Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa
Belgrado, 1992. Il conflitto è cominciato da circa un anno e nel paese si respira un clima sempre più autoritario sotto il regime di Slobodan Milošević. In una delle piazze principali della capitale appaiono improvvisamente quattro angeli vestiti di nero che iniziano a declamare un poema di Bertolt Brecht di fronte a una folla di passanti attoniti, alcuni dei quali anche guardie armate. Così, con la performance Questa confusione babilonica, ha inizio la ultraventennale carriera del Dah Theatre che continua fino a oggi. Dijana Milošević e compagni hanno da allora cercato di esplorare tutte le “ferite aperte” della società serba con un approccio che è figlio diretto dell’Odin di Barba, di cui sono stati allievi. Hanno guadagnato sempre più popolarità e consensi anche all’estero, ma la loro sede rimane una stanza ricavata all’interno di una scuola elementare da cui rischiano costantemente di essere sfrattati. Sempre in qualche misura osteggiati dal sistema ufficiale ed esclusi dai finanziamenti statali, ci raccontano il loro teatro impegnato e politicamente “contro”.
Il vostro approccio al teatro è sempre stato un approccio “impegnato”, fortemente legato al contesto sociale in cui operate. Durante i vostri 25 anni di carriera, come si evoluto tale approccio anche in relazione ai cambiamenti storici avvenuti in Serbia?
Credo che il nostro modo di approcciarci al teatro sia stato determinato dalle circostanze in cui è nata la compagnia, come una sorta di “destino” al quale non avremmo potuto sfuggire: la fondazione del nostro gruppo è avvenuta proprio negli stessi giorni in cui è scoppiata la guerra civile nel 1991. Al momento del primo attacco, ci trovavamo in Croazia e ci stavamo recando su una piccola isola con l’intenzione di fermarci per tutta l’estate e costruirci un repertorio. Abbiamo saputo dell’aggressione perché le persone del posto ci hanno informato, additandoci come “invasori” in quanto serbi e, una volta, addirittura lanciandoci addosso delle pietre mentre attraversavamo un campo. I primi passi del Dah Theatre sono dunque profondamente intrecciati con le vicende politiche della Ex-Jugoslavia e mi è sembrato immediatamente chiaro che in un contesto del genere il nostro teatro non avrebbe potuto avere a che fare con l’amore o i sentimenti. Dovevamo parlare di ciò che stava accadendo. Ho sentito di avere la responsabilità nonché la possibilità di dire pubblicamente qualcosa riguardo alla follia e alla distruzione che ci circondava. Tale sentimento è ciò che ha mosso le prime azioni del Dah Theatre e abbiamo avuto la fortuna di ottenere un riscontro immediato da parte del pubblico che assisteva alle nostre performance. Abbiamo percepito che il nostro lavoro era in qualche modo necessario. Si tratta di un punto fondamentale: mi capita di osservare giovani o vecchi artisti che stanno perdendo il senso di quello che fanno e credo che questo succeda perché non sentono che qualcuno ha bisogno della loro attività. Al contrario, per noi è stato chiaro fin dal primo momento che per le persone attorno a noi fosse urgente ascoltare ciò che dicevamo, vedere ciò che facevamo, fosse urgente comunicare con noi. Ecco cosa significa per me avere un approccio “socialmente impegnato” al teatro: cercare costantemente di mantenere una relazione critica col mondo in cui viviamo. Questo è quello che non è cambiato nel tempo, è l’essenza del nostro lavoro.
Quello che invece è mutato, sebbene solo parzialmente, è la composizione della compagnia. Il mio sogno era poter contare sempre sullo stesso nucleo di persone ma ciò era semplicemente impossibile dal punto di vista economico: il teatro (così come tante altre professioni socialmente rilevanti) è sempre più svalutato nel contesto serbo. Alcuni dei membri fondatori sono rimasti, altri più giovani si sono inseriti nel corso degli anni e altri ancora magari collaborano solo occasionalmente.
Come conciliate le istanze sociali del vostro teatro con la ricerca estetica? Sono elementi che devono restare in equilibrio o ne esiste uno preponderante da cui parte la costruzione della performance?
Penso che ciò che viene per primo è la scelta di consacrare la propria vita al teatro. Per quanto mi riguarda il teatro non è la mia professione, non è qualcosa che faccio ma rappresenta il modo in cui vivo e il modo attraverso cui esperisco la realtà. Fin dall’inizio del Dah Theatre io e gli altri membri condividevamo il bisogno di mettere in pratica un tipo di teatro che potesse essere allo stesso tempo un modo di vivere insieme, cui dedicarsi in maniera totale.
In tale dimensione risiede forse anche la contraddizione profonda alla base dell’attività teatrale: si consacra la propria esistenza a qualcosa di completamente transitorio, che è presente solo nel momento in cui accade. L’arte è sempre “già passata”, questo è qualcosa che credo sia importante tenere a mente quando si vuole fare teatro. Pertanto, almeno relativamente al mio approccio, l’estetica deriva direttamente dall’etica e le due non si oppongono ma si evolvono insieme: la componente formale di una performance costituisce in realtà la risposta alla domanda morale di partenza: “perché decidiamo di fare qualcosa”? Cercare di essere un artista significa lavorare con e attraverso la complessità, operare in una dimensione fondata sulla contraddizione dove ogni elemento è connesso: il bello e il brutto, il tragico e il comico… A un livello successivo entrano in gioco ovviamente i gusti individuali e le poetiche di ciascun autore, che vengono influenzati dal contesto e dalle circostanze in cui ci si muove. Nel nostro caso, come ho detto, ci siamo quasi sempre confrontati con temi sociali e politici e il più delle volte lo abbiamo fatto utilizzando la ‘bellezza’ (magari anche altisonante e poetica come in The shivering of the rose): siamo talmente circondati da un grado così alto di “brutture” che spesso il gesto più spontaneo per un artista è quello di provare a opporsi frontalmente a esse.
La maggior parte delle vostre performance si svolge all’aperto, in luoghi pubblici e spazi non convenzionali. Questo cosa comporta per l’attore? Deve restare permeabile agli stimoli “esterni”? C’è un allenamento specifico per tale tipo di recitazione?
Certamente direi che recitare in luoghi non convenzionali e in situazioni potenzialmente “a rischio” rappresenta un ottimo esercizio per gli attori. Oramai abbiamo accumulato una vasta esperienza con questo tipo di esibizioni: è successo recentemente che durante la performance In/Visible city (che si svolge su una normale linea di autobus urbani) due persone salissero e incominciassero a rivolgersi in maniera molto aggressiva contro gli attori, urlando e agitandosi. Nessuno degli attori si è fermato o ha risposto ma tutti hanno continuato a recitare come prima, restando concentrati su ciò che stavano eseguendo. I due avventori sono scesi alla fermata successiva senza turbare lo spettacolo in maniera sostanziale. Ecco, fin dalla nostra prima esibizione del 1992 abbiamo imparato che l’abilità e il talento di un performer rappresentano per lui uno “scudo” potentissimo, che in un certo senso lo isola e lo protegge da tutto ciò che sta attorno. Dunque, una regola fondamentale è quella di restare nella maniera assoluta dentro la propria dimensione attoriale, nel momento in cui esci da essa e ti metti sullo stesso piano del pubblico per rispondere, sei perso.
È chiaro però che questo è solo un aspetto dell’esibirsi in contesti non teatrali. Di solito, l’attore dovrebbe mantenere un piede dentro e uno fuori dal suo ruolo propriamente detto: occorre essere coscienti di ciò che avviene attorno a sé ed essere sempre pronti a modificare la propria parte nel caso risulti spontaneo e naturale farlo. L’importante è appunto rimanere in una dimensione teatrale e “altra” rispetto al contesto in cui si opera. É solo presentandosi come qualcosa di estraneo e, in un certo senso, “magico” che è possibile fare veramente breccia nella comunità.
Siete attivi da 25 anni e siete molto conosciuti al di fuori della Serbia ma non ricevete alcun finanziamento statale e la vostra sede è a rischio. Come valutate la situazione teatrale del vostro paese?
Dal punto di vista artistico, la scena serba è molto variegata, soprattutto nel campo delle arti visuali: sono attivi artisti con formazioni e percorsi differenti e la rete delle esperienze “alternative” è piuttosto forte. Aggiungerei che ci troviamo in un periodo di transizione: le compagnie statali che hanno ricevuto ingenti fondi statali per decenni si trovano ora a dover rivedere la loro gestione, perché la situazione economica sta cambiando il sistema teatrale. I teatri statali si stanno mantenendo grazie a dei sussidi ma continuano a ridurre sempre di più i propri organici: il vecchio sistema sta finendo.
Tuttavia, sono portata a pensare che il discorso ricorrente per cui non ci sarebbero soldi per la cultura sia parzialmente falso. Paradossalmente, il governo non investe nel teatro non tanto perché lo tiene in scarsa considerazione quanto perché ne capisce perfettamente l’importanza e conosce i potenziali effetti dirompenti che può avere a livello sociale. Il teatro non viene svalutato, semplicemente è troppo importante per ricevere attenzione da parte dell’economia.
Un estratto dalla performance/conferenza Inner Mandala della storica attrice del Dah Theater Maja Mitić, in occasione delle celebrazioni per i 25 anni di carriera:
DAH Teatar is a place where I have no limits. My shelter is there, as well as my power, my salvation, because by accepting responsibility of what and how we work, our thoughts, memories and longings to their real origin , and in that way transforming ourselves into better humans beings .
That way, the circle is regular and closed, and the exchange is established.
As an artist, I chose to correspond with the time in which I live in, but the cruel historical circumstances of my country, just increased that responsibility, and that responsibility through time became healing one.
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English version
Your theater has always been an engaged kind of theater. How did you change as social context was changing around you during your 25 years-carrier?
I think our destiny as a theater group was decided by the circumstances in which we started: the very beginning of the civil war in 1991 coincided the beginning of the foundation of Dah theater. When the first attack occurred we were actually going on a small island in Croatia with the intention of having rehearsals during the whole summer and we found out about the attack because local people told us. As Serbians (even thought divisions were not so clear back then) we were even assaulted by people throwing stones at us while we were crossing a field. So the starting of Dah Theater was deeply interwoven with political events of Ex-Jugoslavia and I immediately understood that I couldn’t have spoken about love, affairs, etc. in such context. I felt to have the responsibility and the power (with the other people I was working with) to say something publicly against madness and destruction that were surrounding us. That’s what we tried to do from the beginning and I have to affirm that we were pretty lucky because we could get an immediate feedback from our audience. I consider it as a great fortune: even today you can meet either young or old theater artists who are loosing the sense of what they’re doing because they feel as nobody need their work. On the contrary, we felt from our first performance that people needed to hear what we were saying, to see what we were doing, to communicate with us. In this sense, we continued to explore socially engaged performances and our current “mission” is to have a critical relationship with the world we live in. This is something that hasn’t change: this is our core.
What did changed (partially) is the initial dream of having the same members in the group trough the whole Dah Theater’s carrier. Some of the starting members remained while some other left and we had younger fellows or temporary collaborators. Having always the same people was simply not affordable, since our work (as works with a relevant social aim, like doctors) is completely depreciated in the society.
What need is more relevant to you? The need of having a socially relevant performance or rather the need of having something interesting on the aesthetic level?
What I think needs to come first is devoting your life to theater. To me theater is not just my profession, my carrier, is not something I do but it is the way I live, the way trough which I experience reality. Since the very beginning me and my colleagues we shared the need to do a theater that could be at the same time a way of living, a full commitment.
You see then that contradiction is at the core of doing theater: you entirely commit your life to a moment that exists only when it happens. Art is always gone, this is something you should be aware if you do theater. Therefore, for me aesthetics comes from ethics and they go together: somehow the aesthetic element is the answer to the ethical question “why do we do something”? Trying to be an artist means trying to work with complexity, is to say to work with a dimension based on contradiction wherein everything is connected: beauty and ugliness, tragedy and comic… Then of course there is also the level of personal “taste” or personal poetics and this is influenced by the circumstance in which everyone lives. As I said, I usually deal with political or social topics but the most of the time I confronted them by using beauty, sometimes a very poetic beauty (as it is the case of The shivering of the rose): we’re surrounded by such a huge ugliness that the most spontaneous act for an artist is trying to oppose it.
You usually perform in public and non-conventional spaces. Does the actor have a specific training? Is he/she supposed to be fully responsive to external inputs or reactions?
We have now a big experience about performing outdoor or in unprotected places and situations: recently it happened that during our show In/Visible city two people got on the bus (the show is performed on an urban bus line) and started negatively commenting and yelling at the actors. None of the actors stopped or changed his intent, everyone just went on doing what he was already doing and the two guys just left at the following bus stop… Since our first performance in 1992 we learned that craft and skills represent a powerful and huge shields for the actors. Performing outdoor means that actors should be extremely focused on what it is their “part”. But then of course it is like riding two horses: on the other hand the actor should be also aware of what is happening around and also he should be ready to modify the part if it is natural and spontaneous to do it. The point is to stay in the theater dimension, not to go on the same level of the audience and maybe return insults or discard somethings to say: that is the most dangerous thing. On the contrary, it is just by presenting yourself as something really different from the environment you’re performing in that you can truly enter the community you’re addressing.
You have a 25 years-carrier and you are worldwide known but you don’t receive any State-funding and you’re still fighting to keep your working space. What’s your opinion about the Serbian theater situation?
I’d say the Serbian scene is very diverse, especially in visual arts field: there are lot of different experiences and artists and there are pretty strong “alternative” networks. Plus, I guess we’re in a sort of period of “transitions”: state-supported theaters had for decades very good financial support but the system is now changing because of the economy. State theaters are now on subsidies, they’re making their ensembles smaller and smaller so the old system is ending.
However, my guess is that fact that there are no money for culture is partly a lie: I don’t think government is not investing on theater because the latter is undervalued but exactly the other way round. Theater has been always highly valuated in this country and it is precisely because politicians knows how important it is in social changes that they don’t want to fund it. Theater is not devalued, it’s just too important to receive (financial) attention.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.