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Gli spettatori che salveranno il teatro. Tre mise en espace di Ert

di Altre Velocità

Il video si affaccia su una platea di teste come da un palco. Peccato che delle teste si veda solo la nuca e che la telecamera non si trovi sul palco, ma in cima alla platea. All’altezza di quelle teste prive di volto si addensa un nugolo di chiacchiericci confusi, i microfoni registrano soltanto le mezze parole delle file più vicine. Dopo un paio minuti, sulle note di una fisarmonica, entrano in scena un Lino Guanciale più Lino Guanciale che Socrate e un Michele Dell’Utri più Michele Dell’Utri che Glaucone.
Inizia così la prima delle tre mise en espace streaming a tema “teatro e filosofia” finora andate in onda su Lepida TV ed EmiliaRomagnaCreativa: con la proiezione a muro della Urbino ideale dei Montefeltro e con un gruppo di attori più simili nei costumi e nei modi a nostri contemporanei che a contemporanei di Platone e Tucidide. Sono infatti Platone e Tucidide gli autori delle prime opere scelte dagli archivi della collaborazione tra ERT e il Collegio San Carlo: La repubblica per il 19 marzo, Il simposio per il 20 e La guerra del Peloponneso per il 23, tutte serate nell’ambito del progetto #laculturanonsiferma.
Se Tucidide definiva espressamente la propria opera poco adatta per delle letture pubbliche, una delle maggiori questioni che animano il dibattito sulla figura di Platone ruota intorno alla sua espressa avversità nei confronti dell’idea di mettere per iscritto i propri pensieri, sebbene così, per iscritto, ci siano giunti. Nonostante molti concetti svanissero nell’accavallarsi dei discorsi mutati in battute, come spesso accade quando si porta in teatro un testo destinato alla lettura privata, mi sono perlomeno divertita all’esperimento di lasciare la fllosofia di Platone alla sfera dell’oralità (in un modo che è poi forse quello più conforme al volere del pensatore greco), e nell’accorgermi insieme di quanto improbabili e complesse dovessero essere quelle conversazioni tra filosofi nell’Atene del V secolo a.C. – la sensazione di smarrirmi in un labirinto di domande, sempre più numerose, sempre più aggrovigliate su se stesse.
Se penso a quelle teste che la telecamera non era riuscita a tagliare fuori dall’inquadratura, mi domando perché con loro lo spettacolo abbia funzionato in tutto e per tutto, e perché lì abbiano riso, si siano emozionate, alla fine abbiano applaudito e all’inizio chiacchierato. E per la prima volta mi riconosco spettatrice al di fuori di quel gruppo, al di fuori della platea – spettatrice, sì, ma come singola.
Ci si chiede cosa stiano facendo e cosa faranno per il teatro i teatri e lo Stato in questi frangenti. Ma c’è qualcosa che potremmo fare noi spettatori per il teatro, adesso? Quale sarà il ruolo che dovremo interpretare quando le difficoltà avranno fine? In che chiave avremmo letto queste iniziative: come un qualcosa di cui siamo saturi, come la dimostrazione che si possa fare il teatro anche senza di noi? Oppure come una pausa di riflessione, nella quale maturare una consapevolezza da spettatori attivi, per poi ripartire anche da parte nostra con idee e spinte nuove, davvero nuove? Ma, se sì, quali idee?
A una decina di minuti dalla fine della prima serata del ciclo, proprio quando Glaucone stava per spiegare come la bella utopia della Repubblica platonica sarebbe stata difficile, ma non impossibile, per un paio secondi la scena si è fatta silenziosa. Intanto che gli attori continuavano a muovere le labbra su un testo ormai scomparso, l’audio del filmato è ripartito dall’inizio, dal chiacchiericcio nella platea. Le domande hanno davvero vinto, mi sono detta.
Poi ho ascoltato meglio, ho chiuso gli occhi. Sono tornata con la memoria a quelle teste senza volto che ridevano e si scambiavano saluti prima dello spettacolo, e ho preso nuova fiducia.

Elisa Ciofini

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