percorso di creazione di una comunità di persone molto differenti fra loro e come questo percorso arricchisca sia gli artisti che i non artisti che ne fanno parte. È un modo per mettere in contatto generazioni distanti, in cui si scopre di avere molte più cose in comune di quanto si pensi, spesso (almeno è quello che è capitato a me) più che con la generazione dei nostri padri.
What if we knew? A history of protests (E se sapessimo? Una storia di proteste) (2015)
collettivo artistico: Mădălina Brândușe, Paul Dunca, Adela Iacoban, Mihaela Michailov, Alice Monica Marinescu, Katia Pascariu, Alex Potocean, Cătălin Rulea, David Schwartz, Ionuț Sociu, Andrei Șerban, Marius Bogdan Tudor
What if we knew? A history of protests (ph Adela Iacoban)
La performance è una ricerca sui movimenti di protesta attivi in Romania dopo il 1918 che si basa su un’ampia documentazione relativa a gesti di dissenso personale e collettivo raramente analizzati né dal punto di vista storico, politico o artistico: gli scioperi e le proteste operai del 1918-1920; il ruolo delle donne e la loro attività all’interno dell’allora illegale movimento Comunista; le proteste operaie degli anni ’70; le resistenze sindacali alle privatizzazioni criminali degli anni ’90.
Un teatro di pura opposizione al potere è ancora possibile? Quale può essere, oggi, una potenziale strategia da seguire per un teatro che voglia dirsi politico?
Innanzitutto è utile rilevare che le strategie variano da contesto a contesto, da paese a paese, e io parlo per quanto concerne la situazione rumena. Da una prospettiva di sinistra, per capire cosa è possibile e necessario fare occorre analizzare attentamente il contesto storico attuale e riconoscere che siamo in una posizione di estrema debolezza. A partire dagli anni ’70, il regime socialista iniziò a perpetrare politiche di stampo decisamente nazionalistico, sviluppando una retorica che andava contro le minoranze, contro i diritti delle donne e persino contro i principi stessi del marxismo. Pertanto una prospettiva veramente di sinistra, in special modo di carattere emancipatorio, è stata completamente espulsa dal discorso pubblico. Gli intellettuali marxisti vennero emarginati, cosa ironica per un regime che si dichiarava comunista. Negli anni ’80 ha avuto dunque luogo un processo di riabilitazione di figure di intellettuali di destra che nel periodo fra le due guerre addirittura solidarizzavano con gli ideali fascisti e negli anni ’90, dopo la caduta di Ceauşescu, la situazione è letteralmente esplosa: il dibattito pubblico è stato dominato dall’opposizione fra ex-comunisti di destra e neoliberali anch’essi di destra. Si tratta di un’estremizzazione che fa però comprendere come le prospettive destrorse siano diventate egemoniche nella sfera pubblica, dalla televisione ai libri, dalle case editrici ai giornali per quasi 20 anni.
Tutto questo ha avuto come conseguenza un generale disinteresse verso la politica, la normalizzazione del razzismo e del classismo nella sfera pubblica nonché una demonizzazione pressoché totale del discorso della sinistra. Sulla scorta di ciò io credo che, affinché una resistenza o delle azioni dirompenti di natura collettiva siano anche solo pensabili, occorra capire come rapportarsi a tale situazione, in che modo metterla in questione e mostrare la possibilità di differenti interpretazioni della realtà. Ecco perché col nostro progetto quello che intendiamo mettere in atto è una vera e propria azione di propaganda, intesa in senso emancipatorio. Una contro-propaganda da una prospettiva critica, che possa provocare discussioni e dibattiti relativi all’attuale situazione sociale, politica ed economica nonché contestare lo status-quo e gli stereotipi promossi dal discorso dominante. Come artista, date le circostanze in cui ci troviamo, penso sia sostanzialmente impossibile fare la rivoluzione ma occorre provare a lavorare per creare le condizioni di possibilità per un nuovo cambio di paradigma.
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(english version)
Six thesis on political theater in Romania and an introduction
David Schwartz is one of the promoter of the project Platforma de Teatru Politic. The platform aims at analyze theater trough political perspective and assumed left-wing perspective and to produce artistic projects that deal with political topics or political issues. Moreover the project tries to tell and recover hidden episodes and facts of recent Romanian histories, dealing with the stories of groups and minorities generally marginalized by the dominant discourse (LGBT people, women, miners, migrants, ). That entails not only foster discussion and debates (every performnace is generally followed by an open discussion) but also to work with people personally involved with the topics of the performances and to set a process of alternative historical researches.
At the moment eight shows are already presented or under construction (most of them were old shows that have been presented again within the Platforma de tetru politic’s frame), each one dealing with a specific and controversial topic of the Romanian history. We tried to raise a question out of every performance hoping that it could suggest some answers to the more general issue: “what political theater should be nowadays”?
What is the relation between your project and the general theater context in Romania? What is your relation with dramaturgy and how do yo conceive the work of the actors?
So far, we’re more focused on the text and this is also due to the specificity of the Romanian context. Traditionally, theater has been inflated with many movement-based shows with a massive use of the body. But generally there the actor was not intended to be a thinker or a performer. Rather it was more a puppet in the hands of the director. So I think that from a sort of “allergy” to this kind of theater came a sort of rejection of the massive use of the body but I would say it should be somehow recovered, as the actions of the body may contain strong political meanings. Also, in Romania there is a huge lack of local texts and marginalization of playwrights, especially dealing with contemporary and political problems. Therefore, the aim for the last years has rather been to build up a “new tradition” of the local contemporary perspective in theatre. DramAcum started this process of recovering of text writing, at the beginning of the 2000s. It is rather difficult to tell the story, perspective and struggles of your town/region/country with Western texts so we need a strong local-based dramaturgy.
Born in the wrong place (2013)
written and directed by Alice Monica Marinescu and David Schwartz
The performance Born in the Wrong Place intertwines the life stories of 5 people who have gone through the experience of seeking asylum with fragments from The Guide to Obtaining Romanian Citizenship for Foreign Citizens. The performance aims to problematize and discuss in the public sphere issues which are of crucial importance in the current global context, issues such as the institutional fight against migration taking place at the same time as the need for migrants in the development of the capitalist economy grows, the need for asylum, the right to travel as the fundamental right of every individual and the instrumentalization of “the foreigner” as a scapegoat for social and economic issues.
Theater can play a role in community-building? If yes, which one?
Of course theater can contribute in building up a stronger sense of community, even though I’d say I’m a bit skeptical that it always works. With this performance, we tried to achieve two main goals. First of all, to empower refugees’ community, not only through the performance and the discussion around it, but also by providing practical advices about their rights as refugees. Then, we wanted to promote an alternative perspective on the meaning and struggles of being a refugee or a migrant in the current Romanian context, trying to counter the racist propaganda that is going on in the media and in the political main discourses. And on this point we were not completely satisfied with the result – especially in the context of the European refugee crisis, the racist and anti-Muslim discourse unfortunately becomes more and more widespread. The racist propaganda has a huge impact in the society and we had recent cases of racist attacks against migrants. We try to add to the artistic approach a direct political one – taking part in political actions trough demonstrations, protests and journalistic documentation of the abuses of the authorities.. We felt that we should implicate ourselves also on this level, besides the performances.
Heated minds (2010)
written by Mihaela Michailov, directed by David Schwartz
The performance Heated minds retrieves a slice of living history from the perspectives of the social actors involved in the events and reactivates it in the public conscience. The truth about these events is represented by the sum of mostly contradictory viewpoints, and therefore impossible to limit to one single perspective. The project is built on a documenting process involving several methods: interviews with witnesses, newspaper accounts, reports filed by different organizations and institutions, discussions, public debates, workshops etc., focused on the events which took place in Bucharest during June 13-15, 1990.
Is there any place in theater for such a thing as “truth”?
Obviously, such a thing as “objective truth” doesn’t exist. What we tried to do is rather a sort of “counter-propaganda” aiming at offering more nuances and elements than the official propaganda does. We try to set up a new frame to read the history which isn’t of course objective, but rather a subjective one with an assumed political perspective. I’d say it’s a “critical” frame that offers a complex of subjective perspectives but at the same time offers also a key to read events and reality. That’s why you decide to tell some stories or facts rather than other ones. Every re-telling history process is a biased one: it’s all about the frame you choose. And, I must stress, this wasn’t so obvious for us when we started: Heated Minds was one of our first projects dealing with history, premiered in 2010, and we were just trying to find a perspective different from the official one. Somehow we did thought of looking for a more “objective” historical truth. But in the process of research we realized we needed a different perspective not only on the facts but also on ourselves and our perspectives and so we tried to go beyond the cliches and to look for the “complexity” and multiple perspectives of history rather than for its objectivity.
Underground. Jiu Valley after 1989 (2012)
written by Mihaela Michailov, directed by David Schwartz
Underground. The Jiu Valley after 1989 aims to document the economic situation, life and work of the miners during post-Socialism. Theater Undergroundis a project of performative reconstruction of the document-stories which set the foundation for the history of the communities in the Jiu Valley, communities which find themselves somewhere between survival, migration, disappearance and possible reconstruction.The performance aims to revalue the stories, the issues and the culture of those social categories often ignored in post-Socialist Romanian theater: working-class communities.
Theater is a “bourgeois” activity or it is possible to make a real genuine theater, a theater for the masses?
Yes, it definitely can exist. I’d say on one hand the possibility of it lies on the topic you choose. It’s obvious that some topics interest the people more than others but that’s not enough. What you have to do is go beyond typical cliches people are used to by watching television or by consuming products of the entertaining industry. So it is important to go further than these stereotypes and connect with the real people’s needs and struggles. I’d say it’s not easy at all, at least basing on our experience. What you have to add to all this would be a process of getting personally and emotionally closer to the persons you want to address your play: that means trying to work with them, discuss with them, involving them in the process and paying attention to their reactions to the performances. Even when we worked with professional actors, we tried to have lecture-performances, we showed some pieces of the text to persons involved asking how they felt and if they felt their perspectives accurately transmitted by it. This makes you know if the direction you are going is fruitful or not and makes you more aware about your audience and the struggles it is going through. And, hopefully, as you develop several activities, thanks to the exchange of ideas different types of solidarity may develop as well: if you go to a community of people evicted from their houses and you show them a performance about the conditions of the miners, they might not be interested at first or might not empathize with their problems. But after having set a relation with them through theater, and having a long-term collaboration, I think you can start to intersect struggles, and connect different people with different social problems, that are actually all connected to the same big political system.
After Trajan and Decebalus (2013)
by/with Paul Dunca & Mihaela Michailov
How would one live a “gay lifestyle” in Romania before 1989? What were the rituals for socializing and how did the oppressive structures work? What were the outcomes of article 200, whose provisions punished sexual relations between persons of the same sex by 1 to 5 years in prison? How did the abuses against the freedom of self-representation continue after 1989? After Trajan and Decebalus is a fragment from the underground history of homosexuality in Romania before and after 1989. The paradoxes of censorship functioned perfectly. Even though it was forbidden, there was gay life in Romania.
What is the relation between theater and individual identity/ies? It is a mean to empower it or rather a way to question the concept of identity itself?
I’d say it can be both, it depends on who we are referring to. Especially with this performance, it was very important that many people from LGBTQ+ community who were at the play felt deeply involved with what was happening on stage and that for sure empowered a sense of identity.
But, on the other hand, other spectators, the ones that aren’t aware at all of the stories or perspectives presented in some performances might get “shocked” or surprised by what they were watching. So, for them, theater can definitely play a disruptive role taking into question their way or conceiving identity, history and so on. In the same way, we can say theater has either a wounding power and a healing one. Again, it’s all about who is watching and which is his level of personal involvement with the events on the stage. The concepts of “disruptive” and “provocative” are relative ones: even from the point of view of the formal and aesthetical elements of the play, something can be experimental or innovative just for some people, maybe the most theater-educated ones, but then it could turn out to be completely incomprehensible for people with a different social or cultural background. So in the end one may fail to set up a common language with their audience. That’s why is really important to think about the general frame when you’re trying to be provocative and also it has to be clear which kind of audience you are addressing. Who do you want to disrupt? Or who do you want to empower? In the end, it’s also a matter of class perspective.
Closer than close (2014)
artistic collective: Paul Dunca, Pompiliu Sterian, Renee Necleevici, Iudith Ardeleanu, Carmen Coțofană, David Schwartz, Dorotea Weissbuch, Eva Szemler, Alice Monica Marinescu, Marius Armașu, Mihaela Bîrlegi, Margareta Eschenazy, Rodica Dumitrache, Cristina Focșa, Ilie Zan, Cătălin Rulea, Ani One, Gabriela Anghel, Mihaela Michailov, Steliana Anghel, Katia Pascariu
Closer than Close is a community performance wherein part of the residents of Moses Rosen retirement home and part of the staff, who are with them on a daily basis, come together on stage to reconstruct everyday rituals, dance, reminisce about their lives together and tell stories about the weaker and stronger connections between them; about what keeps them together and what they’ve learned from each other. Closer than Close depicts the history of everyday life in a retirement home.
Post scriptum (2013)
artistic collective: Cu: Iudith Ardeleanu, Marius Armașu, Margareta Eschenazy, Lidia Fonea, Sybille Silvian, Pompiliu Sterian, Eva Szemler Lendvay, Dorotea Weissbuch. Paul Dunca, Alice Monica Marinescu, Mihaela Michailov, Katia Pascariu, David Schwartz, Jak Neumann
Writing a letter represents a cultural and political act which stands as a document of personal-social communication. In Post-scriptum, the residents of Moses Rosen home talk about who they wrote their first letter to, how the writing ritual unfolded, who tehy wrote love letters to and what they would write to a politician. Post scriptum represents the performing of a vanishing social ritual.
How close do you think theater is to ritual?
These two performances are the result of a six years working process with the members of Moses Rosen retirement home in Bucarest. So, during this time, our relation with them evolved in a personal friendship and the artistic approach evolved in ways more and more closer to social rituals. We started by aiming to present a show there, but we ended up going there every week, if only to read an article and discuss it or to watch a movie or to celebrate someone’s birthday. So the more the process of developing a community trough theater goes further the more theater itself can take various forms, sometimes the most simple and everyday ones. That’s exactly what we wanted to make visible with our performances: the process of building a creative community of very different people and how fruitful, for both seniors and artists, can be the artistic working experience in the retirement home. Also, it is a mean to bring closer together different generations – and you sometimes discover to have maybe more in common with 80 years old people than middle-aged ones from certain points of view.
What if we knew? A history of protests (2015)
artistic collective: Mădălina Brândușe, Paul Dunca, Adela Iacoban, Mihaela Michailov, Alice Monica Marinescu, Katia Pascariu, Alex Potocean, Cătălin Rulea, David Schwartz, Ionuț Sociu, Andrei Șerban, Marius Bogdan Tudor
The performance researches the history of resistance movements in Romania after 1918 and is based on an ample documentation of collective and individual protest from a perspective thus far seldom investigated historically, politically and artistically: the workers’ protests and strikes from 1918-1920; women’s role and activity within the illegal Communist movement; workers’ protests in the 1970s; union resistance to the dodgy privatizations of the 1990s.
What kind of strategy can have political theater nowadays? A pure opposition to power is still possible?
First of all, strategies are different from context to context and I can speak from the point of view of the Romanian one. Then, from a left-wing perspective, I’d say we must analyze the current historical context in order to understand what we can and should do. And we must acknowledge that our position is very weak. Starting from the 70s, the socialist regime turned nationalist and began to develop anti-minorities, anti-women’s rights and even anti-Marxist discourses. So the leftist perspective especially understood in an emancipatory way has been basically evacuated from the public discourse. Even the Marxist thinkers were marginalized, which is sort of strange for a regime that claimed to be communist. Starting from the 80s began a process of rehabilitation of right-wing interwar intellectuals who flirted with fascism and in the 90s, after the fall of the socialist regime, the situation exploded: we had in the public discourse a fight between nationalistic right-wing former-communists and pro-free-market right-wing neoliberals. Of course the situation was a little bit more complex, but in general I would say that the right-wing discourse has been hegemonic in the public sphere, from television to books, to publishing houses, to magazines, for almost 20 years. This has produced a general lack of interest in politics, the normalization of racism and classism in the public sphere and the total demonization of the left-wing discourse. So I thing that, in order to even think about resistance and the possibility of disruptive and collective action, you have to deal with this context, to address this situation and therefore you need to show that there are other ways to interpret reality. What we are trying to do is basically propaganda in a clever way, an anti-propaganda that aims at provoking discussions and debates about the current social, political and economic situation – to contest the status-quo and the cliches promoted by the mainstream discourse, from a critical perspective. As an artist in these circumstances, you can hardly make the revolution but you can maybe work in order to create the conditions that make a change of paradigm possible.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.