Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa.
George Remes è attore e direttore artistico del Festival del Teatro Indipendente di Bucarest, nonché direttore del Teatro Godot di Bucarest.
Nel cuore di Bucarest, il teatro Godot (www.godotcafeteatru.ro) cerca di riunire entrambe le anime di un Paese che teatralmente sembra diviso in due: scena istituzionale e indipendente, centro e periferia. George Remes dirige due sale in cui alterna spettacoli di testo, popolari e altri che affondano pienamente nella ricerca e nell’autonomia del processo creativo. Allo stesso tempo, è fra gli ideatori del Festival nazionale del teatro indipendente (www.fnti.ro) che è giunto alla seconda edizione e che intende riunire in alcune strutture di Bucarest le esperienze teatrali nate e cresciute al di fuori della capitale. Si tratta di una settimana fitta di spettacoli, incontri col pubblico e momenti in cui la parola viene data a critici e operatori. Con Remes ragioniamo di quest’esperienza e delle strade che sta percorrendo la scena rumena.
Puoi raccontarci come è nato il festival e soprattutto perché, come scritto nella presentazione, lo ritenete un’iniziativa necessaria nel contesto attuale?
Si tratta di un’idea che si è formata in modo abbastanza spontaneo, attraverso discussioni continue tra attori, registi e operatori. La nostra urgenza era semplicemente quella di voler creare un festival del teatro indipendente, che potesse avere una dimensione nazionale. Esisteva infatti un altro festival con caratteristiche simili, che raccoglieva però solamente gruppi e artisti di Bucarest. In un certo senso, la nostra era una scommessa: non c’è molta comunicazione, a livello teatrale, fra la capitale e altre città della Romania e non eravamo sicuri che esistesse un numero di realtà sufficiente a creare un festival. Abbiamo così iniziato a ricercare esperienze interessanti e ci siamo resi conto che esistono molte esperienze indipendenti, magari piccole, su tutto il territorio. Ci è sembrata un’iniziativa necessaria proprio per l’evidente disparità di mezzi e visibilità che intercorre fra Bucarest e il resto del Paese. Oggi, nella capitale si contano almeno 11 residenze indipendenti, quando la seconda città ne ha 3 a dir tanto. Il nostro obiettivo è allora quello di portare alla luce un fenomeno artistico che non si può ignorare e permettergli di crescere attraverso incontri, scambi e una cornice più adatta alle sue potenzialità.
Qual è la vostra concezione di teatro indipendente?
Io penso che debba essere considerata indipendente qualsiasi esperienza teatrale che non sia istituzionale. Al momento, c’è un grosso dibattito riguardo la distinzione fra teatro “indipendente” e “privato”. Credo succeda perché si tende ad associare il concetto di “indipendente” con l’idea di essere in lotta per un riconoscimento, di essere in una posizione di marginalità sociale. Nel momento in cui una realtà inizia a guadagnare consenso e mezzi, come una residenza o la possibilità di esibirsi con costanza, molte persone dicono che quello è teatro “privato”, non più indipendente. Si tratta, a mio modo di vedere, di una concezione un po’ ideologica e settaria che rischia di bloccare la crescita di un movimento invece che favorirla.
Queste distinzioni non hanno niente a che fare con differenze estetiche o di argomenti trattati?
A volte, ma direi che è più una questione strutturale e organizzativa. Penso che la distinzione di fondo, se parliamo di teatro istituzionale o statale e teatro indipendente (che considero un tutt’uno con quello privato) sia dato dal presupposto di una totale libertà d’espressione che si verifica nel secondo. Ciò ovviamente significa che possano esserci tendenze e spettacoli più “di ricerca” o “sperimentali”, ma si tratta di risultati, che non qualificano automaticamente quel tipo di teatro come indipendente. In quanto operatore e organizzatore del festival, mi importa poco che un artista aderisca a determinate estetiche o che i suoi spettacoli contengano determinati elementi piuttosto che altri. M’interessa che la sua proposta scenica nasca senza alcun precondizionamento o paletto. Al contrario, nel teatro istituzionale ciò non è possibile: il repertorio è già dato e spesso diventa qualcosa di autoreferenziale, dove l’artista semplicemente misura le proprie capacità di fronte a un pubblico più ampio.
Non c’è quindi un lavoro di selezione sulle opere che vengono presentate nel festival?
Sostanzialmente no. Credo che in questo momento non sia la priorità: il movimento indipendente ha bisogno di unità, non di divisioni o “filtri”. Ciò non toglie che siano previsti riconoscimenti, ma si tratta di momenti posteriori alla presentazione dell’opera al pubblico; né io né gli altri operatori vogliamo ergerci a “giudici” del teatro indipendente. Come detto, il nostro interesse ora è che questo fenomeno acquisisca visibilità e raggiunga un numero sempre più alto di spettatori. Altrimenti, replicheremmo il meccanismo proprio del teatro istituzionale, che decide cosa è buono e cosa no, riducendo di fatto le possibilità espressive di molti artisti e della scena in generale nonché le condizione concrete affinché qualcosa di diverso possa accadere. Vedi, in Romania non esiste ancora una legge che riconosca i teatri indipendenti: uno dei nostri obiettivi è allora quello di raggiungere, attraverso l’aggregazione di realtà differenti, la forza per chiedere una riforma della situazione.
Qual è l’attitudine generale della critica nei confronti del teatro indipendente?
È ovvio che non parlo di tutti, ma per ciò che ho visto l’atteggiamento più frequente è quello di discredito, come se si trattasse di difendere gli interessi corporativistici del teatro istituzionale. Questo per me non è fare critica: al contrario, occorre che un critico aggiunga valore allo spettacolo, sottolineando e mettendo in luce alcuni aspetti, invece che esprimere un giudizio, spesso perentorio. Ma devo anche dire che, in generale, la critica ha poca influenza sia presso gli artisti che presso il pubblico: quando assume determinati atteggiamenti, viene percepita come un retaggio dell’epoca sovietica, il cui pensiero non ha importanza per le persone che vogliono semplicemente scoprire qualcosa di nuovo nel teatro.
In cosa consiste, secondo te, il valore “politico” o “sociale” del teatro?
In un certo senso, fare teatro significa non mentire. Recitare vuol dire sempre raccontare una verità, il più delle volte una verità che non siamo normalmente disposti ad ammettere. Il che è esattamente l’opposto che supportare un visione politica precisa e propagandarla con mezzi artistici. Direi che il teatro e la politica dovrebbero stare il più possibile lontani l’uno dall’altra, in termini almeno di influenza diretta. Ciò non vuole dire che non debbano essere trattati questioni sociali e non si debbano menzionare temi politici, anzi. Occorre però che il teatro si ponga sempre in posizione critica nei loro confronti.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.