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#07
Orecchio acerbo
Radio, podcast, educazione
a cura di Ilaria Cecchinato e Rodolfo Sacchettini
Avventure sonore con piccoli detective: la serie podcast Sara’s Mysteries
Intervista all’autrice Sara de Monchy
di Ilaria Cecchinato
Tutti noi almeno una volta nella vita ci siamo ritrovati di fronte a un mistero da risolvere: grande o piccolo che fosse, la soluzione non è sempre dietro l’angolo e sebbene cercare indizi comporti una certa fatica, può rivelarsi anche molto divertente. Di misteri e altre bizzarrie ci racconta Sara de Monchy, regista teatrale e audio maker olandese, creatrice di una serie podcast di grande successo in Olanda, Sara’s Mysteries, un progetto artistico per e con i bambini, che attraverso l’arte invisibile del podcasting – come pratica e come prodotto – intende accendere l’immaginazione e la fantasia dei più piccoli, stimolandoli anche al pensiero critico e a profonde riflessioni su grandi temi. Negli episodi, ognuno dedicato a un piccolo protagonista e al suo mistero da risolvere, Sara accompagna il bambino e gli ascoltatori in un avventuroso viaggio alla ricerca di una soluzione.
Ilaria: Come è nata l’idea di Sara’s Mysteries e perché hai deciso di occuparti di audio nella tua carriera?
Sara: Ho studiato regia alla Royal Theatre Academy (Maastricht) e avevo difficoltà nel costruire le scene. Ho pensato che creare progetti audio potesse essere una soluzione, dal momento che gli ascoltatori possono immaginare da soli il mondo che racconto. Nel momento in cui mi sono resa conto di questo, mi è tornato in mente che da bambina preferivo leggere un libro invece di vedere un film perché potevo fantasticare. Io amo la saga di Harry Potter per esempio: vedere i film dopo aver letto i libri è ancora oggi deludente perché sono troppo diversi da come avevo immaginato. Ricordo anche che ero affascinata dalle storie da ascoltare, quelle tratte dai libri sonori, costruiti da sound design e composizioni al loro interno. Mi piacevano tantissimo ed ero solita sedermi di fronte allo stereo del soggiorno, mezza distesa, e mentre ascoltavo ruotavo gli occhi come se entrassi completamente nel mondo della storia che stavo ascoltando. Questi vivi ricordi mi hanno portata alla decisione di fare audio per bambini. Ho così partecipato a un programma in Olanda organizzato dall’International Documentary Festival, un grande evento che aveva un progetto rivolto a giovani documentaristi, come l’Emittente Pubblica per bambini (qui abbiamo tre buoni canali dedicati ai più piccoli finanziati dal governo). Quell’anno per la prima volta c’era un concorso audio e ho pensato fosse un’opportunità per assecondare la mia passione per la fantasia. Così ho inviato la mia candidatura, ma ho partecipato con un lavoro diverso da Sara’s Mysteries: mi dissero di tornare con un altro progetto perché quello non era abbastanza buono per diventare un programma da finanziare. Avevo tante idee nella mia testa e ho capito che volevo davvero creare qualcosa per i bambini, ma invece di imporre io un tema, ho pensato che sarebbero dovuti essere proprio i più piccoli a immaginare un loro argomento. Così sono andata in una scuola per fare un breve workshop. Non avevo ancora la parola “mistero”, ma alla fine ho chiesto ai bambini se secondo loro le persone hanno qualcosa da risolvere nelle loro vite: circa 15 mani si sono alzate. Così è iniziato Sara’s Mysteries.
Ilaria: In questo senso il “mistero” è un tema e al tempo stesso una pratica, un modo per coinvolgere i bambini in una sorta di gioco. C’è un valore educativo in questo processo? Che tipo di relazione stabilisci, in quanto adulto, con i più piccoli e viceversa?
Sara: È una buona domanda e anche complessa, perché sento che nella mia relazione con i bambini l’aspetto educativo non è qualcosa su cui mi focalizzo. Per loro sono una sorta di divertente sorella maggiore, parte del loro team. In questo senso ho una relazione con loro totalmente differente rispetto ai loro insegnanti o ai genitori. Penso che i bambini siano così tanto coinvolti proprio perché li ascolto e prendo quello che dicono seriamente. Cerco sempre di non indurre le risposte: per esempio, a volte mi fanno una domanda alla quale pensano io abbia la soluzione. Chiedo invece loro: “cosa ne pensi tu?” oppure “cosa pensi dovremmo fare?”. Non mi vedo quindi come un’educatrice, sebbene io sia sempre focalizzata sulla relazione con il bambino.
Ilaria: Mentre parlavi, mi hai fatto ricordare quello che hai spiegato durante la tua masterclass a Lucia Festival, quando hai detto che non stai di fronte ai bambini ma ti siedi accanto a loro, come se giocaste insieme con i Lego. È un’immagine davvero interessante e ora mi è più chiara. Penso quindi che, anche se non è un intento primario, anche in questo tipo di relazione ci sia una qualche forma di educazione…
Sara: Credo che l’educazione sia soprattutto imparare per la crescita. Durante il processo creativo avviene qualcosa di simile. Iniziamo guardando all’argomento principale dell’episodio e poi cerchiamo di spostarci in altre direzioni. Alla fine parliamo di grandi temi, nati a partire dalla materia principale, come il razzismo o le scelte delle persone durante la Seconda Guerra Mondiale. Questo può essere inteso come una sorta di educazione, ma penso che una specie di curva dell’apprendimento emerga quando il podcast è finito e le persone lo ascoltano. Tuttavia, quando creo insieme al bambino, non mi concentro troppo a insegnargli qualcosa o sul livello educativo del processo, perché penso che potrebbe ostacolare l’immaginazione.
Ilaria: Entrando nel cuore del percorso di creazione, quali sono le fasi del lavoro? Da dove parti e come sviluppi ogni episodio? Ora inoltre il podcast è popolare in Olanda, ma immagino che all’inizio sia stato difficile spiegare ai bambini che cosa sarebbero andati a fare. Come ti approcciavi prima e come ora?
Sara: È vero quello che dici, Sara’s Mysteries ora è famoso, ma a essere onesta, i bambini migliori sono quelli che non conoscono nulla del podcast, perché arrivano con i misteri più autentici. Possono costruire una storia originale e spontanea invece di portarne una che potrebbe adattarsi al format o costruita in un modo simile a come ha fatto un altro bambino in altri episodi. La mia casella di posta è ormai piena di bimbi che mi scrivono per raccontarmi i loro misteri ma, purtroppo, quello che vedo è che la maggior parte di loro ha già un’immagine di come dovrebbe essere. Quindi, come prima cosa, vado nelle scuole per cercare bambini da coinvolgere, proponendo un workshop gratuito. Alla fine chiedo alla classe se qualcuno ha un mistero: solitamente, anche qui, almeno quindici mani si alzano. Successivamente parlo con ognuno di loro individualmente, fuori dalla classe attorno a un piccolo tavolo. Con chi sento di voler parlare più a lungo, organizzo una chiamata Zoom e poi torno nel mio ufficio chiedendomi se c’è un macro-tema e se il mistero è risolvibile. Infine faccio un piano di lavoro con il bambino, pensando insieme come risolvere le varie fasi del mistero e pianifichiamo le prossime mosse, come cercare qualcosa su internet, fare un’intervista, andare in un posto specifico. Quindi abbiamo una sorta di brainstorming in cui creiamo la struttura. A questo punto dico ai genitori che andrò a casa loro dalle tre alle cinque volte. Il bambino lancia molti spunti e insieme cerchiamo di inserirli nel planning che abbiamo creato: un vero e proprio processo di co-creazione.
Ilaria: Parlando dei genitori, qual è il loro ruolo, quanto li coinvolgi nel podcast e, in generale nella creazione?
Sara: Cerco di coinvolgerli il meno possibile. Per esempio, stavo lavorando con una bambina che voleva ritrovare un amico con il quale, quando aveva sei anni, ricorda di aver vissuto un’esperienza spaventosa che ha quasi dimenticato. L’unica cosa che sapevamo era che l’amico si era trasferito e viveva dall’altra parte del paese. L’Olanda è piccola, perciò ci sarebbero volute soltanto due-tre ore di auto per raggiungerlo, ma i genitori non volevano lasciare che la figlia viaggiasse sola con me, quindi sono venuti con noi. A me non piace perché quando ci sono i genitori, i bambini sono diversi rispetto a quando sono soli. Trovo curioso il fatto che loro pensino di conoscere i figli molto bene, ma in realtà non è affatto così. Ho conosciuto un bambino che era timido soltanto quando c’era la madre attorno. Quindi cerco sempre di evitare che il genitore sia troppo presente, ma è necessario coinvolgerli, innanzitutto perché a me serve il loro permesso e a loro avere fiducia in me. A volte inoltre abbiamo bisogno di loro per il mistero: per esempio, un bambino aveva stretto una forte amicizia in un campeggio in Francia ma purtroppo aveva perso i contatti telefonici con lui. Nel podcast c’è quindi un momento in cui è necessario sentire i genitori che dicono di non avere il numero di telefono di questo bambino o della sua famiglia, per dimostrare che il mistero è vero.
Ilaria: Ho provato ad ascoltare alcuni episodi, ma per me è abbastanza difficile comprendere totalmente a causa della lingua. Ho capito però che tu sei una sorta di narratrice, colei che tiene le fila del discorso, e poi ci sono tutti i vari materiali che hai raccolto con i bambini. È corretto? Puoi raccontarci come strutturi ogni episodio e qual è il tuo ruolo nel podcast?
Sara: Gli episodi iniziano sempre sempre con il motivo per cui ho deciso di creare questo progetto, ovvero un mistero che non sono mai stata in grado di risolvere: avevo una nonna che teneva nel suo armadio un dente d’oro e ho sempre voluto sapere cosa fosse. Segue poi l’introduzione del bambino e una parte dove lo vado a incontrare, con una breve intervista riguardo al suo mistero. Da qui si prosegue con le varie fasi per risolverlo. L’episodio è una sorta di collage, ci sono io insieme al bambino connessi con il suono e la musica. Molto spesso ci sono sezioni in cui torniamo indietro e io rifletto sul tema ispirato dal mistero, per ampliare il punto di vista. Poi torno alla narrazione principale e gli ascoltatori partecipano a qualche momento del processo creativo, possono seguire il mio viaggio in contatto con il bambino. Quindi nel podcast c’è una linea principale, ma da cui però esco spesso. Mentre questa è semplice e con un chiaro obiettivo (dobbiamo cercare un cane, per esempio), le riflessioni sono abbastanza profonde e complesse. In ogni episodio è per me importante fare in modo che tutto sia comprensibile ed è quindi cruciale creare un ponte chiaro tra la linea principale della storia, le considerazioni e gli elementi di fantasia. Ogni episodio poi finisce con una chiacchierata in cui rifletto con il bambino sul macro-tema; infine c’è un brano, che è sempre lo stesso.
Ilaria: È mai successo che un mistero non potesse essere risolto?
Sara: No mai, ogni mistero nel mio podcast deve avere una soluzione, anche se il risultato non è entusiasmante o straordinario. Se sto lavorando a un mistero irrisolvibile, lo cambio. Quando si pensa a un prodotto per bambini, penso sia davvero importante dare una conclusione, specie se si tratta di qualcosa da risolvere, perché dimostri al bambino che ogni problema può avere una soluzione. Per esempio, c’era una casa abbandonata dentro la quale volevamo entrare per vedere se ciò che il bambino pensava ci fosse dentro fosse ancora lì: non siamo mai riusciti a ottenere il permesso per entrare perché la casa fu venduta a un nuovo proprietario. Sarebbe stato triste finire l’episodio dicendo che non ci eravamo riusciti, quindi ho cambiato il punto di vista. Il mistero è diventato cercare la storia di quella casa e abbiamo scoperto cose incredibili, come il fatto che quello fu uno spazio dove nella Seconda Guerra Mondiale i tedeschi lavoravano. Nell’episodio non nego che tutto è cominciato con il desiderio di entrare nella casa ma che ci è stato impedito; tuttavia racconto agli ascoltatori il cambio di direzione e li conduco a seguire la nuova strada con noi.
Ilaria: Come accennavi prima, quello che cerchi è di stimolare l’immaginazione sia del bambino protagonista sia degli ascoltatori. Come lo fai praticamente? Cosa pensi che l’audio permetta all’immaginazione diversamente da altri media?
Sara: Per stimolare l’immaginazione penso sia importante avere e dare un’idea chiara del luogo in cui ci si trova e come questo appare. Per farlo in audio, bisogna usare molti dettagli e elementi visionari per permettere agli ascoltatori di creare da soli il mondo che si sta raccontando. Affinché questo accada è necessario ripetere spesso o puntualizzare i dettagli diverse volte, perché siamo nel buio e c’è bisogno di mostrare quanto possibile. Quindi quando hai una struttura chiara della storia, puoi aiutare il pubblico a iniziare a immaginare. Riguardo la tua seconda domanda, penso che con l’audio si possa sia creare qualcosa che non esiste nella vita vera, sia rendere le situazioni più entusiasmanti di come sono. Ovviamente se fai cinema hai più soldi, hai i set e gli effetti speciali, tuttavia devi fare i conti con il mondo reale. In audio puoi invece fantasticare di più, perché soltanto con una eco puoi narrare che stiamo entrando in un buco sottoterra e permettere così al pubblico di visualizzarlo, per esempio. Inoltre con l’audio puoi muoverti da un posto all’altro più velocemente. Si può partire parlando di una memoria d’infanzia in generale e all’improvviso, attraverso la musica e sound design, ritrovarsi dentro un ricordo personale. È possibile vivere un sogno o una memoria e condividerli con gli altri che possono visualizzare nelle loro menti queste invisibili situazioni.
Ilaria: Ciò che rende il tuo podcast originale è il fatto di essere rivolto a piccoli ascoltatori ma al tempo stesso essere creato con i bambini. Quindi, come stimoli l’immaginazione del protagonista dell’episodio?
Sara: Chiedendo aneddoti e ricordi. Penso che quando le persone raccontano le storie a loro modo, è la loro immaginazione a rispondere alla tua domanda. Voglio che loro arrivino a fantasticare spontaneamente e chiedere storie aiuta. Non mi piace incitare risposte, perché quando accade ti vedono come un intervistatore. Per queste ragioni, lascio loro descrivere molto, chiedendo come profuma una certa cosa, che aspetto ha… Per aiutare l’immaginazione chiedo anche: “come potrebbe essere?” È poi importante non avere opinioni sui loro pensieri e storie, per far loro capire che tutto è possibile. Come potremmo entrare nella casa? Potremmo provare a strisciare, o forzare la porta, esattamente come l’hanno creato nella loro fantasia o nei loro sogni.
Ilaria: In questo senso, si può dire che ogni narrazione è una sorta di manipolazione della realtà. Nel tuo caso, i misteri sono reali. Inoltre, ricordo l’episodio ascoltato a Lucia Festival in cui il protagonista era alla ricerca di una ninna nanna che il padre era solito cantargli quando era molto piccolo, ma il bimbo non è più in contatto con il genitore. Alla fine si sono incontrati, quindi con il tuo podcast hai cambiato qualcosa nella vita vera. Come bilanci realtà e finzione nelle tue narrazioni?
Sara: Certamente abbiamo seguito un episodio di vita vera nell’episodio di cui parli: il bambino aveva un padre ma aveva perso il contatto con lui e la madre non voleva che cercassimo di ritrovarlo perchè era affetto da schizofrenia. Fu il padre poi a contattare me, perché era venuto a conoscenza che stavo lavorando con la sua famiglia. Ad ogni modo i fatti reali devono diventare una storia da raccontare nel podcast e cerco sempre che sia la migliore possibile. Per questa ragione ogni tanto cambio qualcosa, ma è davvero un confine fragile. Al momento, per esempio, sto lavorando con un bambino che voleva ritrovare un amico conosciuto in vacanza, ma sarebbe stato troppo facile risolvere il mistero perché abbiamo scoperto abbastanza velocemente che questo amico stava lavorando in un film come attore. Così ho chiesto al bambino se potevamo far finta di non saperlo, in modo tale da rendere il mistero più interessante e avere una storia da raccontare. Per fare un altro esempio: ho incontrato una bambina che aveva una bambola preferita, l’aveva da tutta la vita ma nessuno della famiglia sapeva chi gliel’avesse regalata. Parlando con la madre, mi disse che forse veniva dal suo bisnonno, ma purtroppo era morto. Ce lo rivelò troppo presto, quindi decisi di dimenticare che sapevo e tentai di cercare il misterioso donatore insieme alla bambina. In questo senso cambio la realtà, solo piccoli dettagli, mai i fatti rilevanti.
Dall’altra parte, recentemente mi sono preoccupata del fatto che una bambina potesse essersi inventata tutto perché era completamente immersa nella sua fantasia. Lei ricordava un momento spaventoso vissuto con un vecchio amico, così abbiamo cercato di ricontattarlo, ma lui disse di non ricordare nulla. Probabilmente quindi, era solo una fantasia o un brutto sogno della protagonista. Se c’è qualcosa che succede solo nella fantasia dei bambini è divertente, ma c’è molto più da fare per creare una buona storia.
Ilaria: Come reagiscono i bambini quando ascoltano il loro episodio?
Sara: È una situazione molto tenera e sempre divertente. Si sentono strani quando risentono la loro voce, ma ciò che è davvero curioso è il fatto che loro non si rendono conto che abbiamo cambiato piccole cose. Ricordo un momento in fase di editing, in cui stavo ascoltando insieme al protagonista il suo episodio, nel quale stavamo grattando via il fango da una carta piegata, ma nella realtà questa cosa è accaduta in modo molto diverso. Tuttavia la bimba pensava che fosse accaduto esattamente come lo stava ascoltando. Capita spesso ed è davvero comico pensare che loro hanno problemi a riascoltare la loro voce ma non mettono quasi mai in dubbio la veridicità di quello che stanno ascoltando.
Ilaria: Quindi è come se creassi un ricordo diverso nella loro mente… E quando finisci il progetto, la relazione con i bambini prosegue?
Sara: A volte non mi rendo davvero conto quanto siano importanti gli incontri fatti e ora lo sono ancor di più, dopo essere arrivata al quindicesimo episodio. Tuttavia, non rimango davvero in contatto con i bambini, anche se vorrei. Quando mi è capitato di rivedere qualcuno di loro, ho notato che aspettavano per giorni il mio arrivo. Questo mi ha fatto capire che ho un grande impatto nelle loro vite, anche se per un breve lasso di tempo, ma poi improvvisamente sparisco anche se mi hanno condiviso cose molto intime. Mi rattrista, ma non posso fare diversamente. In alcune occasioni ho ricontatto alcuni partecipanti, magari perché scopro qualcosa che è accaduto nelle loro vite, come nel caso della separazione dei genitori di una bambina. Quindi vorrei tanto poter avere un ruolo nelle loro vite, ma è difficile e probabilmente insostenibile.
Ilaria: Il nostro progetto Turn on your ears, studia la relazione tra audio e teatro. Tu vieni dall’arte performativa e crei podcast: diresti che la pratica teatrale influenza il modo in cui pensi le tue produzioni audio?
Sara: Si assolutamente. Molti dei miei colleghi vengono dal giornalismo e noto che sono molto legati ai fatti, a cosa è reale e cosa no. Per me, invece, è molto più importante la storia e l’immaginazione: in questo senso penso sia chiaro che vengo dal teatro. Io voglio condurre il pubblico e attrarre gli ascoltatori non solo raccontando una storia vera. Quindi il teatro influenza il modo in cui penso la narrazione e anche al ritmo, alla musica, al suono. Se sei un pittore vuoi realizzare il più bel quadro possibile in una perfetta combinazione di tecnica e arte. Penso di amare l’audio come un pittore ama il suo quadro. Voglio raggiungere la migliore qualità audio e utilizzo questa forma non come una giornalista ma da una prospettiva artistica.
Ilaria: È davvero interessante la comparazione che fai quando dici che lavori all’audio come fossi un pittore, perché stiamo parlando di un’arte invisibile. Questo forse conferma che il pennello del podcaster è proprio l’immaginazione. Mi hai fatto ricordare Claudio Morganti, un attore di teatro italiano e anche creatore di radiodrammi, che un giorno mi disse che per lui il teatro è da ascoltare e la radio (o il podcast) è da vedere. Parliamo quindi della musica e del sound design: quanto sono importanti per creare una buona storia da ascoltare? Li crei insieme ai bambini o da sola?
Sara: No, i bambini non sono coinvolti in questa fare. Lavoro molto con il sound design per creare un mondo in cui gli ascoltatori possano immergersi dentro. Collaboro con un compositore che crea per ogni episodio di Sara’s Mysteries nuova musica. Mi confronto sempre con lui sul tema e l’atmosfera che voglio costruire. Per esempio un episodio aveva a che fare con la scrittura e l’invio di lettere, quindi ho chiesto una musica che prendesse spunto da suoni reali – come la mailbox, la matita… – ed è diventata qualcosa d’altro. Oppure ho semplicemente bisogno dell’abbaiare di un cane, per creare un contesto, ma ciò che cerco di fare è sempre un mix di suoni reali con la musica.
Ilaria: Sara’s Mysteries è anche una performance live. Perché portare il podcast sul palco e come cambia l’esperienza?
Sara: In quanto teatrante, è difficile proporre le proprie creazioni online e sapere che centinaia di bambini stanno ascoltando ma non vedere i loro volti e le loro reazioni. Per questa ragione, ho deciso di fare uno spettacolo, strutturato in due parti. Nella prima i bambini ascoltano un episodio della serie, in cui c’è spesso un cliff-hanger, così possono riflettere su cosa farebbero loro per risolvere il mistero. È un momento interattivo, perché discuto con il pubblico riguardo al macro-tema e chiedo cosa provano riguardo a ciò che hanno ascoltato. Nella seconda parte ci sono invece almeno tre bambini dal pubblico che salgono sul palco uno alla volta per risolvere il loro mistero. Io aggiungo temi musicali e effetti sonori durante la performance, per creare un grande mondo e cerco di mettere tutto in connessione anche arrivando a elementi un po’ strani. A volte c’è anche bisogno dell’aiuto di un altro membro del pubblico, quindi invitiamo qualcuno – anche un genitore o un altro adulto – a salire sul palco. Può servire un personaggio, quindi chiediamo: “chi vuole farlo?” oppure qualcuno che suoni la macchina sonora in scena. Il risultato è davvero molto coinvolgente. Io poi arrivo in scena con molte storie nella mia testa, per guidare sia il bambino che il pubblico.
Ilaria: Per concludere, una domanda un po’ strana: c’è un mistero che Sara – o la piccola Sara che è in te – vorrebbe risolvere (o che avresti voluto risolvere)?
Sara: Quando ero piccola i miei genitori hanno divorziato. Io sospettavo che mio padre avesse una nuova amante, ma non ero certa che volesse dirlo. Quindi avrei voluto andare a casa sua per controllare la lavastoviglie per vedere quanti piatti c’erano dentro. Questo è stato un grande mistero per me e ho davvero cercato di trovare delle prove: ho letteralmente guardato nel cesto dell’immondizia del bagno per vedere se c’era qualcosa di riconducibile a una donna. Mio padre non sapeva che ero così tanto curiosa riguardo la sua vita amorosa. Questo mostra anche quanti misteri i bambini hanno senza raccontarli ai genitori.
Ilaria: Pensi che lo risolverai mai?
Sara: In realtà l’ho risolto, c’era una donna nella sua vita e si è risposato. Ma ricordo che ero davvero curiosa riguardo l’amore e fu una questione importante nella mia crescita.
Ilaria: Hai qualche nuovo progetto a cui stai lavorando?
Sara: Si, sto lavorando su una versione di Sara’s Mysteries per i più grandi, adulti dai vent’anni circa, che si sta rivelando interessante perché i misteri sono molto più personali e meno “pazzi” come il voler entrare in una casa abbandonata per vedere se dentro c’è qualcosa. Al momento è più difficile che con i bambini, perché i misteri sono molto più complessi e difficili da risolvere. Ma sarà una bella avventura!
A scuola con Walter Benjamin e la sua radio
di Rodolfo Sacchettini
Partiamo dalla fine. La storia di Walter Benjamin si conclude nel modo peggiore. Lui, intellettuale ebreo, era fuggito dalla Germania dopo l’avvento del Nazismo e si era stabilito a Parigi. Con la disfatta della Francia, cerca di fuggire negli Stati Uniti, ma alla frontiera spagnola è bloccato e gli viene ritirato il visto di transito. La Gestapo lo sta inseguendo ed è a pochi chilometri di distanza. La notte del 25 settembre 1940, in attesa che la polizia di frontiera lo lasci passare, permettendogli così di imbarcarsi per l’America, Benjamin viene travolto dal panico e si suicida con una overdose di morfina. Questa è la fine tragica della storia. E siamo partiti da qui, io e Giovanni Guerrieri della compagnia dei Sacchi di Sabbia con la collaborazione di Davide Barbafiera, per fare un viaggio ancora più indietro nel tempo, insieme agli studenti della IIIA e IIIB dell’Istituto tecnico Marchi-Forti di Pescia e ai docenti Roberto Torre e Massimo Vitulano, per rievocare Walter Benjamin poco prima della fuga della Germania. Quando tutto si sta mettendo per il verso sbagliato. Ma ancora è possibile fare qualcosa. Tra il 1929 e il 1932 Benjamin comincia, anche per guadagnare qualche soldo, a collaborare con la radio di Francoforte, scrivendo un’ottantina di testi. Sono per la precisione “conferenze radiofoniche” rivolte alla gioventù tedesca, cioè ai ragazzini e alle ragazzine dai dieci anni in su. Che cosa raccontare ai giovani tedeschi, un attimo prima dell’ascesa del Nazismo? Mentre la Germania è sempre di più avvolta in un clima di violenza, quali sono le storie importanti da narrare e i valori da trasmettere? Un attimo prima della catastrofe, un attimo prima di quando i microfoni – e i giornali e tutti i mezzi di comunicazione e tutte le istituzioni educative – verranno negati agli ebrei e alle persone non perfettamente allineate al regime totalitario?
Questo laboratorio, realizzato all’interno del progetto Le parole di Hurbinek, ideato e diretto da Massimo Bucciantini a Pistoia per la Giornata della Memoria (dal 18 al 23 gennaio 2023), è servito per leggere assieme, discutere e registrare sei conferenze radiofoniche di Benjamin. Fin dall’inizio delle trasmissioni della radio tedesca molti intellettuali, da Benjamin a Brecht, credono che il nuovo mezzo di comunicazione possa essere utilissimo per l’educazione dei più giovani, anche se è ritenuto ancora uno strumento «antidiluviano», perché fatica a creare una necessaria forma dialogica tra chi parla e chi ascolta. Bisogna trovare la forma giusta. La famosa distinzione della BBC in tre canali per adempiere a tre funzioni diverse ma tutte essenziali, cioè informare, intrattenere ed educare -non convince i tedeschi che, per una società senza classi, vorrebbero ribaltare i piani: la cultura deve intrattenere e l’intrattenimento educare. Benjamin costruisce delle micronarrazioni, delle miniature radiofoniche (della durata di massimo venti minuti), dei racconti che hanno il sapere della parabola. Non sono testi facili e neppure rassicuranti, al contrario le conferenze radiofoniche si pongono come immersioni gentili in alcuni episodi della Storia che, con il trascorrere dei minuti, svelano una loro compiutezza, per risolversi non tanto in una morale, ma in una questione, una domanda, un dubbio, un cambio di prospettiva. Nella scelta delle conferenze abbiamo privilegiato i grandi temi affrontati da Benjamin, a partire dal confronto con personaggi reali o leggendari avvolti nel mistero e spesso svelati nella loro natura di imbroglioni (Cagliostro, Faust…). In secondo luogo abbiamo individuato il tema della catastrofe naturale o tecnologica, perché è un elemento essenziale per capire la corsa allo sviluppo dell’umanità. La luce della ragione non può rendere ciechi, il progresso umano è una costellazione di catastrofi, che servono a ridimensionare la potenza umana, a ricordarci dei limiti naturali e culturali. Infine abbiamo selezionato le conferenze dove si manifesta lo spirito critico che cerca di mettere in discussione stereotipi, pregiudizi, posizioni arbitrarie. Tra queste colpisce la conferenza dedicata al carcere. Come è organizzato il sistema punitivo rivela tanto di come è strutturato il potere. Benjamin descrive minuziosamente il modo di gestire le punizioni e la vita dei condannati all’interno della Bastiglia, il carcere occupato durante la Rivoluzione Francese e che diventa il simbolo della libertà. Perché la Bastiglia rappresentava il potere dell’Ancien Régime. Era un carcere al servizio del Potere, anziché del diritto. Ci ricorda Benjamin che a volte persino la crudeltà e la durezza sono sopportabili agli uomini, se essi sentono che sono sorrette da un’idea di giustizia. Altrimenti è solo Potere. Per questo la presa della Bastiglia segna una svolta non soltanto nella storia della vita politica dei francesi, ma anche in quella della loro vita giuridica. Dare voce alle parole di Benjamin, in modo corale e condiviso, con piccole drammatizzazione, diventa così un modo di lettura, ascolto, comprensione ed espressione.
Dentro e fuori la scuola: educare all’ascolto con radio e radiodrammi
di Agnese Doria
Talk radio, radio live, interviste audio, collaborazioni con web radio sono da sempre presenti nel lavoro di Altre Velocità fin dai primissimi anni di attività. Quando abbiamo iniziato a incontrare gli studenti delle scuole, non ha tardato quindi a fare capolino una modalità di cattura e deposito della voce che, soprattutto nell’orizzonte legato all’infanzia, ci pareva potesse restituire quel senso di meraviglia a cui dovrebbe sempre allenarci il teatro. Ciò che leggerete di seguito è un racconto, diviso in brevi capitoli, delle modalità che abbiamo immaginato per intrecciare l’educazione all’ascolto e registrazione audio, avendo come collante il teatro e le nostre esperienze di visione insieme alle nuove generazioni.
Un cuore caldo in modalità di scatto: il teatro raccontato dalla viva voce di bambini e bambine
Nel corso dell’anno scolastico 2016/2017 Altre Velocità ha iniziato a portare per la prima volta in maniera strutturata il progetto Crescere Spettatori nella scuola primaria. In alcune classi selezionate abbiamo condotto uno dei nostri percorsi di educazione allo sguardo (con incontri che precedono e seguono la visione di uno spettacolo), ma abbiamo inserito la anche la registrazione: desideravamo restituire quella vita che fiorisce dopo che un essere umano incontra il teatro. Acciuffare le voci e i pensieri nel loro farsi è l’istantanea sfocata di un’incandescenza; Non la fotografia immobile di un deposito scritto di pensieri, quanto la vita sfuggente di un pensiero che ci parla molto anche della natura del teatro stesso: il sipario si chiude ma il teatro non esaurisce la propria portata, continua a interrogarci e a porci domande e, nella migliore delle ipotesi, anche noi continuiamo a interrogare quell’opera.
Avremmo potuto decidere di far scrivere i bambini, come spesso facciamo con i preadolescenti e gli adolescenti, ma catturare la loro voce nel momento in cui costruisce un pensiero, acchiappare un ragionamento complesso nel suo farsi, ha qualcosa di grandioso e potente, vibrante e stupefacente. Abbiamo inoltre cercato valorizzare la riflessione individuale nel momento in cui diventa patrimonio di una piccola collettività, come la classe. Ne è nato un CD (con la collaborazione di Francesca Bini e Rodolfo Sacchettini), oggetto ormai desueto e dal retrogusto vintage, che – ci riportano le famiglie – è diventato per i bambini e le bambine un oggetto feticcio da ascoltare per riascoltarsi nella propria cameretta, e da infliggere ai familiari nei tragitti in auto. Queste voci raccolte sono state il, primordiale tentativo, di valorizzare e dare corpo al proprio pensiero verso una pratica di sguardo consapevole e critico.
Occhio alla radio: un modo per raccontare il teatro
Negli anni successivi sono stati tanti i tentativi di proseguire questa traiettoria dentro e fuori le classi: ci sono stati gli anni di Occhio alla radio (2019, 2020, 2021) progetto nato in collaborazione con SalaBorsa / Officinadolescenti (Bologna), e con Rodolfo Sacchettini, Lucia Oliva e Fungo di educazione allo sguardo in cui una redazione radiofonica composta da adolescenti sono stati chiamati a raccontare l’esperienza di visione tramite racconti e formati audio. Il teatro, gli aspetti più prettamente giornalistici (l’intervista, l’approfondimento, la recensione, l’inchiesta) e la conduzione radiofonica (l’uso della voce, la modulazione delle pause e del tempo della conduzione, l’uso dell’inframmezzo musicale, la creazione di un jingle) sono stati gli attivatori di una forma aggregativa potente. Andare a teatro in orario serale al di fuori della famiglia o della scuola, vivendo la notte, la città e le offerte culturali in modo più consapevole – e al tempo stesso libero – sono state le cornici per una palestra di educazione allo sguardo che, attraverso il dialogo, ha fornito un avvicinamento alle arti sceniche contemporanee per comprenderne i linguaggi, i temi e le domande rivolte al giovane spettatore. Per noi era fondamentale arrivare al mezzo radiofonico facendolo passare attraverso le maglie del teatro: quel che abbiamo chiesto ai ai più giovani è stato lo sforzo di prendere parola dopo una pratica condivisa di analisi di uno spettacolo, provando a cercare la propria voce e il proprio posizionamento di fronte a quell’oggetto artistico.
Occhio alla radio: Ascolta “OAR -Puntata 04 – Kobane calling on stage” su Spreaker. – Con intervista a Zero Calcare
«Riponete nello zaino quaderni e astucci». Perché ci ostiniamo a parlare di radiodramma
A partire dal 2020, per rispondere al mutato contesto pandemico durante il quale i teatri erano chiusi, abbiamo provato (io, Lucia Oliva e Beatrice Baruffini) a osservare il reale entrandoci in relazione, rendendo i confini del nostro fare quotidiano malleabili, plasmabili, senza perdere la radicalità della nostra identità. Al di là delle retoriche sulla pandemia come opportunità, il contesto ormai cambiato ci ha offerto tante domande, molte delle quali nuove e ancora inesplorate. Portare nelle classi una forma di educazione all’ascolto grazie all’ascolto di radiodrammi con i radiodrammi, ci ha permesso di mantenere un contatto con le grandi domande del teatro, provando a fare buio, ricontattare se stessi, Quello che abbiamo notato è che radio e l’opera teatrale radiofonica raccontano a questi giovanissimi di un tempo lontano, che ai loro occhi diventa quasi esotico, mitologico. L’impressione è che la forma radiofonica, il sonoro e l’audio abbiano toccato nel profondo e che qualcosa si sia risvegliato. Quel risveglio l’abbiamo percepito negli occhi attenti, nei micromovimenti delle pupille che cercavano, “vedevano” ciò che ascoltavano. Ho compreso, scossa da brividi, che il teatro si era manifestato ai loro occhi quando hanno applaudito alla fine dell’ascolto. Li abbiamo osservati, indugiando, mentre ascoltavano: ho scrutato le loro posture, le pause nelle loro azioni, i momenti di quiete, i movimenti interiori che arrivavano alla risata e manifestavano così la loro immersione in quella storia. Cosa ha significato portare nei contesti scolastici un laboratorio di ascolto? Cosa ha significato chiedere ai giovani e giovanissimi di ascoltare solamente senza avere nulla da vedere? Cosa ci hanno detto i radiodrammi di diverso da quello che ci avrebbe raccontato un podcast?
Avendo l’occasione di portare il progetto alle elementari, alle medie e alle superiori e in contesti scolastici estremamente eterogenei da svariati punti di vista (diversità economiche, sociali e culturali) abbiamo potuto notare l’impatto che la richiesta di immaginare aveva sui ragazzi: alcuni, soprattutto adolescenti, hanno riportato una difficoltà nell’immaginazione, nell’immersione in assenza di una visione a cui aggrapparsi. L’elemento visivo è preponderante nella società dell’immagine e l’immaginazione non è ritenuta, nei contesti scolastici, una soft skills capace di aprire varchi nel sapere istituzionale o nella possibilità di costruire percorsi autonomi.
Ascoltare in classe, insieme, un radiodramma è stata l’occasione per cambiare il paradigma di ascolto intimo, in cuffia, che i ragazzi frequentano quotidianamente. L’ascolto collettivo diventa un’azione sociale capace al tempo stesso di connetterci a noi stessi e alle reazioni dell’altro da sée, condividendo quella che a pieno diritto diventa un’esperienza della classe. Portare una primissima azione di “educazione all’ascolto” a scuola ci è parsa fin da subito una sfida inderogabile. Un modo per proporre alla comunità educante uno strumento di analisi attraverso un’esperienza diretta. La scuola è un luogo dove ci sono le condizioni per ascoltare e ascoltare se stessi? La comunità scolastica sa ascoltarsi reciprocamente? Quali sono gli ingredienti imprescindibili per un “buon ascolto”? Quale senso sociale, politico, storico affido all’esercizio dell’ascolto? Possono le risposte che ci diamo a queste domande rientrare tra gli orizzonti educativi di una scuola pubblica?
Il non fare come stile educativo
Nel nostro percorso di educazione all’ascolto ci piaceva proporre incontri che non producessero nulla, da cui si potesse uscire senza avere niente di materiale in mano: Non abbiamo nulla in contrario a quella pedagogia “del fare” che da Freinet a Don Milani, da Mario Lodi fino a Munari ha reso quotidiana e condivisa la frase «chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara» e che ha contribuito a cambiare il modo di intendere l’educazione. Ma siamo molto vigili quando la usiamo, consapevoli dello scacco culturale che si può generare: il laboratorio con un esito è più facilmente fruibile, ma questo non dovrebbe scivolare nella facile considerazione che sia quindi anche più utile. Il fatto di verificare immediatamente un risultato non motiva necessariamente l’utilità della proposta. Invece il tempo dell’ascolto mi fa sostare nella fatica dell’attesa, mi insegna a stare dentro alla frustrazione del buio, ad ascoltare le parole di un autore, magari distante da me nello spazio e nel tempo.
Se per i ragazzi di Don Milani lo sforzo era di procurarsi le parole necessarie per farsi riconoscere il diritto a una presa di parola, oggi per molti lo sforzo sta nel frenare un desiderio di intervenire sempre e comunque. Si potrebbe azzardare forse che il desiderio di partecipazione promosso dalla pedagogia del fare si è, nel corso dei decenni, mutato in bisogno di protagonismo. Questo bisogno trova terreno fertile nella retorica del protagonismo giovanile, che potrebbe tendere delle trappole se non la si affronta cum grano salis.
In conclusione, alfabetizzare all’ascolto
I progetti “sonori” condotti nelle scuole ci hanno permesso di far emergere l’invisibile che si muove nei più giovani. Ascoltare è sempre un ascoltarsi, attitudine che sarebbe opportuno esercitare nella società dell’individualismo sfrenato e che dovrebbe venire prima di una presa di parola consapevole e ponderata, in un contesto plurale e collettivo come quello delle classi. Siamo consapevoli che nuovi orizzonti si potrebbero percorrere anche a partire da tutti quei giovani con bisogni educativi speciali, che magari faticano nella lettura e potrebbero trovare nell’audio un agio e una piacevolezza capaci di includerli in un nuovo modo di fare scuola. Inoltre l’ascolto prevede un allenamento e un ampliamento della propria personale soglia di attenzione e si rivela, in questo, un valido alleato come pochi altri strumenti didattici; potrebbe, infine, rappresentare una vera e propria alfabetizzazione nei confronti dei NAI (nuovi arrivati in Italia), che grazie alla narrazione sonora potrebbero essere sorretti nella loro personale comprensione.
Per approfondire – I consigli di Altre Velocità
Ascolti:
La radio per le scuole Archivi – Rai TecheRai Teche: Trasmissione storica della RAI dedicata ai più giovani
Locomoctavia – Audiolibri: gruppo di produzione di audiolibri e storie sonore per bambini/e
Lettura:
R. Sacchettini, Radiogenie / Quando la radio faceva scuola, doppiozero.com, 12 Aprile 2020
M.V. Alfieri, La scuola in ascolto – Le potenzialità dei podcast nell’education, dalla Newsletter “Questioni d’orecchio” di Andrea De Cesco
AF – Altre frequenze è una delle azioni di Turn on your ears, progetto a cura di Altre Velocità, sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune di Bologna e dal Ministero della Cultura.
Gli autori
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Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.
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Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.
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Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.