è andato in scena al Teatro delle Moline dal 10 al 12 marzo 2017 e nasce dall’incontro tra l’attore Emiliano Brioschi e gli autori Cristian Ceresoli, Renata Ciaravino e Giuseppe Massa, e si compone di tre diversi spettacoli legati dal filo rosso della paternità. Ne proponiamo tre diverse letture.
«Ho fatto un figlio a trent’anni ma volevo fare il cantante»[Buddy Love]
Domenica 12 marzo 2017 ore 16.30. Nonostante sia un pomeriggio soleggiato a quest’ora il Teatro delle Moline è immerso nell’oscurità più totale. Ad un tratto un pesante rumore di passi, accompagnato dalle note di un famosissimo brano dei Rolling Stones intitolato Paint it Black rompono la patina di silenzio che si era creata fino ad un attimo prima. Ma non passa molto tempo prima che il teatro ricada nel silenzio più assoluto. La musica si interrompe improvvisamente lasciandoci col fiato sospeso e subito dopo veniamo investiti da un bagliore accecante che rivela la presenza in scena di un uomo vestito in modo “stravagante” (addosso una maglia a maniche lunghe trasparenti con delle paillettes nere e ai piedi stivali a punta con brocche d’argento dello stesso colore) seduto su una sedia. La sedia, sulla quale reciterà il suo monologo per tutta la durata del primo spettacolo, è collocata in un angolo sulla sinistra dello spazio teatrale e rappresenta l’unico elemento di scena, oltre alla presenza di due riproduzioni raffiguranti le lettere “X” e “Y”, entrambe illuminate e che dominano sul fondo della sala, con un manichino spoglio dalle sembianze femminili che giace nascosto alle spalle di Emiliano. Quest’uomo è Buddy Love, un tastierista di pianobar che sogna di diventare una rockstar. Buddy Love è anche il titolo della prima storia, scritta da Renata Ciaravino, del trittico XY: un progetto nato da un’idea dello stesso interprete e regista Emiliano Brioschi, dopo un incontro con i drammaturghi Renata Ciaravino, Cristian Ceresoli e Giuseppe Massa e si compone appunto di tre spettacoli legati tra loro da un unico tema comune: la paternità. I gesti pacati ma al contempo violenti e le urla disperate di Emiliano riescono a trasmetterci alla perfezione tutta la frustrazione di Buddy Love, un padre arrabbiato col mondo e deluso da se stesso. Da quando suo figlio è venuto al mondo la sua vita non è più la stessa e lui non è più la stessa persona. Egli ama suo figlio ma non riesce ad accettarlo fino in fondo, lo ama e lo detesta con la stessa intensità e lo considera colpevole per avergli scombinato i piani e distrutto il suo più grande sogno ovvero di diventare un famoso cantante rock. I figli richiedono tantissimi impegni e questo Buddy l’ha capito fin troppo bene. Ai pannolini da cambiare tutti i giorni avrebbe preferito palazzetti da riempire, autografi da firmare, soldi e fama da vantare ma con un figlio sulle spalle Buddy Love non può permettersi una vita come quella di Mick Jagger. Lacerato da questi sentimenti contrastanti di odio e amore, decide così di attuare un terribile piano in modo da sbarazzarsi del figlio e realizzare finalmente il suo sogno. Cosa sarebbe disposto a fare un uomo pur di godere dei famosi “quindici minuti di celebrità”. Voi ve lo siete mai chiesti? È una domanda che mi è sorta spontanea dopo aver assistito a questo spettacolo. Nei gesti nervosi delle mani di Emiliano, nelle sue risate isteriche e nello sguardo fisso e penetrante, che mi hanno trasmesso molta energia ma anche tanta paura, ho trovato la risposta. La celebrità, se alimentata troppo e nel modo sbagliato, può superare i limiti della normalità e trasformarsi in un’ossessione incontrollata capace di prendere il sopravvento sulle nostre vite e distruggere anche quelle di chi ci è più vicino. Mirea Panariti Valentina è il testo di Giuseppe Massa ed è il nome che Anna e Michele vorrebbero dare alla loro figlia. Vorrebbero, perché una figlia ancora non ce l’hanno. All’inizio della pièce, una voce registrata elenca i nomi propri in ordine alfabetico e il loro significato. Un’altra voce, poi, spiega meticolosamente come ottenere le condizioni di fertilità più favorevoli, che riguardano l’alimentazione e il comportamento dei due partner. Sul lato destro del palco troviamo due sedie, su cui l’attore si sedie: sulla destra è Anna, la moglie, la fisioterapista in carriera, che desidera avere un bambino a tutti i costi, lo pretende come un diritto e vede nella maternità anche una rivolta contro una società egoista e utilitarista. Sulla sinistra, invece, Brioschi diventa il marito Michele, disoccupato, silenzioso e depresso. Non parla all’inizio, ma sbuccia un’arancia, ricca di vitamina C, fondamentale per la fertilità spermatica (a detta della voce iniziale), e inizia a mangiarla, con avidità, con fretta, con violenza, sporcandosi tutto e lasciando a terra una pozza di succo e di polpa. Forse è il simbolo del liquido seminale che non riesce a fecondare la sua donna, ma viene sprecato ogni volta che lui consuma l’amplesso. Sulla sinistra sta un manichino. Michele-Emiliano interagisce con questo oggetto, che sembra prendere vita e diventare una donna vera. Talmente vera che l’uomo ci fa sesso, sul rock strumentale di Bulletproof Cupid dei Placebo. L’orgasmo di Michele non è un’espulsione di umori corporei, bensì l’esternazione esplicita di riflessioni profonde, di critiche celate per anni alla moglie, di affermazione della propria sterilità. Il suo discorso ci mette, con lucidità e senza peli sulla lingua, di fronte alla tragedia domestica di due solitudini che, nonostante la vicinanza e la compenetrazione fisica, non si sono mai incontrate. Il personaggio che è sempre stato sulle sue fino a quel momento, improvvisamente ha una reazione forte e vomita addosso alla moglie, e anche a noi, espressioni che testimoniano disagio e disaccordo. Dopo il suo urlo di disperazione si sente un botto, poi le luci tornano a illuminare le due sedie in primo piano. Su quella a destra c’è Anna, calma come di consueto, che al ritmo scandito del metronomo, ossessionante come la sua fissazione per la maternità, sfoglia il libro dei nomi. La sedia sinistra, invece, è ribaltata a terra. Un bambino non è un diritto, non deve colmare un vuoto e non può nemmeno essere la soluzione per tenere insieme una coppia sfaldata. Nessun bambino nascerà da Anna e Michele. Marta Buggio «Scrivere, è annerire una pagina bianca; fare teatro è illuminare una scatola nera». Lo scrive l’autore e regista francese Joël Jouanneau e al Teatro delle Moline a Bologna con lo spettacolo XY entrambe queste azioni si sono compiute e concretizzate. Tre storie di uomini: uno che è padre adesso, scritta da Renata Ciaravino. Uno che lo sta per diventare, di Giuseppe Massa e uno che lo è stato ma che non lo è più, di Cristian Ceresoli. Tre storie che vengono narrate in tre pagine bianche differenti e le riempiono dello stesso nero che assorbe tutti i colori. Emiliano Brioschi, unico attore maschio al centro di una scena oscura, irradiata dalla sue interpretazioni sul tema della paternità. Leggo che lo stesso Emiliano Brioschi ha commissionato dei testi, ha voluto dare vita a scritture eleganti e delicate. Quando ha incontrato gli autori, ha chiesto a loro «di dipingere con le parole, come fossero tre pittori, lo stesso tema: la paternità». E proprio nel momento in cui l’incontro e la consapevolezza è avvenuta, la loro esistenza è implosa. «Quello che per me era fondamentale cogliere sin dall’inizio nella storia di questi tre uomini – ha dichiarato – era il momento in cui queste tre vite, che procedevano dritte come automobili, fossero uscite di strada e avessero impattato. Quale il momento dello sbandamento e quale il punto di impatto». Lo vediamo sopra un sgabello, una sorta di banco del giudice, visibile contemporaneamente a tutti. E davanti a noi spettatori l’impatto diventa immediato, fortissimo e la distanza si azzera. Siamo schiacciati dalle sue parole che raccontano una sofferenza che ti spacca via la testa. È la pratica del dolore «che parla non di spiegazioni ma di inconscio, di indicibile, di immaginario. Perché la scrittura del teatro, della letteratura serve per raccontare i pensieri torbidi, i silenzi, le ombre ed è importante che gli uomini ci dicano cosa pensano e come si sentono, senza tabù, giudizi o analisi sociologiche». Emiliano Brioschi interpreta un medico che pratica aborti, con l’inganno, su donne e feti sani mosso dalla sua follia omicida, causata da un lutto che porta nel cuore. Un racconto che diventa confessione e in ventiquattro minuti «è quello che dice, niente più di quello». La pratica come filosofia dell’azione e del fare, come esercizio, come professione e mestiere, come arte, come attività di ogni giorno. Senza tempo, senza luogo, ne geografia e storia. È il dolore profondo che attraversa la quotidianità e che cerca e pensa di salvare l’umanità intera impedendo ad altre donne di avere dei figli. Impedire la nascita per impedire il dolore, liberandoli. Ma senza essere in grado di avere dei strumenti per relazionare. Solamente utilizzando il potere. Infatti, siamo testimoni della «confusione di essere uomo nel sacrosanto universo femminile», dello smarrimento e della soluzione arcaica di uccidere quello che più si ama nella vita, oltre se stesso; il proprio figlio. Come Medea si macchia del crimine più orrendo che da sempre una madre può compiere l’uccisione dei propri figli diviene qui il simbolo estremo di una paternità negata. Una Medea maschile che confessa l’orrore e il male con una grande tenerezza e un candore femminile. Un personaggio prigioniero della propria passione d’amore, sofferente e vittima nello tempo stesso, del pregiudizio di chi lo considererà vigliacco, salvatore, assassino o folle. Questa di Ceresoli e di Brioschi è una storia metaforica; tutto è in poesia, è l’umanità che si confonde. «È la storia di un uomo che ha una ragione profonda dietro. Cosa rimane di lui non lo sappiamo». Emiliano Brioschi, tra gli applausi finali, dedica lo spettacolo a suo padre. Ifigenia Faye Kanarà]]>L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.