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Lo sguardo in marcia al Festival delle Esperidi

di Francesco Brusa

A volte, quando si scopre un luogo, con meraviglia si dice: “che splendido paesaggio, è un teatro naturale”. Stupore e attrattiva nei confronti della natura risvegliano nell’osservatore immagini dei trompe-l’œil teatrali della dinastia dei Bibiena, dei campi lunghi di certe produzioni cinematografiche, o ancora le acustiche incredibili di teatri ormai in rovina. Forte rimane un legame ancestrale con quella capacità umana di mimesis della realtà attraverso la narrazione di sé: il teatro è da sempre il luogo della visione – o in cui avere delle visioni – accecati dal sole al suo zenit o al tramonto. Un legame antico, originario tra uomo, paesaggio e rappresentazione che è andato disciogliendosi, attraverso la ricreazione di scenari naturali all’interno di spazi chiusi nonché attraverso una definizione di teatro come luogo regolato, di presentazione di sé alla società in una cornice sempre più cittadina, urbana.
In questo contesto, partendo dalle esperienze messe in atto dal Festival delle Esperidi di Campsirago Residenza, si può sviluppare una riflessione che accolga una dimensione teatrale e performativa atavica, ma ad oggi profondamente innovatrice.
La domenica del primo fine settimana del festival, il laboratorio di “Teatro nel paesaggio”, intitolato Sentieri e guidato dal direttore artistico Michele Losi e dalla performer Sara Tanita Vilardo, apre una riflessione di ampio respiro su questi temi: l’itinerario, di dodici ore, partendo dalle verdeggianti pendici del Monte Regina, dove sorge il comune di Ello, si snoda tra i boschi di Figina fino a Ravellino, ultima tappa prima del ritorno al borgo di partenza. Intervallato da spettacoli teatrali, pranzo con gli alpini di San Genesio, musica e una performance finale in prima nazionale – The game of time, composta da sette storie dirette da sette registi messa in scena dall’attore e puppet designer cileno David Zuazola – il laboratorio è un avvicinamento alle pratiche di camminata che, partendo da Stanislavskij e Grotowski, attraverso la lente collettivizzante del Living Theatre di Malina e Beck, si aprono a una rilettura del teatro tutta contemporanea.

niziata la passeggiata le case spariscono in fretta e il bosco immerge tutti e trentacinque i partecipanti – si potrebbe dire spett-attori, o performer improvvisati. Il primo compito è in un ampio cerchio: risvegliarsi, guidati da Sara e Michele, attraverso movimenti lenti, attenzione al respiro e, per quanto si riesca, occhi chiusi. Un giro di presentazioni – solo nome e una parola che descriva il proprio stato d’animo in quel momento, o forse se stessi più in profondità di quanto non si percepisca immediatamente – qualche indicazione sul come si camminerà e si inizia. Viene in mente Antonin Artaud che, in uno dei Cahier, scriveva “Je suis un homme / homme / en marche / et c’est / en marchant / que / je me / compose / tel / que je / me veux / et que je / comprends / ce que je veux / enmarchant / et / en chantant” (Cahier 390, gennaio1948, Bibliothèque Nationale Francaise, Paris).
Ma durante Sentieri cantare non è concesso: si procede in fila indiana – qualcosa di molto più complesso di quello che ci viene insegnato a scuola – in silenzio, non si può guardare per terra, si deve cercare di non far rumore con i piedi e di non pensare, o meglio, di guardare i propri pensieri che scorrono, come fossero essi stessi il paesaggio.
Così liberato il corpo potrà acquistare coscienza della realtà circostante attraverso odori, colori e suoni che risaltano in modo diverso, in una sorta di risveglio percettivo. La lunga fila indiana con il proseguire dei passi diviene un unicum in cui ogni individuo ha la possibilità di avvertire la propria essenza e il proprio corpo. Il legame di questa pratica con l’arte performativa e il teatro è naturale, immediato, parte dalla propria percezione in quanto esseri e guarda alla scenografia naturale che circonda noi e gli altri. Un corpo privato, con le sue cicatrici e la sua mente, che al contempo inizia a farsi corpo aperto, in grado di intuire con coscienza ciò che ha intorno, un composto di paesaggio naturale e umano. Un movimento duplice che dall’esterno porta dentro di sé per poi ritornare, con maggiore consapevolezza, al di fuori: nel Fedro era Platone a richiamare alla mente del lettore che l’anima-psiche è sia interna che esterna, è un’unione di ciò che abbiamo in noi e di ciò che è ovunque attorno a noi.
È però necessario attraversare il paesaggio, sapendolo vedere come vivo e al contempo sapendovisi perdere, per incontrare se stessi, chi abbiamo intorno, gli eventi che si dipanano. Per farlo la consapevolezza sul come spostarsi da un luogo a un altro è fondamentale. In Sentieri si cerca di mettere in atto una camminata pre-espressiva, così verrebbe definita da un punto di vista teatrale, che predispone all’ascolto e all’incontro con il fine di innescare il desiderio nei partecipanti di “allenarsi” per il raggiungimento di un camminare cosciente ma naturale, capace di mettere in relazione con ciò che è altro da noi, sia flora, fauna o essere umano.
Questa pratica riconduce all’allenamento attoriale che, per scoprire l’espressività nascosta del suo sé, deve cercare di rintracciare la propria natura originaria, bestiale, cauta e vigile, senza per questo far percepire allo spettatore, nel momento della messa in scena, il lavoro teatrale che vi si nasconde.

Uno spettacolo di teatro nel paesaggio come E io non scenderò più della Compagnia Stradevarie, liberamente tratto da Il Barone rampante di Calvino, con Sara Molon e Soledad Nicolazzi arrampicate tra gli alberi dei boschi vicino Figina, riesce, in due ore di passeggiata con oltre cinquanta bambini in prima fila, a suscitare una chiara percezione: essere parte della scena che è un luogo vivo, attivare la propria immaginazione, proiettare immagini dal profondo e magico sé all’esterno, sentendosi parte di una collettività.
La qualità della propria presenza, che sia in riposo o in azione, si apre a riconfigurazioni molteplici che, partendo da una pratica di tecnica attoriale e attraversando la possibilità di meditazione personale, fanno intravedere l’opportunità di un esperimento sociale, verso un ripensamento di quella collettività ad oggi fluida, poco coesa e attiva che sembra non sentirsi più appartenente ad alcun paesaggio.
Oltre a riconfigurazioni future, inevitabilmente, una riflessione che si ponga come oggetto il nostro rapporto con la “natura” e il paesaggio non può che partire da una dimensione del passato, se non appellarsi alla necessità di una riattivazione della memoria. Almeno per chi, come noi, fa parte di un’ipotetica “comunità teatrale” che nella maggior parte dei casi, e per forza di cose, è “inurbata”, totalmente aliena da relazioni con i luoghi che non siano in qualche modo addomesticate, non-conflittuali. La storia stessa di Campsirago è storia di un recupero e di un dialogo con il com’era. Il borgo brianzolo venne infatti totalmente abbandonato durante gli anni ’60, per poi essere piano piano riscoperto, da una comunità hippie prima, da progetti di speculazione edilizia poi, infine anche attraverso la residenza teatrale che oggi vi opera.

Così, una volta che dai boschi presso Figina si arriva con un’ora abbondante di camminata al rifugio alpino del San Genesio, In capo al mondo di TeatroInvito accenna con forza a una tale dialettica con il passato. Lo spettacolo è un racconto appassionato, a tratti molto enfatico a tratti (auto-)ironico, della figura di Walter Bonatti. Meglio, è il racconto di un tentativo di avvicinamento a un mistero, che non si potrà mai comprendere completamente. L’attore, Luca Radaelli, talvolta esce dal ruolo di narratore per chiosare alcuni passaggi, insistendo su quanto la tempra e le imprese dello scalatore bergamasco siano distanti da lui, e da noi. Insistendo sul fatto che fosse lo stesso Bonatti a lamentare come la fine di un rapporto aspro e conflittuale fra uomo e natura, che in quegli anni cedeva all’avvento del turismo di massa (al «consumo di facili esotismi», come viene definito nello spettacolo), segnasse anche la scomparsa di un mondo, coi suoi determinati valori. Dedizione, fedeltà, eroismo inteso come sfida personale e non come ricerca di successo e affermazione. Se le montagne e i deserti si riempiono di alberghi, sapremo ancora ascoltare i loro silenzi?

Qualcosa di simile avviene anche con La grande foresta, in scena qualche giorno prima presso il Mulino Tincati. Sul limitare di un giardino che però assume già le sembianze di un bosco, il drammaturgo Francesco Niccolini e l’attore Luigi D’Elia ricreano quella condizione liminale tipica delle loro produzioni, per cui parole e recitazione sembrano costantemente lambire il fuori del teatro pur calandosi in una dinamica scenica che rimane propriamente rappresentativa. Allo stesso modo la storia si muove dentro e fuori da una foresta in cui il bambino protagonista viene iniziato dal nonno alla pratica venatoria. La caccia ha le sue regole, ferree: prendersi il diritto di sparare agli animali implica, neanche troppo paradossalmente, coltivare un grande rispetto per gli stessi e per il loro ambiente. Esiste una sorta di “codice d’onore” che lega il cacciatore alla sua preda, che rende il primo in fondo un ospite della seconda. Un ospite violento, certo, ma non tirannico come potrebbe invece esserlo quando si “dedica” all’industrializzazione e al disboscamento.
Si tratta di valori, codici e regole che comunque rimangono “confinati”. Hanno senso solo all’interno di contesti specifici, quali appunto le profondità di una foresta, un altipiano ad alta quota, le vette impervie cui accedono solo i grandi scalatori. Difficile rapportarli alla società in cui viviamo che, come si accennava poco sopra, impone una certa fluidità e una certa parcellizzazione. Eppure, quello che sembra essere richiesto a noi spettatori (spettatori “inurbati”, insistiamo, anche in senso metaforico e teatrale) è di recuperarne il movimento interno, di cogliere l’ampiezza del respiro dal quale si generano. Non siamo più, quali eravamo all’inizio della nostra camminata, in una dimensione di sinergica prossimità con la natura, in una posizione di sfida e stimolo ma, in fin dei conti, anche rassicurante. Il paesaggio evocato dagli spettacoli, complice la frontalità teatrale della messa in scena, è ora qualcosa di gigantesco e spesso minaccioso, davanti al quale sentiamo di scomparire. Ma è nella grandezza in cui ci sappiamo inadeguati che pare avvenire una sorta di “trompe-l’oeil morale”: la vastità di certi paesaggi ci rende piccoli, ci relativizza, e proprio in virtù di una tale relativizzazione valori, codici e regole, che definiscono il nostro “abitare la vastità”, assumono un carattere assoluto. Invitandoci forse a ritrovare un po’ di quella assolutezza anche nell’osservazione del (non-)paesaggio quotidiano, più minuto e aleatorio, per scoprirvi il senso di una possibile, e diversa, misura della distanza fra l’io e il mondo, fra noi e la società.

Dal picco del San Genesio si comincia a ridiscendere verso Ello, il punto di partenza, mentre la stanchezza rende la fila indiana di spettatori più disordinata e meno attenta al ritmo del camminare. D’altronde, nel report di commento al convegno che si è tenuto a Campsirago accennavamo al concetto di “drammaturgia-mosaico”, come principio compositivo che guida tanti degli spettacoli che si confrontano col paesaggio e con la dimensione “natural-culturale”. Un principio che verrebbe dunque da estendere all’intera programmazione del festival: dal punto di vista delle forme e dei linguaggi, nonché delle pratiche di fruizione, il cartellone sembra veramente un insieme di tante tessere, ciascuna con la propria peculiarità ma unite nella stessa vibrazione cromatica. The game of time, di David Zuazola, chiude la giornata con tutt’altre atmosfere e accenti rispetto alle performance precedenti, immergendo i burattini protagonisti in una serie di “bassifondi” straniati e dalle tinte dark.
Il festival come un super-organismo, dove anche la qualità del nostro “stare” di spettatori assume una funzione precipua e non accessoria? L’impressione è che fra teatro e paesaggio, questo binomio a un tempo lineare e sfuggente, avvenga una sorta di cortocircuito. È il primo a lasciarsi influenzare dal secondo, mutando le proprie pratiche e i propri codici, oppure è il secondo a spostare il proprio statuto di realtà, quando attraversato dai riti finzionali del primo? Sembrerebbe che gli spettacoli, il teatro dunque, che certo contengono suggestioni tematiche e compositive legate al paesaggio, non azzardino, restino legati a una dimensione “da palcoscenico”. Eppure, il loro essere inseriti in una cornice non convenzionale (o meglio, che stride con la convenzionalità che noi spettatori ci aspetteremmo) pare renderli a volte quasi “trasparenti”, in contatto maggiormente diretto con l’oggetto del loro mettere in scena. Pare svelare una diversa realtà, quasi una seconda natura dell’oggetto in questione. Claudio Meldolesi ricordava che quello del teatro-specchio del mondo è un “luogo comune”, che le pratiche sceniche non cessano di inclinare «fino a farci vedere un mondo misteriosamente comunicante con le leggi del teatro». Fino a far diventare, nel caso de Il giardino delle Esperidi, il paesaggio circostante il vero “spettacolo” cui noi assistiamo, e al quale applichiamo dinamiche di visione che (ri-)scopriamo infine attraverso il teatro.
Laddove il piccolo, il delimitato, la cura e l’immersione meticolose nel dettaglio sono, come ben sappiamo, già tensione verso l’universale, espressione di un’apertura. Dice il poeta Paolo Febbraro: «Non è meno infinita del mare / la roccia, con il suo non parlare / tetro, materia delusa, implosa, / nel suo sgretolarsi, una rosa».

di Francesco Brusa, Camilla Fava

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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