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foto di Luigi Angelucci
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L’eterno ritorno è un buco nero. “Tre sorelle” di Muta Imago

di Giulia Penta

«L’inferno, nelle zone vitali». Per Ol’ga, Maša e Irina, il luogo della punizione sta in mezzo al petto. Eppure, anche la loro casa è un erebo abitato da desideri che attendono una dolce, sconosciuta, misteriosa felicità. È Čechov nella sostanza, ma irriconoscibile nella forma. Presentato al pubblico in prima nazionale al Teatro India dal 9 al 14 maggio, Tre sorelle di Muta Imago è una delle riscritture contemporanee più intriganti del classico cechoviano. Interpretate da Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli, le sorelle del duo romano ricordano all’unisono il passato tramutando il lamento personale in profezia universale. Si interrogano sulle proprie sorti future, ma a differenza delle loro gemelle russe, sono consapevoli che Mosca è solo un significante, un contenitore di proiezioni e aneliti. Se da un lato l’eco cechoviano è ricercato (l’eleganza dei dettagli, importanti accadimenti e sentimenti condivisi con noncuranza, dialoghi che prendono forma seguendo indipendenti centri di forza), dall’altro, l’unione dell’essenzialità del discorso di Čechov e della dispersione temporale dei contenuti e dei significati tipica della lingua dei Diari di Virginia Woolf, ci restituisce una coraggiosa drammaturgia capace di rappresentare la concezione nietzschiana del tempo e della volontà umana. Alternando la dimensione onirica alla concretezza del reale, Claudia Sorace e Riccardo Fazi non mettono in scena la rassegnazione tipica dei personaggi cechoviani, bensì la lotta contro la passività e il nichilismo che ci rendono esangui, oggi.

Prima della rivoluzione del 1917, la Russia zarista è ancora una società conservatrice e arretrata. Sul mare d’Azov, a Taganrog, Anton Pavlovič Čechov, nipote di servi della gleba, osserva il fermento che cambierà il volto del suo paese insieme a Tolstoj e Dostoevskij che già lo raccontavano. Nel 1901, tre anni prima che la tubercolosi lo prendesse con sé ai piedi della Foresta nera, compone Le tre sorelle, un dramma dove tutti i suoi loci narrativi prendono il sopravvento consacrando il suo stile impressionistico come uno dei segni della modernità. Vi ritroviamo i cardini dell’esistenzialismo: il tentativo di integrare l’ambiguità del tempo nelle trame dell’esistenza, la ricerca di un senso, l’impossibilità di realizzazione, la solitudine dei nostri naufragi, l’insensatezza del sentimento d’amore e di tutte le ambizioni. Il teatro cechoviano fatto di stati d’animo e atmosfere ci restituisce i contorni di uno scrittore realista colmo di lirismo. Un uomo ateo impegnato a dissertare di che morte morì Erode e a indagare per conto di un pittore se nel Giardino degli Ulivi c’era la luna quando Cristo conobbe l’agonia. Ateo «per volontà di Dio» e positivista, Čechov interroga le verità evangeliche assimilate dalla violenta educazione paterna: «Quello che muore nell’uomo è ciò che è raggiungibile dai cinque sensi. Ma ciò che è al di fuori dei sensi e che con tutta verosimiglianza è immenso, inimmaginabile, sublime, continua ad esistere?».

Nessuno ha scritto intorno alla mortalità come Anton Čechov: la morte come preliminare di una vita migliore. Come tutti i suoi scritti, Le tre sorelle inizia in medias res, tra le mura di casa Prozorov, con il ricordo di Ol’ga della morte del padre: «Nostro padre è morto esattamente un anno fa, in questo stesso giorno, il cinque maggio, il tuo onomastico, Irina. Faceva freddo allora, nevicava. Io credevo che non ce l’avrei fatta a reggere, tu giacevi svenuta, come morta. Ma un anno è passato, e ce ne ricordiamo senza pena, tu ti vesti già di bianco, il tuo viso risplende. Anche allora battevano le ore». Torna allora a suonare nel salotto di casa Prozorov la banda del corteo, partono i colpi a salve tra le fronde delle argentee betulle, archetipo della Grande Madre, simbolo di giovinezza e rinascita. Ormai, il cimitero è lontano, ma anche Mosca è lontana, sognata, tutte le notti. È un appartamento meraviglioso quello dove Ol’ga e Irina sognano una vita diversa, quello dove Maša ammette le sue colpe rammaricandosi di non poter essere la gru, l’oca che volano e volano, e indipendentemente da quali pensieri, sublimi o meschini, attraversino le loro menti. Lo riempiono i fiori e la luce che filtra dalle finestre, inutili lussi e velleità piccolo-borghesi come la conoscenza di più lingue straniere, la noia del giorno del Signore e una vita di apparenze.

Il 12 maggio 2023, sul palcoscenico tra il Gazometro di Ostiense e l’ex saponificio, abitato ora dal buio ora da geometrie luminose e sonore, le tre sorelle del XXI secolo sussurrano le parole di “Tea for Two”: «Day will break and I’ll awake / And start to bake a sugar cake / For you to take / For all the boys to see / Oh, we will raise a family / A boy for you, a girl for me / Oh, can’t you see / How happy we would be?». È il 1950 e Doris Day è una giovane benestante che canta le stesse parole sperando in un futuro di successi in un film ambientato nel 1929: la crisi di Wall Street è alle porte, ma le sue labbra scarlatte continuano a cantare. Si lacera così la dimensione dello spazio e del tempo che collassano su se stessi, come avviene quando nasce un buco nero, immagine portante della semantica dello spettacolo e quanto vi è di più vicino in fisica alla morte biologica: «Le stelle che collassano su se stesse aumentano la propria densità, si crea una voragine senza fine, un buco nero, un oggetto eterno che non cresce né rimpicciolisce, resta sempre uguale. Al suo centro, il passato è congelato in un istante».

Pesanti tende delimitano il perimetro della casa: una moquette chiara, pochi oggetti, una sveglia digitale, qualche cuscino, fogli di carta da lettere sgualciti fitti di inchiostro, lampade, una crystal ball. Netti controluce si alternano a ombre piene. Una consolle a lato, immersa nella penombra, inizia a ricamare per noi. Il tappeto sonoro di Lorenzo Tomio è il quarto personaggio che si fa strada attraverso i punti di rottura dei corpi e delle voci che a mano a mano ci conducono fuori dalla loro autocommiserazione per trasportarci nella transfiguratio. Al centro della scena, tre generazioni di donne. Le sorelle Prozorov si stringono in un abbraccio fino a formare un’unica massa, indistinguibile, deforme. È Dio, uno e trino. È la Parca, all’inizio concepita come singola, poi trina, a presiedere il destino degli uomini con un fragile fuso. Le sorelle Prozorov non tessono fili, ma giocano con una luce algida che scorre veloce sulle loro esili fattezze aliene fino a dare vita a Uroboro, il serpente che inghiotte la propria coda e cinge loro la vita: l’eterno ritorno.

Irina, Ol’ga e Maša sono sole nel grande salone del loro appartamento, la presenza maschile è superflua in quanto altera già, fin dalla nascita, le loro parole, i loro gesti. Le tre sorelle si somigliano, emergono dal cono d’ombra con uno spezzato color carta da zucchero che rende anonime le loro forme. Hanno tutte un unico desiderio: tornare a Mosca e dimenticarsi di tutto il resto. Andare a Mosca, il più fretta possibile, per iniziare a vivere. Tornare in via Staraja Basmannaja e dimenticarsi di tutto, anche della paura di morire. Ma la stazione ferroviaria è lontana, troppo lontana, a quaranta chilometri, e nessuno sa perché o perché sia importante saperlo, ma tanto basta perché l’anelito alla vita si traduca in un immobilismo aberrante: l’inferno è qui, nelle zone vitali, appunto. Ritrovare le impronte nella neve di undici inverni trascorsi dall’ultimo viaggio a Mosca con il colonnello-padre, ricostruire i propri passi fino a che ne si abbia memoria, quando la mamma era ancora in vita, prima del matrimonio, prima che la giovinezza abiurasse ai loro volti. Questa è l’unica estesa azione di tutto il loro dramma di orfane, amanti di ombre e simulacri, le stesse che si proiettano nello spazio della scena, ora blu, ora di un giallo intenso, ora presagio di ardenti passioni, ora mortifere. È il caso del ballo in maschera del secondo atto che mentre nel dramma non arriverà mai, qui si dipana inquietante e grottesco a riprova che il sottosuolo di casa Prozorov è abitato da fantasmi. Le sorelle si abbandonano a movimenti languidi indossando maschere biforcute: è il tracollo delle forme, dove la banalità delle loro tragicità borghesi si intreccia con il mostruoso e una sensualità onirica e morbosa. È il simbolismo dell’Ottocento, l’erotismo inquieto di Johann Heinrich Füssli, l’immaginazione negativa di Gautier e Maupassant, l’unheimliche freudiano.

Sospese davanti «all’impossibile epifania di un segreto» e al terrore dell’oblio, congelate nell’istante in cui «how happy we would be» precede la mancanza di un fine che supporti l’entusiasmo tipico della giovinezza, le sorelle si ritrovano a quattro zampe gravando tutto il peso del loro corpo sulla seconda e terza falange prima di ritornare in posizione eretta. La Storia è riscritta: una dimensione si squarcia, le pesanti tende dell’appartamento si schiudono lasciando entrare tutti i colori dello spettro, il bianco della luce è così forte da stornare lo sguardo del pubblico mentre invitante abbraccia le sagome di Pozzoli, Piseddu e Dordei che avanzano voltando le spalle alla domanda senza risposta «perché vivo, perché non mi sono ancora ammazzata?». Ma «verrà un giorno in cui sapremo il perché di tutto questo, di tante sofferenze. Allora non ci saranno più misteri, ma nel frattempo dobbiamo vivere». Le ombre avviluppano infine solo Čechov, perduto insieme a Ol’ga, Maša e Irina al crocevia dove la possibilità di un’altra vita è preclusa e la loro anima «un pianoforte chiuso» senza chiave, come il fiore che non è sbocciato: a poco vale la sua bellezza, se non a farsi promessa.

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2 risposte

  1. Giulia , non ci conosciamo di persona , grazie di cuore per il tuo scritto , fin’ora ciò’ che di più’ interessante ho letto sul nostro lavoro .
    Fiamma BENVIGNATI ( costumi )

    1. Cara Fiamma, sono io che ringrazio voi per lo splendido lavoro a cui avete dato vita. Con la speranza di incontrarci presto di persona, ti faccio un grande in bocca al lupo per le sfide future e presenti.

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